domenica 10 giugno 2018

Il Sole 10.6.18
Yunos
«Siamo imprenditori per natura» parola di capitalista riluttante
A tu per tu. Il Premio Nobel per la Pace e inventore del microcredito, il bengalese Muhammad Yunus, ha una fede sconfinata nel talento umano, ma quello dei tycoon della Silicon Valley inizia  preoccuparlo
di Marco Masciaga


È un difensore del libero mercato, ma è convinto che il capitalismo sia la causa di molti dei mali che ci affliggono. È per la deregulation, ma vorrebbe che l’Onu stabilisse cosa le società tecnologiche possono e non possono fare. Ha il mito dell’imprenditore, ma guarda con sospetto alla ricerca del profitto. Se esiste un uomo contraddittorio – almeno per gli schemi ideologici in voga oggi in Occidente – è Muhammad Yunus.
Eppure il 77enne economista bengalese, vincitore del premio Nobel per la pace nel 2006 per avere fondato la Grameen Bank e con essa il microcredito, da qualche tempo trova più ascolto in questa parte di mondo che in Bangladesh, dove il primo ministro Sheikh Hasina lo ha definito «una sanguisuga dei poveri» e sembra considerare il più illustre dei suoi concittadini come una minaccia. «Lei (nel corso della nostra conversazione la premier non verrà mai citata per nome, ndr) pensa che, siccome sono molto popolare, se un giorno dessi vita a un partito diventerei un problema», spiega Yunus che, prudentemente, parla il meno possibile dei burrascosi rapporti con il suo governo.
La campagna per screditare questo “capitalista riluttante” che ha mostrato come fare credito alle donne più povere del mondo non è solo possibile, ma anche utile e finanziariamente sostenibile, è iniziata più di dieci anni fa. A scatenarla fu il suo annuncio di voler fondare un partito per traghettare il Paese dall’ennesimo military-backed government verso la democrazia. «Le leadership dei partiti – racconta – erano in carcere per corruzione e io venivo accusato di non avere a cuore l’interesse nazionale. Quando cedetti alla pressione e diedi la mia disponibilità a scendere in politica, i corrotti iniziarono a bussare alla porta. Nel giro di dieci settimane capii che stavo solo offrendo loro un nuovo indirizzo e feci un passo indietro».
Nonostante il ripensamento, la campagna contro di lui non si è mai interrotta, culminando nella sua rimozione dal vertice della Grameen Bank. Una mossa che ha consegnato l’istituto nelle mani dell’establishment di uno dei Paesi più corrotti del pianeta (143esimo dei 180 censiti da Transparency International).
Con Yunus, appena arrivato in treno da Torino, ci incontriamo in un hotel milanese per parlare del suo ultimo libro, intitolato Un mondo a tre zeri. Come eliminare definitivamente povertà, disoccupazione e inquinamento (Feltrinelli). La scelta del luogo è stata casuale, ma felice. Yunus ha contratto il travel bug da giovane – ancora oggi passa circa il 60% del suo tempo in viaggio – e l’edificio neoclassico in cui ci troviamo (inaugurato nel 1840, regnante l’imperatore Ferdinando I d’Austria) fu la prima stazione ferroviaria di Milano. A pochi metri da dove sediamo c’è l’elemento più scenografico della lobby: una specie di parete costruita con vecchie valigie, quasi a voler ricordare ai clienti dell’hotel la storia del luogo e al mio interlocutore che, nel giro di poche ore, ci sarà un altro treno da prendere, questa volta verso Roma.
In comune con l’hotel, Yunus ha il fatto di essere anche lui “figlio” di un impero. Lo testimoniano la padronanza della lingua inglese, che parla nell’espressivo staccato dell’Asia del Sud e l’infanzia passata nei boy scout, altro lascito britannico. La prima gli ha aperto le porte degli Stati Uniti dove, grazie a una Fulbright Scholarship, ha conseguito un PhD e poi insegnato. La seconda ha propiziato nientemeno che una «life-changing experience».
«Quando avevo 15 anni – racconta – fui selezionato per partecipare alla Jamboree mondiale degli scout in Canada. Volammo (a tappe, era il 1955) fino in Europa e attraversammo l’Atlantico a bordo di un transatlantico italiano. Sulla strada del ritorno, in Germania, realizzammo che se avessimo comprato tre minibus e fossimo tornati via terra avremmo speso meno che non pagando i 29 biglietti aerei di ritorno. E in più ci avremmo guadagnato tre furgoncini». Il risultato fu un viaggio picaresco, drammatico e rivelatore. «L’Europa era ancora molto malandata: la Germania era in condizioni terribili; gli abitanti dei villaggi della Jugoslavia erano dei rottami umani; c’erano povertà e distruzione ovunque e le persone avevano ancora paura le une delle altre». Dopo le rovine post-belliche dell’Europa (e un incidente notturno a Skopje), il viaggio proseguì tra quelle classiche di Grecia, Turchia, Libano e Siria fino a Bassora, in Iraq, da dove il gruppo si imbarcò per Karachi, capitale, allora, del Pakistan pre-scissione. «E da lì – prosegue Yunus – rimasti in due, abbiamo attraversato l’India – Bombay, Delhi, Calcutta… – fino a casa, in East Pakistan, l’odierno Bangladesh. Il viaggio durò più di sei mesi. Con una valuta non convertibile in tasca eravamo sempre a corto di soldi, ma fu un’esperienza che mi cambiò per sempre. In vita mia non mi sarei mai più divertito così tanto. E soprattutto compresi che l’uomo è uno. Ricco o povero, non importa». Una lezione destinata ad accompagnare Yunus a lungo, e soprattutto lontano, fino al Nobel.
Nei 12 anni trascorsi dalla sua beatificazione laica di Oslo, l’uomo seduto davanti a me è invecchiato invidiabilmente bene. Lo sguardo non ha l’opacità liquida della vecchiaia, il viso è ancora rotondo, il sorriso in agguato. Negli anni neanche l’abbigliamento è cambiato: il tradizionale sadri color corda indossato sopra una modesta kurta a quadretti, pantaloni comodi, le scarpe tozze e morbide che gli uomini del Subcontinente cresciuti con i sandali ai piedi indossano a malincuore nelle occasioni formali.
Quando gli chiedo del suo nuovo libro, Yunus parte dalla sua esperienza di “banchiere dei poveri” per spiegare che il sistema finanziario «è progettato in maniera sbagliata perché non arriva neppure alla metà della popolazione mondiale» e aggiunge di essere anche convinto che ci sia «qualcosa di fondamentalmente errato nel capitalismo». Il peccato originale sarebbe di basarsi su una «interpretazione della natura umana secondo la quale saremmo creature unidimensionali ed egoiste», prive di quell’altruismo che, secondo Yunus, «convive con il suo opposto in ognuno di noi». Cinicamente convinto che alle sue parole manchi l’inciso «in dosi omeopatiche», cerco di provocarlo. Gli ricordo il desiderio di chiusura verso il Sud del mondo che serpeggia in Europa; gli chiedo cosa pensi di un presidente americano votato a quella forma di pericoloso egoismo geopolitico che chiamiamo unilateralismo; gli faccio presente l’imbarazzante sbriciolarsi del piedistallo su cui per anni abbiamo tenuto un altro Nobel per la pace come Aung San Suu Kyi. Possibile che tutto questo non incrini le sue convinzioni sull’innato altruismo dell’animo umano? Il colpo va a vuoto. Yunus è sì «orripilato» da tutto questo, ma la sua fiducia «nell’enorme forza dell’uomo» è intatta. «Perché da che mondo è mondo – spiega – l’impossibile, presto o tardi, diventa possibile».
Siccome la regola mi sembra valere soprattutto per il progresso tecnologico, gli domando se robot e intelligenza artificiale lo preoccupino. «Quella che abbiamo tra le mani – spiega – può essere una benedizione, come il suo contrario. Ciò che non voglio è che gli uomini, con i loro limiti biologici, diventino cittadini di seconda classe in un mondo dominato da macchine la cui intelligenza potenzialmente non ha limiti. Se i farmaci vanno testati e approvati da un’autorità indipendente prima di essere messi in commercio, credo che la regola debba valere anche per le nuove tecnologie. Forse l’Onu dovrebbe scrivere delle linee guida in proposito».
In altre parole, Yunus sembra più preoccupato da ciò che l’intelligenza umana potrebbe costruire che non dalla stupidità con cui stiamo rischiando di distruggere il pianeta e quella fitta rete di relazioni politiche, militari e commerciali che lo ha mantenuto in relativa pace per oltre 70 anni. Paradosso reso ancora più interessante dal fatto che la parola più ricorrente della nostra conversazione è «entrepreneur», un evidente retaggio di quanto fatto in Bangladesh prestando minuscole somme di denaro a donne povere per aiutarle ad avviare piccole attività. «Il lavoro salariato – spiega – è la fine della creatività umana, perché gli uomini sono per natura imprenditori. Bisogna far sì che crescano come imprenditori, che il sistema scolastico sia progettato per creare degli imprenditori, che insegni ai ragazzi cosa gli imprenditori sono in grado di fare. Il microcredito ha dimostrato che si può prestare denaro ai poveri e che in questo modo li si può mettere in condizione di usare il proprio talento per creare un’impresa».
Eppure, gli faccio notare, le evidenze statistiche non sono così univoche. Il numero dei poveri raggiunti è cresciuto, ma quello dei poverissimi, in proporzione, è calato. Non solo. Alcuni paper accademici hanno ridimensionato la portata del fenomeno: non una miccia capace di trasformare magicamente gli ultimi in imprenditori, ma più modestamente una forma di credito che soccorre i poveri nei momenti di crisi, senza legarli mani e piedi agli strozzini. C’è qualcosa di vero in tutto questo? «Più di qualcosa», risponde. Poi ricorre a una parabola popolare in tutto il Subcontinente indiano: «Immagini sette ciechi che cercano di capire come è fatto un elefante. Chi gli tocca la pancia dice che è piatto, chi gli tocca la coda pensa che è molto sottile e via di questo passo... “Microcredito” è un’etichetta sotto la quale ormai convivono cose molto diverse: c’è quello che ho fatto con la Grameen Bank, ci sono società a fine di lucro che si quotano in Borsa e ci sono anche veri e propri squali. Ognuno è libero di fare come crede, ma io resto convinto di una cosa: che al centro debbano rimanere le donne più povere del mondo».