martedì 12 giugno 2018

Repubblica 126.18
Il futuro dell’Unione
L’inerzia di Macron e Merkel
di Thomas Piketty

Mentre in Italia e in Spagna la crisi politica si aggrava, la Francia e la Germania continuano a dimostrarsi incapaci di formulare proposte precise e ambiziose per la riforma dell’Europa. Eppure basterebbe che questi quattro Paesi, che da soli rappresentano i tre quarti del Pil e della popolazione della zona euro, si mettessero d’accordo su una base comune per sbloccare la situazione. Come spiegare un’inerzia simile, e perché è così grave?
In Francia, la teoria in voga è che sia tutta colpa degli altri. Il nostro giovane e dinamico presidente non ha forse avanzato delle meravigliose proposte sulla rifondazione della zona euro, il suo bilancio e il suo Parlamento? Per sfortuna i nostri vicini non riescono a rendersene conto e a rispondere con la stessa nostra audacia! Il problema di questa teoria oziosa è che queste famose proposte francesi molto semplicemente non esistono: nessuno è capace di mettere in fila tre frasi che consentano di spiegare attraverso quali imposte comuni sarà alimentato questo bilancio, quale sarà la composizione dell’Assemblea della zona euro, chi eserciterà questa nuova sovranità fiscale e così via. Chiedetelo pure al vostro amico macroniano preferito, o se non ne avete — nessuno è perfetto — scrivete ai vostri giornali preferiti!
E un po’ come se i rivoluzionari del 1789, invece di formare un’Assemblea nazionale che permettesse di votare immediatamente l’abolizione dei privilegi e l’istituzione di un nuovo sistema fiscale, si fossero accontentati di annunciare che sarebbe stata cosa buona prendersi il tempo di riflettere all’istituzione di una commissione di riflessione finalizzata in prospettiva a salvare l’Ancien Régime. È la differenza tra fare qualcosa e parlare a vanvera.
In realtà le proposte francesi sono talmente vaghe che ci si può mettere dentro tutto e il suo contrario. Ed è proprio questo il problema: tutti i discorsi nazionalisti e antieuropei possono riversarcisi comodamente dentro. È facile denunciare oggi la pavidità di Angela Merkel, e in effetti la sua risposta alle « proposte francesi » è più che timorosa: stando alle ultime notizie, direbbe sì a un budget della zona euro per gli investimenti, ma a condizione che sia minuscolo (meno dell’ 1 per cento del Pil dell’Eurozona).
Tutto ciò senza dire nulla, naturalmente, sulle imposte comuni che dovrebbero finanziarlo (tanto che si rischia seriamente di ritrovarsi a riciclare investimenti già realizzati, a colpi di manipolazioni contabili, come con il piano Juncker). E naturalmente senza proporre nulla sull’indispensabile democratizzazione della zona euro. Si tratta semplicemente di ribattezzare il Meccanismo europeo di stabilità in «Fondo monetario europeo», cosa che esprime abbastanza chiaramente una visione iperconservatrice: applicare al Governo dell’Europa il modello del Fmi, vale a dire un Governo a porte chiuse, pilotato dai ministri dell’Economia e dalla tecnostruttura. Agli antipodi del modello di deliberazione parlamentare, pubblica, democratica e basata sul contraddittorio, che dovrebbe sempre avere l’ultima parola. È molto triste che Merkel e la Germania siano arrivati a questo, trent’anni dopo l’uscita dal comunismo e dalle certezze delle sue porte chiuse burocratiche.
Ma se è facile denunciare la pavidità della Merkel, è ora che i media francesi capiscano che non è altro che una risposta alla pavidità di Macron, che in realtà condivide lo stesso conservatorismo. In fondo, questi due dirigenti non vogliono cambiare nulla di essenziale nell’Europa attuale, perché sono vittime della stessa cecità: ritengono che i loro due Paesi non se la stiano cavando troppo male e che non abbiano nessuna responsabilità negli errori dell’Europa meridionale.
In questo modo, rischiano di far esplodere tutto. Dopo aver umiliato nel 2015 la Grecia, il cui Governo di «estrema sinistra» magari non era perfetto, ma aveva almeno il merito di promuovere dei valori di solidarietà nei confronti dei più poveri e dei migranti, si ritrovano, nel 2018, con l’estrema destra al potere in Italia, un Governo il cui solo collante — autorizzato dai regolamenti europei — è la caccia allo straniero.
Come uscire dall’impasse? Il problema è che buona parte dei dirigenti tedeschi e nordeuropei hanno spiegato da anni ai loro elettori che tutte le difficoltà dell’Europa erano causate da quei fannulloni del Sud, che questi volevano prendersi i loro soldi e che sarebbe bastato che si mettessero a lavorare e a esportare come dei tedeschi o degli olandesi per mettere a posto ogni cosa.
Sul piano economico, questi discorsi sono deliranti quanto le promesse del Fronte nazionale o della Lega ( perché nessuno al mondo potrebbe assorbire un surplus tedesco esteso a tutta la zona euro). Ma sta di fatto che questo fantasma dell’«unione dei trasferimenti » (Transferunion in tedesco corretto) blocca oggi qualsiasi riflessione.
Per uscirne, bisogna forse proporre che il futuro budget della zona euro, alimentato da imposte comuni sugli utili delle società e i redditi e i patrimoni più alti, votato da un’autentica Assemblea democratica, benefici ciascun Paese in misura della sua contribuzione fiscale (con trasferimenti netti limitati allo 0,1-0,5 per cento del Pil). Questa visione strettamente nazionale della solidarietà non è soddisfacente, ma in definitiva non è questa la cosa essenziale: l’obiettivo è innanzitutto permettere a un potere pubblico europeo di imporre la propria volontà agli operatori economici più importanti almeno tanto quanto a quelli più modesti, per investire nel futuro e ridurre le disuguaglianze all’interno dei Paesi. Discutiamo finalmente di Europa e avanziamo!