sabato 16 giugno 2018

Repubblica 16.6.18
Mi attaccano perché sono donna »
Quella frase pericolosa
di Michela Marzano


Mi attaccano perché sono donna » , ha detto l’altra sera Virginia Raggi in televisione, rispondendo alle domande di Bruno Vespa durante la trasmissione Porta a Porta, subito dopo aver dichiarato che l’ex presidente di Acea, Luca Lanzalone, le era stato presentato dai ministri Fraccaro e Bonafede. E quindi? Il fatto di essere donna può esimerla dall’assumersi la responsabilità del proprio ruolo di sindaca di Roma? Essere donna significa non essere in grado di rispondere concretamente alle domande che le vengono poste sulla vicenda dello stadio? Che senso può mai avere questo incaponirsi a citare il proprio sesso di appartenenza, sempre e comunque, indipendentemente dal contesto e dalle circostanze?
Esistono realmente situazioni in cui il sesso, il genere o l’orientamento sessuale sono all’origine di importanti e gravi discriminazioni. Le donne continuano a guadagnare di meno rispetto agli uomini; nonostante le qualifiche, spesso non riescono ad accedere a posizioni di responsabilità; in molte circostanze, sono costrette ad abbandonare il proprio lavoro per dedicarsi alla famiglia e ai figli. Molte di loro sono vittime di violenze e di molestie sessuali — l’indignazione nata sulla scia del caso Weinstein ne è una prova recente e tangibile — e la dignità femminile continua fin troppo spesso a essere negata o cancellata. Ma quando ci si nasconde dietro il proprio sesso invece di mostrarsi all’altezza del ruolo che si ricopre, come ha fatto ieri sera la sindaca Raggi — e come aveva già fatto Maria Elena Boschi quando, durante una puntata di Otto e mezzo, era stata contestata da Marco Travaglio sulla questione di Banca Etruria — significa di fatto squalificare le battaglie di tutti coloro che, da anni, cercano non solo di abbattere il “soffitto di cristallo” che impedisce a tante donne, a parità di merito, di rivestire posizioni di responsabilità, ma anche e soprattutto di costruire un mondo dove le differenze sessuali non si traducano inesorabilmente in disuguaglianze e discriminazioni. Non è un caso che siano state molte le proteste, anche da parte delle donne, dopo le dichiarazioni dell’altra sera di Virginia Raggi: non si può cercare la solidarietà femminile quando, nascondendosi dietro il proprio essere donna, non si risponde nel merito e ci si ritrova a corto di argomenti.
Citare il proprio sesso invece di rendere conto delle proprie scelte e delle proprie azioni, e giustificare il proprio operato quando si riveste un ruolo politicamente ( ma anche economicamente o culturalmente) importante, è forse l’ultima cosa che dovrebbe fare una donna. Anche semplicemente perché il sessismo, purtroppo, esiste veramente. E nessuno dovrebbe permettersi di strumentalizzarlo. Il rischio è vanificare anni di battaglie, rendere inutili gli sforzi che tante donne compiono giorno dopo giorno per farsi riconoscere e rispettare, e, soprattutto, tradire il senso stesso della lotta per l’affermazione della parità uomo- donna. Essere uguali in termini di valore e di diritti significa d’altronde essere trattate nello stesso modo, rispondere alle stesse domande, assumersi le stesse responsabilità. Il che non vuol dire cancellare le differenze di genere, ma semplicemente rendersi conto del fatto che, quando si è sindaci o ministri o amministratori delegati o professori ordinari e donne, non basta femminizzare i termini per farsi poi riconoscere come ugualmente competenti e degni di considerazione; il proprio ruolo bisogna esercitarlo con uguale dignità e capacità. È possibile commettere errori, capita a tutti, indipendentemente dal sesso, dal genere o dall’orientamento sessuale. Guai, però, a non riconoscerlo, utilizzando il proprio essere donna come uno scudo. È ingiusto, è insopportabile, è persino puerile. Serve solo a giustificare la posizione di chi, incapace di accettare la parità, potrà sempre dire: è solo una donna, che cosa ci si poteva aspettare d’altro?