lunedì 11 giugno 2018

Repubblica 11.6.18
 Anniversari
“Mio marito Solgenitsyn a cena con Putin”
Cent’anni fa nasceva il grande scrittore russo di “ Arcipelago Gulag”
La moglie Natalia racconta le persecuzioni, l’esilio, il Nobel, il rientro in patria E gli incontri con il leader del Cremlino, da lui molto apprezzato
Intervista di Rosalba Castelletti


MOSCA L’autore di Arcipelago Gulag quest’estate sarebbe diventato centenario. Nel decennale della sua scomparsa è Natalia Solgenitsyna, la donna che passò quarant’anni al suo fianco, a incarnarne l’eredità.
L’infaticabile vedova settantottenne continua a editare i suoi scritti. «Un’opera sempre attuale, perché descrive il comportamento dell’essere umano nelle situazioni estreme e non le circostanze», dice a un incontro presso la Biblioteca di letteratura straniera di Mosca a cui partecipa anche La Repubblica. Tema: «Il rapporto dello scrittore russo con il potere». Uno dei soggetti privilegiati da Aleksandr Solgenitsyn, che scontò il suo dissenso con il Gulag e con l’esilio. Il libro La Quercia e il Vitello. Saggi di vita letteraria
racconta la lotta dell’autore, mansueto vitello, contro il regime sovietico, inamovibile quercia. Ce ne può parlare?
«Il libro non parla solo degli ostacoli che il potere creava al letterato, ma anche dei letterati sottomessi alle autorità. Gli scrittori non scelgono questo mestiere. Scrivono perché non possono non scrivere. Sotto l’Urss avevano due scelte: scrivere e mettere tutto in un cassetto o scendere a compromessi per superare la censura. La cosa più triste è che gran parte dei letterati accettarono le regole del gioco.
Dovevano iscriversi all’Unione degli scrittori, un’organizzazione burocratica che soffocava i dissidenti con le mani dei loro stessi colleghi».
Il libro è ancora attuale?
«Sì. Il suo messaggio è che, anche se sei solo, puoi combattere. Se sei capace di resistere e il tuo avversario lo capisce, acquisti una forza potente. Ma non tutti sono pronti. Nel libro sono descritte vicende di sessant’anni fa, ma il comportamento di una persona in una situazione estrema è sempre lo stesso. Applicatelo a voi stessi.
Questo libro è ancora attuale come tutti i libri di Solgenitsyn. C’è l’opinione superficiale che Solgenitsyn scrivesse solo dei campi di lavoro. Sì, ne ha scritto, ma la sostanza dei suoi libri non è questa.
Solgenitsyn descriveva il comportamento delle persone nelle situazioni estreme. Si ispirava alla sua esperienza personale: l’infanzia senza padre, la guerra, il gulag, l’esilio. Descriveva la gamma di comportamenti di un essere umano costretto ad affrontare situazioni difficili che richiedono scelte difficili».
Nel 1974 Aleksandr Solgenitsyn fu privato della cittadinanza, espulso dal Paese per cui aveva combattuto e che lo aveva fatto prigioniero.
Trascorse in esilio vent’anni.
Come visse quel periodo?
«I primi mesi si chiedeva se potesse scrivere o meno. Aveva paura. Poi la paura passò e scrisse per tutti i vent’anni trascorsi in Occidente.
Solgenitsyn era stato insignito del Nobel nel 1970, ma non era andato a Stoccolma per paura che non gli avrebbero permesso di tornare.
Solo dopo che fummo espulsi, andammo a Stoccolma a ritirare il premio. Ci fu una conferenza stampa in una sala colma di giornalisti di tutto il mondo. A una domanda Solgenitsyn rispose che pensava che sarebbe tornato presto in Russia. Pensava che l’Urss avrebbe cessato di esistere.
Quando gli fu chiesto come sarebbe stato possibile, rispose che secondo lui il comunismo non sarebbe durato a lungo. In sala ci fu un sorriso accondiscendente, ma nessuno gli credette. Nessuno ci credeva neppure in Russia. Nel 1983, un giornalista britannico gli chiese se pensava che i suoi libri sarebbero mai tornati in Russia. E lui rispose: “Non solo i miei libri, ma io stesso. Tornerò in Russia da vivo”. E il giornalista lo guardò come se fosse troppo naif».
Durante gli anni trascorsi in esilio in Occidente, che cosa ha appreso?
«Non pensava che tutto quello che c’era in Occidente potesse essere adattato alla Russia. Pensava però che un Paese così grande non potesse essere gestito solo dal Cremlino. Dal Cremlino è impossibile vedere cosa succede a Vladivostok. Insisteva sulla necessità di un autogoverno locale.
Citava due esempi a modello: la Svizzera e il New England. La “democrazia dei piccoli spazi”. I primi tempi, dopo essere tornati, veniva invitato spesso alla Duma e ne parlava».
Della “democrazia dei piccoli spazi” e dell’autogoverno locale ha scritto nel pamphlet “Come ricostruire la Russia” poco dopo il crollo dell’Urss. Perché, al suo rientro in patria nel 1994, non partecipò attivamente alla “ricostruzione”?
«Non voleva avere alcun ruolo politico. Non voleva aderire a nessun partito. Voleva solo che le autorità lo ascoltassero. Voleva dare consigli perché aveva speso tanti anni a studiare la storia russa. Era uno statista. Perciò il suo saggio di allora resta valido».
Una volta eletto presidente nel 2000, Vladimir Putin volle incontrare Solgenitsyn. Che rapporto aveva suo marito con il leader del Cremlino?
«Quell’incontro ha un antefatto.
Solgenitsyn odiava il telefono. Nella stanza dove lavorava non ce n’era.
Rispondevo io alle chiamate e, se necessario, lo convocavo. Un giorno telefona un ufficiale di collegamento di Putin. Dice che il presidente ci invita al Cremlino per fare la nostra conoscenza. Io rispondo che dubitavo ci saremmo andati. “Se Putin vuole conoscere Solgenitsyn”, dissi, “che venga”. E così fu. Putin venne da noi a fine giornata insieme all’allora moglie.
Solgenitsyn e Putin parlarono per due ore, mentre io m’intrattenevo con Ljudmila Putina. Poi, quando si era già fatto tardi, scesero al piano terra. Stavo preparando del tè, ma Putin chiese qualcosa da mangiare.
Dopo quell’incontro, ce ne furono altri due. Nel 2007 Putin tornò a casa nostra per conferire a Solzhenitsyn la massima onorificenza statale. La sostanza del loro colloquio fu questa: Solgenitsyn pensava che la politica di Gorbaciov fosse stata debole e avesse lasciato espandere la Nato e che Eltsin fosse stato altrettanto irresponsabile. Era soddisfatto invece dai primi passi di Putin in politica estera. Putin era riuscito a risollevare il Paese dal fondo nel quale lo avevano cacciato i suoi predecessori».
Che relazioni ci sono oggi tra Putin e gli scrittori?
«I rapporti sono diversi rispetto a quando c’era l’Urss. Nell’Unione sovietica gli scrittori avevano un ruolo importante, ma non potevano pubblicare i loro libri senza superare censura e pressioni e senza ottenere l’autorizzazione delle autorità. Ora gli scrittori non sono più importanti, ma possono scrivere qualsiasi cosa, non devono ottenere le autorizzazioni di diverse commissioni per pubblicare. Non ci sono più rapporti tra potere e scrittori. A partire dagli anni Novanta, mi sembra che il potere non abbia più bisogno degli scrittori, perché la letteratura ha perso il ruolo educativo che aveva una volta. I grandi scrittori oggi non hanno bisogno del potere, quelli piccoli sì per fare stampare i loro libri. Ci sono molti scrittori e poeti brillanti, ma non ci sono pensatori, quei letterati che tutti riconoscono essere i più grandi. La società è spaccata. Gli scrittori non guidano la società, per questo il potere non ne sente più il bisogno. La situazione può cambiare, magari sta cambiando. Più l’Occidente esercita pressioni sulla Russia più il popolo si compatta. Magari un giorno si riconoscerà in un letterato e allora il potere ne avrà bisogno.
Tra l’altro l’Occidente sta facendo un errore strategico. Sta ottenendo una cosa opposta a quella che vorrebbe».
Oggi il vero problema è l’autocensura. Non crede?
«Quando c’è libertà totale, l’autocensura ci vuole. Non quella politica, ma quell’artistica, morale, etica. Aleksander Tvardovsky, direttore di Novij Mir, che pubblicò molti libri di Solgenitsyn, lo capiva. Solgenitsyn non era d’accordo con lui, ma se ne pentì. Quando ci fu libertà totale, l’impressione fu terribile».
Nabokov e Solgenitsyn si erano accordati per incontrarsi.
Perché l’incontro non ci fu?
«Non so di chi fu la colpa.
Quand’eravamo a Zurigo, si scambiarono un paio di lettere.
Nabokov si congratulava con Solgenitsyn per aver riconquistato la libertà, Solgenitsyn rispondeva che purtroppo i figli dei suoi amici non potevano studiare in un Paese libero. Fu una corrispondenza breve. Nel novembre 1974 avevamo programmato un viaggio per la Svizzera e Nabokov ci invitò a fargli visita. Gli comunicammo le date del nostro viaggio, ma non ricevemmo risposta, però non potevamo rimandare quel viaggio. Una volta a Montreaux giravamo intorno al Palace Hotel, indecisi se entrare o meno. Nabokov ci aspettò per un’ora al ristorante. Evidentemente la sua lettera non arrivò. Nel 1972 Solgenitsyn aveva proposto di conferirgli il Nobel. Gli dispiacque che la fondazione non lo ascoltò».