Repubblica 16.6.18
Storia di Milena la Musa di Kafka che cambiò il ’ 900
di Melania Mazzucco
Il
cognome era Jesenská, il nome di battesimo fu reso eterno dalle lettere
d’amore che le spedì lo scrittore. Ma non visse all’ombra del genio: i
suoi testi ora ripubblicati svelano un’autrice di talento, dallo spirito
femminista
Provveda per favore che le mie lettere che erano in
mano di Franz siano date alle fiamme». Così, nel luglio del 1924, chiese
Milena Jesenská a Max Brod. Kafka era morto da poche settimane ma lei
non gli scriveva più da tempo — da quando, dal sanatorio sui monti
Tatra, Kafka le aveva rivolto una «preghiera veramente mortale e ad un
tempo un ordine: Non scrivere e impedisci che ci incontriamo». Questo
solo avrebbe potuto permettergli di continuare a vivere. All’amico,
anche Kafka aveva chiesto di bruciare le sue carte. Brod — come noto —
non rispettò la sua volontà, e la storia della letteratura del Novecento
è cambiata per sempre. La volontà di Milena fu invece eseguita, e così
la fittissima corrispondenza tra loro è oggi nota come un monologo. Uno
straordinario autoritratto dello scrittore, tanto da contenere la
celebre frase «Tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me
stesso». Insieme alla Lettera al padre e alle Lettere a Felice,
rappresenta il documento capitale per la conoscenza del mondo interiore
di Kafka.
Ma a differenza di molte destinatarie ammutolite dalla
distruzione delle loro lettere, la voce di Milena Jesenská è
sopravvissuta. Non solo perché Kafka cita nelle proprie lettere qualche
frase di lei. Ma perché Milena era una scrittrice. O avrebbe potuto
esserlo, se le circostanze della sua vita e della storia glielo avessero
permesso. Bionda, elegante, figlia di un ricco professore di
stomatologia all’università di Praga, aveva ricevuto un’educazione
moderna nel primo liceo classico femminile dell’Europa centrale.
Cresciuta nel privilegio, si era fatta notare per la sua libertà e il
suo anticonformismo: ostentava atteggiamenti lesbici, frequentava hotel
malfamati, sperimentava droghe e i poliziotti l’avevano sorpresa a
rubare nei negozi e a cogliere magnolie di notte in un parco (il
professore aveva sempre rimediato). Ma quando Kafka la conobbe, non
aveva un soldo.
Nel 1916, a vent’anni, Milena aveva intrecciato
una relazione con Ernst Pollak: dieci anni più vecchio, dandy,
donnaiolo, ma soprattutto ebreo. Per impedirle di frequentarlo e di
sperperare denaro per lui, il padre l’aveva perfino rinchiusa nel
manicomio di Veleslavin.
Invano, perché appena maggiorenne Milena
lo sposò e lo seguì a Vienna. Nel maggio del 1920, quando iniziò la
corrispondenza con Kafka, si guadagnava da vivere portando valigie alla
stazione, scrivendo articoli per la rivista Tribuna e offrendo
traduzioni dal tedesco. Tra queste, quelle di alcuni racconti di Kafka:
Milena fu una delle sue prime lettrici e la più lungimirante.
Riconobbe
subito il genio del timido, scrupoloso e tranquillo impiegato
dell’Istituto d’assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori di
Praga: un uomo insolito e profondo quanto i suoi testi.
Allora
Kafka soggiornava in una pensione di Merano per curarsi i polmoni. Così
lo descrisse Milena: «»lto, magro, il viso aguzzo e spigoloso, bello,
malvagio e incredibilmente buono». Aveva 38 anni ma, come le fece
notare, essendo ebreo, era già stato logorato dalla paura e
dall’angoscia.
Fidanzato con Julie Wohryzek, pur desiderando il
matrimonio cercava un’occasione per evitarlo. Milena invece ne aveva 24:
pur essendo anche lei malata, reduce da un tentativo di suicidio e
logorata dai tradimenti del marito, gli era apparsa come l’immagine
della vita stessa. Iniziarono a scriversi tutti i giorni. Lei scriveva
lettere che gli causavano tormento e spavento, lui lettere inconcludenti
e ossessive, che dovevano allarmarla e invece la stimolavano a cercare
di conoscerlo davvero. Pagine e pagine di riflessioni, progetti
bislacchi, fantasticherie. Kafka la sognava spesso, e i suoi sogni non
erano meno inquietanti e allucinati dei racconti che andava scrivendo.
Le corrispondenze da Vienna che lei andava pubblicando, invece, erano
spigliate e ironiche. Kafka apprezzava gli articoli di Milena. Trovava
fresco e vivace il suo cèco, e acutissime le sue osservazioni sui
costumi e i caratteri degli esseri umani. Non era solo l’amore per
quella giovane donna esuberante come un uragano, passionale (e perciò
terrificante come una Medusa) a renderlo così generoso nel giudizio.
Oggi
possiamo leggere le corrispondenze di Milena (tradotte però dal tedesco
da Donatella Frediani) nel volume Qui non può trovarmi nessuno,
curato
da Dorothea Rein e corredato da una esauriente nota biografica (editore
Giometti & Antonello). Le cronache viennesi di Milena
forniscono un vivido spaccato della vita nella capitale del defunto
Impero austroungarico nel primo dopoguerra — devastata dalla penuria, ma
irrimediabilmente frivola e noncurante, in cui ogni gerarchia sociale è
sovvertita (gli impiegati e i piccoli borghesi ridotti alla fame, gli
operai e i proletari arricchiti dalla borsa nera).
Milena scriveva
tuttavia anche articoli più personali: osservare il mondo stando in
disparte, come dietro il vetro di una finestra, era la sua vocazione.
Scriveva
di matrimonio, sesso, aborto. E di film. Fu tra le prime a intuire il
potere consolatorio e sonnifero della cinematografia americana e a
esaltare la modernità problematica di registi come Charlie Chaplin e
Mauritz Stiller.
Milena e Kafka, che lei chiamava Frank, si
scrissero un’infinità di lettere e telegrammi, ma si incontrarono solo
due volte. La prima, per 4 giorni, a Vienna, alla fine di luglio del
1920.
Kafka capì che lei non avrebbe lasciato il marito, Milena
che lui non avrebbe lasciato la sua malattia, che gli era necessaria per
vivere. Puro, privo di difese, Kafka era inadatto all’esistenza.
Perfino fare l’elemosina a una mendicante o chiedere un permesso al suo
superiore d’ufficio lo gettavano nell’angoscia. La seconda volta, fu in
un alberghetto di Gmünd, sulla frontiera. Un giorno solo, in agosto,
fitto di malintesi, causa di imperitura vergogna per lui e sensi di
colpa per lei, troppo donna — così Milena confessò a Max Brod — per
votarsi a una vita d’ascesi.
La rottura non mise fine
all’ammirazione di Milena per Kafka. Alla sua morte, scrisse un
necrologio che ancora sorprende per la lucidità con cui descrive l’uomo e
riconosce la grandezza dello scrittore. Se fosse sopravvissuto alla
tisi e all’angoscia, Kafka sarebbe diventato forse un esule incompreso e
ridicolo come il signor Kafka che insegnò ebraico a Philip Roth nella
Newark degli anni Quaranta (e che Roth raccontò in Ho sempre voluto che
ammiraste il mio
digiuno, ovvero, guardando Kafka). Milena
sopravvisse a Kafka, al marito e al parto difficile della sua unica
figlia, che la invalidò per anni e la rese morfinomane. Non divenne la
scrittrice che avrebbe potuto essere. Ma fu qualcosa di più: la
testimone della catastrofe europea.
Infatti, più degli spigliati
feuilleton che piacquero a Kafka, apprezziamo oggi i suoi articoli
onirici (come Un sogno del 1921, in cui lei, cristiana, profetizza la
persecuzione degli ebrei) e i reportage politici del 1937-39. Milena
narra con lucidità e orrore l’avanzata del nazismo nel suo paese e la
tragedia dei profughi — socialisti, comunisti ed ebrei — divenuti i
negri d’Europa e da tutte le nazioni democratiche compianti e respinti.
Nel 1939 si adoperò per far fuggire quanti rischiavano l’arresto e la
morte, fu a sua volta arrestata dalla Gestapo e finì nel campo di
concentramento di Ravensbrück. Libera e coraggiosa, amava ardentemente
la vita: era «forte come il mare», secondo la definizione di Kafka. Si
arrese a un’infezione renale solo il 17 maggio del 1944.