domenica 10 giugno 2018

Repubblica 10.6.18
Il sindacalista dei migranti
“Ho studiato Di Vittorio ma io come Soumayla qui in Italia sono uno schiavo”
intervista di Paolo Griseri


Calabria, Texas. Quella che racconta Aboubakar Soumahoro, bracciante ivoriano di 38 anni, non è una semplice storia di sfruttamento. Abou la spiega con estrema semplicità, quella che in poche ore dopo un passaggio in tv lo sta trasformando in un eroe dei social. La sua denuncia è cruda: «Siamo arrivati alla razzializzazione».
Che cos’è la razzializzazione?
«Semplice: tu sei straniero, quasi sempre nero. Dunque sei ricattabile. Dunque ti pago di meno».
2018, Calabria, piana di Gioia Tauro: un Texas dell’Ottocento con le arance al posto del cotone.
Abou, conosceva Soumayla Sacko?
«Era un bracciante, un sindacalista dei braccianti come me. Certo che lo conoscevo, lo conoscevo bene».
Non aveva paura di vendette?
«Tutti noi abbiamo paura delle vendette. Ma rivendichiamo il nostro diritto di parlare. È l’unico modo che abbiamo per difenderci».
A chi date fastidio?
«A quelli che ci tengono nella gabbia costruita dalla Turco-Napolitano prima e dalla Bossi-Fini poi. Se protesti ti licenziano, se ti licenziano ti tolgono il permesso di soggiorno, senza permesso di soggiorno entri in clandestinità».
Così vi ricattano?
«Certo. Lavori 12 ore al giorno ma sul contratto ne segnano molte di meno. Così non pagano le tasse e a fine mese la tua busta paga ufficiale è di 50 euro».
Quanto guadagna lei in realtà per 12 ore di lavoro?
«Trenta euro».
A fine mese sono 900 euro?
«Assolutamente no. Arrivi a 6-700. Ma dipende se piove, se ti scelgono per lavorare. Per questo viviamo nelle baracche: come si fa ad essere sicuri dello stipendio?
La bolletta dell’affitto scatta tutti i mesi».
Lei come è arrivato in Italia?
Traversate nel deserto, scafisti?
«Diciassette anni fa ho ottenuto un visto turistico, ho preso un aereo e sono andato in Francia. Da lì sono venuto in Italia, in Campania, dove avevo degli amici che già lavoravano nei campi.
Bisogna dirlo al ministro dell’interno che arriviamo anche in aereo, non solo sui barconi».
Com’è cambiata la situazione in questi 17 anni?
«Per noi è peggiorata. Sul piano sociale le diverse leggi sull’immigrazione ci hanno tolto ogni giorno nuovi diritti. Noi oggi siamo schiavi di Stato nel senso che è lo Stato ad aver creato le condizioni della nostra schiavitù. Che poi è diventata anche una schiavitù razziale».
In Italia c’è il razzismo?
«Certo. In questi diciassette anni l’ho visto arrivare. Prima gli italiani erano timidi. Facevano le battutine, come se avessero pudore. Si capiva quel che pensavano ma si intuiva anche che non osavano dirlo».
Quando è peggiorata la situazione?
«È peggiorata con la crisi. Molti di quelli che si sono impoveriti hanno cominciato a pensare che la colpa delle loro disgrazie fossimo noi. I timidi di ieri sono diventati coraggiosi. Hanno cominciato a urlarmi per strada: “Negro, vattene nel tuo paese”.
Due volte, sull’autobus, agli insulti hanno aggiunto le botte».
Come avete reagito?
«Abbiamo deciso di studiare».
Studiare?
«Certo. Io e i miei compagni ci siamo messi a studiare sociologia. Ci piace molto il pensiero di Di Vittorio, che faceva il sindacalista nelle campagne del Sud italiano, come noi. Lui denunciava il fatto che i profitti si alzano e i salari non li seguono».
Avete cominciato a parlare di Di Vittorio agli immigrati di Gioia Tauro?
«Certo. Noi facciamo assemblee con tutti i braccianti, senza distinzione di nazionalità. Ci teniamo molto che gli italiani siano con noi. Sono loro, che hanno più diritti, a poter contrattare i salari con i contadini. E anche con lo Stato.
Vogliamo un incontro con Di Maio, il nuovo ministro del Lavoro, per raccontargli la storia della nostra schiavitù».
Chi è la vostra controparte?
«Sono i padroni della grande distribuzione. Chiunque vada al supermercato capisce che le arance e i mandarini a quei prezzi si possono avere solo pagando la gente in nero a 2,5 euro l’ora. E questo è uno scandalo. Che è possibile solo grazie al sistema che toglie diritti soprattutto a noi braccianti neri. Per questo dico che siamo oltre lo sfruttamento.
Che siamo alla razzializzazione: tu sei immigrato, hai la pelle scura, sei ai margini perché sei ricattabile. E le arance costano quattro soldi».
Parlava di queste cose con Sacko?
«Ne abbiamo parlato tante volte nelle riunioni del nostro sindacato, l’Usb».
Pensa che sia stato ucciso per la sua lotta a fianco dei braccianti?
«Questo non lo so. Dovrà deciderlo l’inchiesta. Certo non è stato ucciso per un furto, come si è cercato dire all’inizio. Adesso stiamo raccogliendo i fondi perché il suo corpo possa tornare in Mali, dalla sua famiglia».
Abou, dopo le sue apparizioni in tv, sui social hanno proposto che sia lei a indicare la strada ai partiti della sinistra italiana, oggi, diciamo, un po’ confusi. Che cosa ne pensa?
«Io sono un sindacalista. Il mio mestiere è difendere i diritti dei braccianti. Chiunque ci voglia dare una mano è benvenuto e valuteremo insieme se fare un pezzo di strada insieme. Ma per me è chiaro che fino a quando rimarrà in piedi anche solo una baracca di braccianti costretti a vivere sotto le lamiere, il mio mestiere sarà quello di rimanere lì, a lottare per poter abbattere un giorno quella baracca».