il manifesto 16.6.18
Rapporti armonici della vita cercati con parole e note
«La vendetta di Dioniso». Il saggio di Marco Maurizi mette alla prova l’estetica del filosofo Theodor Adorno
Emma Parker, «A book about being broken»
di Gianpaolo Cherchi
La
teoria musicale adorniana ha sempre subito critiche severe e
intransigenti. Vuoi per quel modo di fare filosofia della musica col
martello, vuoi per il legame che il filosofo tedesco Theodor Adorno
istituiva costantemente fra musica e dominio, i suoi giudizi sono spesso
stati visti come tentativi tendenziosi di piegare l’estetica
compositiva a esigenze di natura ideologica e politica, e le sue
invettive nei confronti della musica leggera e le critiche ingenerose
verso il jazz come il frutto di uno spiccato elitarismo aristocratico,
come l’espressione di valori ormai inattuali. Tuttavia, «che il nostro
tempo e la nostra musica siano diverse non significa che le analisi di
Adorno siano superate». Questo è il principio che anima il saggio di
Marco Maurizi La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da
Schönberg ai Nirvana (Jaka Book, pp. 317, euro 18). L’autore adopera le
categorie adorniane per metterle alla prova, tentando di comprendere se
possano essere utili ancora oggi, in un panorama musicale e culturale
completamente trasformato.
E PROPRIO parafrasando Adorno, l’autore è
convinto che oggi più che mai vi sia bisogno di una filosofia della
musica postmoderna, senza per questo credere all’esistenza del
postmoderno come categoria centrale della nostra epoca. La musica
postmoderna, infatti, non solo esiste senza alcun dubbio mentre la
filosofia postmoderna probabilmente no, ma «essa è infinitamente più
vitale, seria e, soprattutto, vera della sua controparte filosofica». Si
tratta infatti di una musica che travalica e supera le differenze
classiche fra alto e basso, colto e pop, tradizione e progresso:
all’unità organica preferisce la valorizzazione del frammento, al
carattere sistematico e chiuso dell’opera preferisce anteporre quello
aperto della performance.
Inoltre, il famigerato ruolo del soggetto –
la cui morte e dissoluzione viene cantata all’unisono dal coro di voci
bianche dei filosofi postmoderni – viene costantemente messo in
questione dalla normale prassi musicale, che mediante l’appropriazione
di temi altrui, l’ibridazione, le citazioni, costruisce un linguaggio e
un’istanza espressiva nuove, in un continuo trascendimento del canone.
Si capisce perciò in che senso Adorno parlasse della musica come di un
linguaggio non-intenzionale, proprio perché essa «infrange l’idea
dell’unità del soggetto prima ancora che si costituisca».
MA
CONSIDERARE ancora validi i suoi giudizi significa allora, forse,
respingere la tesi dell’invecchiamento della musica e della regressione
dell’ascolto? Al di là delle grossolane sviste sul jazz (solo in parte
giustificabili con la scusa di aver lasciato gli States senza assistere a
quel processo che dallo swing porterà prima al bebop e poi alla
rivoluzione del jazz modale) la lezione di Adorno sembra essere vera,
paradossalmente, nella misura in cui oggi la musica sembra essere andata
in una direzione contro-fattuale rispetto alle sue deduzioni. Da un
lato infatti, l’industria culturale si è col tempo appropriata del
processo di emancipazione della dissonanza, standardizzando e
neutralizzando la sua dialettica interna proprio laddove essa sembra
esprimere il maggior grado di libertà e varietà.
IL TENTATIVO à la
John Cage di giungere a una libertà compositiva assoluta si rivela ben
presto una «reazione paranoica al terrore dell’identico», e così il mito
della liberazione musicale finisce per essere un comodo sostituto della
liberazione sociale. Dall’altro lato, però, la musica sembra possedere
oggi il suo potenziale innovativo nel «sovraccarico concettuale del
suono», che permette di far saltare dall’interno «le forme fisse che
veicolano il piacere degli ascoltatori» operando uno «snaturamento del
linguaggio» che lotta contro ogni forma di regressione, senza
soddisfarsi di quello che Adorno chiamava l’appagante dei rapporti
armonici e simmetrici.
DA FRANK ZAPPA ai Velvet Underground, passando
per Johnny Rotten, i Sonic Youth e i Nirvana, la musica postmoderna ha
allora portato avanti metodicamente un ideale della «sporcizia» come
valore, e così è stata in grado di ridare nuova linfa persino alla
forma-canzone, risolvendo il problema «dell’apparente esaurimento delle
sue possibilità espressive» con la voce di Cobain che «canta ai limiti
delle sue possibilità fisiche».
E poco importa se le urla
sostituiscono la melodia. Bisogna piuttosto chiedersi, come faceva
Nietzsche: chi saprebbe mai confutare un suono?