Repubblica 13.6.18
Internet e diritti
Eravamo persone ora siamo solo dati
Il
valore umano viene stabilito da algoritmi che studiano le abitudini in
Rete E questo ha dei riflessi anche sulla nostra identità, sul nostro
senso di precarietà, sulla nostra psiche
di Michele Ainis
I
neri d’America ridotti in schiavitù – diceva Tocqueville – non
s’accorgevano della loro disgrazia: avevano assimilato i pensieri d’uno
schiavo, e in genere ammiravano i propri tiranni più di quanto li
odiassero.
La nostra condizione non è troppo dissimile. Guardiamo
alla Silicon Valley come a un Eldorado, un paradiso tecnologico. Siamo
grati ai giganti della Rete per le opportunità sempre più allettanti che
ci offrono. Usiamo ogni nuova diavoleria come un giocattolo, e guai a
chi ce lo toglie dalle mani.
Infine tutto questo Bengodi è gratis, non costa nulla.
Ma
non è affatto un regalo, casomai uno scippo. Lo scippatore ci svuota le
tasche sia quando digitiamo qualcosa su un motore di ricerca, sia
quando rimaniamo inerti: basta possedere un dispositivo mobile perché ci
arrivi un consiglio non richiesto, la réclame d’un ristorante che si
trova proprio sul nostro itinerario, il titolo del film proiettato nel
cinema che stiamo oltrepassando.
E dalle nostre tasche lo
scippatore estrae di tutto, non soltanto i gusti di consumo: dati
sanitari, opinioni politiche, predisposizione al rischio, inclinazioni
sessuali, convinzioni religiose. Qualche esempio. A febbraio si è saputo
che Facebook aveva costruito un algoritmo per dedurre dall’enorme
quantità di dati in suo possesso il livello economico e sociale dei suoi
2 miliardi di utenti. Il risultato si ottiene combinando altri
parametri: per esempio dove vai in vacanza, se hai una laurea oppure no,
di quali apparecchi elettronici è composta la tua dotazione personale,
se vivi in affitto o a casa tua. Da qui una classificazione degli utenti
che riesce a suddividerli fra poveri, ceto medio, ricchi. Da qui, di
conseguenza, la pubblicità di un viaggio in business class oppure in
treno merci. D’altronde la stessa Facebook, un paio di mesi prima, tenne
una riunione con gli inserzionisti che avrebbe dovuto restare
riservata; e in quella riunione comunicò di possedere la capacità
d’individuare i teenager più vulnerabili, perché tristi, stressati,
insicuri, depressi. Anche in questo caso, il valore economico
dell’informazione consiste in una pubblicità mirata, come un fucile di
precisione.
E il fucile spara sulla preda colpendoci in ogni
istante della nostra giornata, non solo quando posiamo gli occhi sullo
schermo d’un computer. Giacché loro, gli algoritmi, possono stimare la
probabilità di malattie attraverso l’iscrizione alle liste elettorali:
difatti quanti si curano della comunità, partecipando al voto,
probabilmente si prenderanno cura anche del loro corpo (su tale
presupposto opera LexisNexis).
Possono misurare la nostra emotività dal modo con cui usiamo la tastiera del computer.
Possono
tutto, mentre noi non possiamo quasi nulla. La Magna Carta per l’era
digitale – invocata da Anthony Giddens su questo giornale – rimane sulla
carta.
In questo tempo nuovo si materializza così il fantasma di
Michel Foucault. «È il fatto di essere visto incessantemente, di poter
sempre essere visto, che mantiene in soggezione l’individuo
disciplinare», scriveva nel 1975 il filosofo francese. Del resto, come
potremmo ribellarci?
Se lo facessimo, se negassimo il consenso
alla radiografia che ci somministrano i Big Data, perderemmo l’accesso a
Google, la principale fonte d’informazioni nella società contemporanea.
Non potremmo usare i social network, ossia gli strumenti che ormai
nutrono la nuova forma della cittadinanza, la cittadinanza digitale.
Sarebbe come venire ricacciati fuori dalle mura della città, espulsi,
stranieri, derelitti.
Come imbarcarci nella Nave dei folli
immaginata – di nuovo – da Foucault, senza mai il permesso di
ormeggiare, di mischiarci alla folla urbana. Sicché rimaniamo in città,
però come merci, non come persone. Merci di valore, dal momento che
secondo una stima di International Data Corporation il business in
questione valeva, già nel 2017, oltre 150 miliardi di dollari. Tuttavia
la mercificazione della nostra identità ha un effetto sull’identità
medesima, la plasma, la conforma. Al culmine del trattamento che profila
i singoli individui, diventiamo un unico individuo, amorfo, senz’anima
né pelle. E quest’individuo unico e plurimo soffre una pressione
psicologica che ne comprime l’autostima, la considerazione di se stesso.
Per forza, se il tuo valore non dipende più da ciò che sei, né da ciò
che sai. Dipende piuttosto dalle informazioni che trasmetti, dal loro
valore commerciale. Eri una persona, adesso sei un informant. E ciò che
resta di te come persona subisce un senso di precarietà, di smarrimento.
D’altronde
in Rete tutto è cangiante e provvisorio. Tutto, salvo la vacuità
dell’esperienza digitale, che l’accompagna come un’ombra. Da qui un
degrado interiore, che si riflette sulla stessa psiche degli utenti:
secondo l’American Journal of Epidemiology, a un aumento dell’1 per
cento dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti, corrisponde
un peggioramento dal 5 all’8 per cento della salute mentale. Un danno,
ma altresì una beffa: perché il profilo elettronico catturato dai mille
filtri che agiscono sul web è sempre parziale, approssimativo. Chi lo
compra a scopi commerciali s’accontenta di un’identificazione precisa
magari all’80 per cento. E il restante 20? Un falso digitale, che
tuttavia si sovrappone alla nostra vera identità. Ammesso che ne rimanga
qualche scampolo.