Repubblica 12.6.18
Il romanzo di Mary Lynn Bracht
“Ecco la guerra segreta delle coreane diventate schiave del Giappone”
intervista di Filippo Santelli
Ci
vogliono decenni per curare le ferite di una guerra. Alcune perché
profonde, come la divisione che oggi Corea del Sud e Corea del Nord
stanno provando a sanare.
Altre perché nascoste, lasciate
incancrenire nell’inconscio individuale e collettivo. Mary Lynn Bracht,
39 anni, nata in Texas da una madre sudcoreana, aveva la giusta distanza
per raccontare una delle più oscure, quella delle “donne di conforto”
rapite durante la Seconda guerra mondiale dagli occupanti giapponesi,
deportate al fronte e costrette a prostituirsi per i soldati
dell’imperatore. Nel suo romanzo d’esordio Figlie del mare (Longanesi),
Hana è una di queste 200mila ragazzine della Corea (molte giovani
provenivano anche dalla Cina) strappate alle famiglie.
Si
sacrifica per salvare la sorella più piccola Emiko, che dopo
settant’anni e una vita passata a seppellire la vergogna della
sopravvissuta troverà la forza per affrontare il passato.
Una tragedia di cui in Corea del Sud a lungo non si è parlato: perché?
«Dopo
la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra di Corea c’era da pensare a
ricostruire il Paese e al conflitto contro i comunisti. Le donne
coinvolte provavano troppa vergogna per essere ancora vive: secondo la
cultura coreana una donna onorevole si sarebbe suicidata, parlarne
voleva dire condannarsi. La prima di queste comfort women che negli anni
Novanta ha denunciato i crimini giapponesi ha potuto farlo anche perché
non aveva famiglia».
È stata sua mamma a parlarle
delle donne di conforto?
«No,
l’ho scoperto quando avevo vent’anni, mentre mi preparavo a un viaggio
in Corea. Le ho chiesto perché non le avesse mai menzionate e mi ha
risposto che “tutti conoscevano la storia”. In Corea non se ne parla ai
figli.
Quando sono diventata scrittrice e ho scoperto che
lottavano ancora per avere giustizia mi sono immaginata che cosa
provano, dopo tante sofferenze, a dover ancora combattere».
Un riconoscimento dei crimini giapponesi è arrivato nel 2015.
«Non
è sufficiente. Il Giappone ha garantito dei soldi alla Corea, chiedendo
in cambio la rimozione della statua che ricorda la tragedia, di fronte
alla sua ambasciata a Seul.
Tokyo vuole solo che non se ne parli
più, non ha intenzione di inserire l’accaduto nei libri di storia.
Quelle donne vogliono essere ricordate come cittadine rese schiave con
la forza, per una guerra non loro».
Sia a Hana che a Emiko i ricordi si ripresentano in maniera improvvisa, brutale. Il passato non si lascia cancellare?
«Emi
viene costretta ad accettare la memoria, altrimenti non troverà mai
pace. Per Hana i ricordi sono un modo per cancellare la sofferenza, per
sopravvivere».
La loro è una famiglia di “haenyeo”, le pescatrici
subacquee dell’isola di Jeju, orgogliose della propria forza. Si
direbbero delle femministe.
«Non credo sia un romanzo femminista,
bensì un romanzo storico raccontato dal punto di vista delle donne.
Durante la guerra, su di loro si riflette immediatamente il fatto di non
avere scelta: non possono che sopportare quello che succede ai propri
Paesi. Nei libri di storia non ci sono, io volevo raccontare la loro
forza e il ruolo che hanno avuto dopo, nella ricostruzione della
comunità».
In Corea del Sud il movimento anti-abusi MeToo sta avendo enorme risonanza.
«Le
donne hanno trovato la forza per rivelare quello che hanno subito, a
scuola o sul lavoro, da uomini potenti; stanno rompendo gli schemi.
Molti degli accusati si sono dovuti dimettere, ma credo che per un vero
cambiamento il governo dovrà fare sua questa battaglia. L’intervento
delle istituzioni è necessario».
Nel romanzo sia Hana che Emi alla fine trovano una forma di riconciliazione. Anche le ferite più dolorose si possono curare?
«È
difficile ma credo di sì. Oggi restano in vita 29 donne di conforto e
spero che abbiano l’occasione per riconciliarsi con il passato».
Sembra più facile sanare la frattura tra le due Coree che quella tra Seul e Tokyo…
«La
Corea del Nord ha bisogno di aiuto, il Giappone no. Ma la Germania è un
esempio: dopo la Seconda guerra mondiale ha accettato la responsabilità
per l’Olocausto e le sue vittime, non si è nascosta. Anche un Paese può
fare pace con il suo passato».