Repubblica 11.6.18
L’analisi
La doppiezza del contratto
di Gustavo Zagrebelsky
Il
testo pubblicato è un estratto del discorso che Gustavo Zagrebelsky ha
pronunciato ieri a Bologna, in piazza Santo Stefano, sul palco di
“Repubblica delle Idee” nel corso di un incontro intitolato “La
Costituzione ha un futuro?”
Il governo si configura come una
propaggine del “patto”, anche visivamente rappresentata dalla presenza
dei due firmatari seduti l’uno a sinistra e l’altro a destra del premier
Conte
Gustavo Zagrebelsky, professore emerito di diritto
costituzionale all’Università di Torino, ex presidente della Corte
costituzionale, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino,
dell’Istituto lombardo di Scienze e Lettere e dell’Accademia nazionale
dei Lincei
La parola contratto, nelle questioni
politiche, può avere significati diversi. Si cita spesso il
Koalitionsvertrag tedesco, il “contratto di coalizione” del 14 marzo di
quest’anno concordato fra tre partiti ( Cdu, Csu e Spd), come esempio di
prassi politica virtuosa. È un documento di 173 pagine che contiene un
progetto politico onnicomprensivo, in vista d’un governo di lunga durata
e d’una società integrata in una visione comune. Se ne sono celebrate
le virtù, come modello valido anche per il nostro Paese, senza
considerare le profonde differenze di struttura e di quadro
costituzionale in cui esso è stato elaborato. In primo luogo, il
“cancellierato” tedesco non è il sistema parlamentare italiano.
Il
contratto può in effetti essere cosa diversa da quel “contratto di
coalizione”. Può essere cioè la sistemazione di interessi particolari
che, per realizzarsi, richiedono l’assenso di altre parti. Questo è il
significato “ privatistico” di contratto: accordo attraverso scambi e
concessioni reciproche per realizzare propri propositi, propositi che
restano parziali anche a stipulazione conclusa. Si potrebbe dire: una
tregua consensuale in vista non della pace, ma del consolidamento
temporaneo delle posizioni.
La mera sommatoria di interessi è
dissolutiva della Costituzione, come visione e concezione d’insieme
della vita della pòlis. Sorprende che su questa incompatibilità non sia
stata richiamata l’attenzione che essa avrebbe meritato. Non stiamo
parlando qui del “ contratto con gli italiani”, quell’artificio retorico
e propagandistico che nella sostanza era solo una serie di promesse
rivolte a sedurre l’elettorato. Si parla di qualcosa che vorrebbe essere
un vero contratto tra parti politiche rappresentate dai loro capi, con
tanto di stipula davanti a un notaio, firmata da due persone, contenente
una clausola che demanda la risoluzione dei contrasti interpretativi a
un organo detto “comitato di conciliazione”: una sorta di giurisdizione,
analogamente al “foro competente” che gli stipulanti nei contratti di
diritto privato individuano per il caso di lite.
I punti di vista e
le visioni restano distinti. Per quanto in ogni contratto politico le
aspettative delle parti non riguardino solo utilità particolari, ma
anche le misure da prendere per il governo della società, resta il fatto
che il risultato è una sommatoria di progetti che restano distinti
dall’inizio alla fine. La fragilità e la provvisorietà sono insite in
questo genere di accordo. Il vero cemento che unifica non è il progetto
comune ( che si stenta a vedere), ma il potere: un cemento resistente.
Se fosse un vero programma politico comune, non avrebbe bisogno di
notai. Semmai – come nel “contratto” tedesco – richiederebbe verifiche
nel corso della vigenza, e non “fori competenti” per la soluzione dei
contrasti che già dall’inizio si mettono nel conto, come nei matrimoni
d’interesse.
In effetti, alla semplice lettura il contratto
nostrano mostra la sua duplicità, anzi la sua doppiezza. È facile
identificare l’esistenza del doppio
imprinting che segna non solo
visioni di società distinte, ma addirittura aspirazioni territorialmente
localizzate in latitudini diverse, corrispondenti alla localizzazione
delle rispettive forze elettorali.
La doppia anima del contratto,
se ce ne fosse bisogno, è stata confermata dal dibattito parlamentare.
Ciascuna parte contraente ha parlato principalmente di ciò che le stava
particolarmente a cuore, ignorando il resto. Non avrebbe potuto essere
diversamente. Su ciò da cui potranno nascere contrasti per l’avvenire, è
stato meglio rifugiarsi nel silenzio o in formule fumose, in
compromessi lessicali. Il pensiero corre al reperimento delle risorse
necessarie a realizzare i programmi rispettivi o alla collocazione
nazionale nel contesto sovranazionale e internazionale. Al netto del
potere, l’equilibrio è precario ma aggressivo sulle istituzioni
costituzionali. Lo spostamento del programma politico in una sede
contrattuale del tipo anzidetto ha implicato una serie di esautoramenti.
Non c’è bisogno di molte parole, bastano i fatti. Il Parlamento ha
ricevuto un programma in cui non ha avuto voce alcuna ed è chiamato ad
attuarlo, non a discuterlo.
Il governo si configura come una
propaggine del contratto, anche visivamente rappresentata dalla presenza
dei due firmatari seduti l’uno a sinistra e l’altro a destra del
presidente del Consiglio. Il quale, a sua volta, per impossibilità
logica prima che politica, non è figura autonoma che possa fare ombra ad
alcuno dei due contraenti. È lì per esporre, eseguire o al massimo
mediare, mentre la Costituzione gli attribuisce un ben diverso compito
di direzione della politica generale e di garanzia dell’unità
dell’indirizzo politico e amministrativo del governo. Perfino il
presidente della Repubblica è stato sottoposto a una pressione mai
vista, culminata nella minaccia d’incriminazione per “alto tradimento e
attentato alla Costituzione” avendo sollevato obiezioni circa la
composizione della compagine ministeriale dal punto di vista della
tutela dell’interesse nazionale: evitare il rischio di qualcosa come il
“fallimento” dello Stato. La minaccia era velleitaria secondo il diritto
costituzionale vigente ed è caduta. Non però per scrupoli giuridici ma
per sopravvenute diverse strategie politiche che l’hanno fatta apparire
controproducente rispetto alla tenuta del contratto di governo.
Le
tensioni che si sono manifestate possono facilmente essere viste come
primizie di ciò che potrebbe accadere se e quando in futuro misure
necessarie all’attuazione del contratto fossero sottoposte al controllo
della Corte costituzionale. Lo si comprende: il contratto non può essere
“ smontato” pro parte. Verrebbe meno il punto d’incontro tra gli
interessi divergenti delle parti che lo hanno sottoscritto. Verrebbe
meno l’interesse congiunto a mantenerlo in piedi.
Si dirà:
tuttavia in ogni governo di coalizione deve esistere un programma e il
programma deve pur essere oggetto di trattative e compromessi. Ciò è
ovvio. Ma non è indifferente chi prende l’iniziativa e chi la conduce
avanti. Una cosa è il programma steso in colloqui riservati e tra
soggetti operanti in forma privata (come in effetti è stato) e poi
presentato ultimativamente agli organi costituzionali per la sua
ratifica ed esecuzione; un’altra cosa è se, secondo procedure
consolidate nel sistema di governo parlamentare, si procede a partire
dal presidente della Repubblica che individua il soggetto idoneo a
formare un governo sostenuto da una maggioranza in Parlamento. Questo è
il proprium del governo parlamentare. Nella sostanza della procedura
seguita nella formazione del governo oggi in carica, questa fase è stata
di fatto soppressa. Il presidente della Repubblica ha atteso che altri
operassero per incontrarsi in sede per così dire privata, arrivando a
individuare vincolativamente il presidente del Consiglio che il capo
dello Stato ha poi nominato. Gli organi costituzionali si sono ristretti
e il potere di fatto di due capi politici si è allargato.
Impossibile
negarlo: la Costituzione arranca. Sono giustificate le previsioni
funeste per l’avvenire? Davvero la Costituzione è una nozione dépassée,
secondo la formula usata tanti anni fa da un costituzionalista come
Georges Burdeau? Le previsioni sono sempre rischiose e tuttavia pare di
intravedere qualcosa che, con tutte le differenze del caso, sotto
l’aspetto del post-moderno sembra celare qualcosa di pre- moderno. La
Costituzione, come l’intendiamo, è un progetto che mira a sottoporre le
forze politiche e sociali a un ordine voluto e progettato secondo un
qualche piano razionale d’insieme, scritto in un documento riconosciuto
come fondamento; prima dell’epoca delle Costituzioni, solo due secoli e
mezzo fa, la Costituzione era un’altra cosa: era l’insieme di quelle
forze, dei loro equilibri, della loro lotta per migliorare le proprie
posizioni a scapito delle altre. Non ci vuol molto per comprendere che
in questa lotta si riversavano le prepotenze dei più forti, cioè
precisamente ciò che noi consideriamo propriamente anticostituzionale.
La
vita delle potenze del nostro tempo mira non alla loro
costituzionalizzazione, ma alla propria de-regolazione politica e alla
loro libera competizione. Tuttavia, se prendiamo in considerazione la
disgregazione sociale, la riduzione dei diritti e la crescita delle
disuguaglianze e le tensioni distruttive che ne derivano: se
consideriamo tutto ciò, a che cosa d’altro potremo allora rivolgerci,
quando verrà il momento, per tentare di mettere un qualche ordine nelle
nostre società, come già fu al tempo del crollo dell’Antico Regime, due
secoli e mezzo or sono? A che cosa d’altro, se non a una costituzione
politica, sia essa nazionale o sovranazionale ma comunque una
Costituzione, ripeto, politica?