L’opinione
Il presidente ha sbagliato
Di Diogo Queiroz De Andrade, Público, Portogallo
La scelta di Mattarella
Ex democristiano e giudice della corte
costituzionale, il presidente della repubblica ha gestito bene i
colloqui per cercare di formare il governo, scrive lo Spiegel
Di Hans Jürgen Schlamp, Der Spiegel, Germania
“L’Italia
sta sbagliando tutto. Rifiutare un governo con una maggioranza espressa
dalla volontà popolare solo perché un ministro dell’economia ha dubbi
sul futuro dell’economia nazionale è una decisione così assurda che può
solo portare a ulteriori problemi. Le scelte democratiche sono sovrane,
non possono esserci interferenze in nome di un bene più grande. Il
presidente della repubblica Sergio Mattarella può sostenere di fare un
servizio all’Europa, ma in realtà sta solo indebolendo l’idea di
democrazia, che è il fondamento principale della costruzione europea.
Non si possono cambiare i princìpi della democrazia quando i risultati
non ci piacciono”.
Con parole
chiare e con il suo consueto tono pacato, Sergio Mattarella ha spiegato
il tentativo fallito di formare un governo. Le bandiere dell’Italia e
dell’Europa alle sue spalle e lo stemma della repubblica italiana
davanti a lui hanno rafforzato il richiamo alla ragione di stato, in
nome della quale non avrebbe potuto accettare Paolo Savona, il ministro
dell’economia proposto dalla Lega e dal Movimento 5 stelle (M5s). I
discorsi antieuropei di Savona avevano già provocato l’aumento dei tassi
d’interesse e le perdite in borsa nei giorni precedenti. È dovere del
presidente proteggere le imprese e i cittadini italiani da potenziali
perdite. Punto. Per questo, esercitando i poteri che gli concede la
costituzione, Mattarella ha proposto l’economista Carlo Cottarelli alla
guida del paese fino alle prossime elezioni. Una mossa coraggiosa: Lega e
M5s insieme hanno una maggioranza netta in parlamento. Com’era ovvio le
reazioni non si sono fatte attendere. “Un attacco alla democrazia”, ha
tuonato il leader della Lega Matteo Salvini, mentre il leader dei
cinquestelle, Luigi Di Maio, ha parlato di una decisione
“incomprensibile” di Mattarella. Se a decidere sul governo degli
italiani non sono più i cittadini ma le agenzie di rating, ha detto,
allora andare a votare non serve a nulla. Coerente e determinato
Mattarella è nato a Palermo nel 1941. Il padre, Bernardo, era un
politico della Democrazia cristiana (Dc) che fu più volte ministro. Il
fratello più grande, Piersanti, presidente della regione Sicilia, fu
ucciso dalla maia nel 1980. Sergio Mattarella è cresciuto in un ambiente
alto borghese molto politicizzato. I capi di governo frequentavano la
casa dei suoi genitori. Ogni tanto a pranzo da loro andava anche
Giovanni Battista Montini, prima di diventare papa Paolo VI. Mattarella
ha studiato legge, ha insegnato diritto costituzionale all’università di
Palermo, poi è entrato in politica, nella Dc come il padre. Era in
prima linea quando a metà degli anni novanta gli ex comunisti, una parte
della Dc e i centristi si allearono nell’Ulivo. Era in prima linea
anche quando, più tardi, fu fondato il Partito democratico. In politica
Mattarella è sempre stato pacato, ma coerente. Per esempio
nell’opposizione a Silvio Berlusconi: nel 1990 si dimise da ministro per
protestare contro una legge che favoriva le sue televisioni. Nel 1994
si dimise da direttore del Popolo, il giornale della Democrazia
cristiana, perché l’allora capo del partito Rocco Buttiglione si era
alleato con Berlusconi. È stato ministro, vicepresidente del consiglio e
parlamentare per sette legislature. Eppure, quando è entrato nel
“pensionato per politici di punta”, come alcuni chiamano ironicamente la
corte costituzionale, lo conoscevano in pochi. Le cose sono cambiate
lentamente, dopo il 31 gennaio 2015, quando il parlamento in seduta
comune lo ha eletto presidente della repubblica. Anche in questa veste è
fedele a se stesso: riservato, poco appariscente, ma determinato. Ora,
come custode della costituzione, è diventato uno dei politici italiani
più popolari. Molti giudici della corte costituzionale sono cambiati
negli anni in cui servivano il supremo arbitro del paese. “Quello che
diciamo è legge”, ha dichiarato una volta in privato uno di loro, “sopra
di noi c’è solo il cielo”. È una responsabilità che può anche infondere
coraggio. Potrebbe essere questa la forza che ha spinto Mattarella ad
agire con tanta determinazione. Una sorta di rispetto profondo per la
legge, soprattutto per la costituzione, e un’istintiva inflessibilità.
La costituzione italiana, dopotutto, garantisce al presidente un potere
enorme. Il capo dello stato indice le elezioni delle nuove camere,
autorizza la presentazione alle camere dei disegni di legge di
iniziativa del governo, promulga le sue leggi ed emana i decreti che
hanno valore di legge e i regolamenti. Può sciogliere una o entrambe le
camere dopo aver sentito i loro presidenti, ha il comando delle forze
armate, presiede il Consiglio superiore della magistratura, può
concedere la grazia e commutare le pene. Piano d’emergenza Il suo
compito è controllare che l’azione del governo rispetti le leggi e il
diritto. Prima del 27 maggio, Mattarella aveva più volte avvertito che
molte misure contenute nel “contratto di governo” tra i due partiti
vincenti si sarebbero scontrate con la legge, se effettivamente
adottate. Per esempio i regali elettorali da vari miliardi di euro, come
la flat tax, il reddito di cittadinanza e l’anticipo sull’età
pensionabile. Non c’era la copertura economica necessaria per realizzare
queste riforme, come invece stabilisce la legge. Peggio ancora, i
leader della Lega e del M5s non si erano neanche posti il problema. Il
giudice costituzionale Mattarella non poteva che essere spaventato. Ma
sono state le dichiarazioni ostili verso l’Europa e le minacce di uscire
dall’euro se non ci fosse stata la possibilità di rinegoziare le regole
finanziarie di Bruxelles che, ai suoi occhi, non gli hanno lasciato
scelta. Perché i trattati firmati dall’Italia con l’Unione, i paesi
membri e i paesi dell’eurozona hanno forza di legge. Non si possono
semplicemente cancellare con gli slogan di Di Maio e Salvini, tipo
“difenderemo gli interessi degli italiani”, o “gli indicatori come lo
spread e il pil per noi non contano”, o addirittura con le minacce di
non ripagare i debiti se le cose dovessero mettersi male. Cosa deve fare
allora il custode della costituzione? Lasciare il paese nelle mani di
potenziali trasgressori della legge senza opporre nessuna resistenza? O
fermare tutto, almeno per un attimo, nella speranza che nel frattempo si
possano formare nuove coalizioni per scongiurare i mali dell’Italia e
quelli dell’Europa? Da questo punto di vista, l’ostinazione della Lega e
dei cinquestelle sul nome di Savona potrebbe perfino aver aiutato
Mattarella a realizzare il suo piano d’emergenza. Come minimo gli ha
fornito un facile pretesto. Per Salvini, per quanto abbia protestato
contro la decisione del capo dello stato, il cambio di programma non è
affatto spiacevole: ora vede avvicinarsi le nuove elezioni che ha sempre
invocato.
Le pressioni dell’Europa
La crisi
italiana rivela che all’Unione europea serve più democrazia. I risultati
elettorali che non piacciono a Bruxelles devono essere rispettati e
affrontati senza paura
Di Joseph Confavreux, Ludovic Lamant, Mediapart, Francia
A
che gioco ha giocato il presidente della repubblica italiana Sergio
Mattarella? Con il rifiuto di nominare Paolo Savona ministro
dell’economia, Mattarella ha immediatamente fatto ripiombare l’Italia
nella crisi politica. Il capo dello stato non ha voluto nominare Savona
ministro perché in passato aveva criticato l’euro. Il veto opposto da
Mattarella, 76 anni, ex esponente della Democrazia cristiana, che tra
l’altro è stato ministro della difesa nel governo presieduto da Massimo
D’Alema (1999-2001), ha rinfocolato anche le preoccupazioni di quanti
temono un nuovo “colpo di stato” dell’Unione europea ai danni di un
paese dell’Europa meridionale, a meno di tre anni dalla resa di Syriza a
Bruxelles, nell’estate del 2015. Il 27 maggio Luigi Di Maio, leader
politico del Movimento 5 stelle, ha detto di voler chiedere la messa in
stato d’accusa del presidente della repubblica. “Dopo stasera”, ha
dichiarato Di Maio, vincitore delle elezioni del 4 marzo, con il 33 per
cento dei voti, “è davvero difficile credere nelle leggi e nelle
istituzioni dello stato”. La costituzione italiana prevede la messa in
stato di accusa del presidente in due casi: alto tradimento e attentato
alla costituzione (Di Maio ha poi ritirato la proposta). Il giorno
successivo il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha respinto
l’appello per la messa in stato d’accusa di Mattarella: “Ci vuole mente
fredda, certe cose non si lanciano sull’onda della rabbia”, ha
dichiarato per smarcarsi da Di Maio, che con lui avrebbe dovuto formare
il governo. Ma l’amico di Marine Le Pen, la leader del Front national
francese, ha già ricominciato a fare campagna elettorale proclamando:
“L’Italia non è una colonia” dell’Europa. Se Mattarella indirà nuove
elezioni, ammoniva il 27 maggio l’analista politico Francesco Galietti,
sul Financial Times, “la campagna elettorale ruoterà attorno a un solo
tema: il popolo contro il palazzo”. È lo stesso timore che esprimeva il
28 maggio sul suo blog anche l’ex ministro greco dell’economia Yannis
Varoufakis, che la sa lunga in fatto d’intimidazioni da parte
dell’Unione europea. Varoufakis se la prende con la “deriva morale” del
presidente Mattarella, che “tollera la misantropia su vasta scala della
Lega” (e la sua promessa di espellere dall’Italia 500mila migranti), e
allo stesso tempo “pone il veto nei confronti di una legittima
preoccupazione legata alla capacità dell’eurozona di lasciar respirare
l’Italia”. Secondo Varoufakis questo “errore tattico” del presidente
italiano – difendere l’euro e le regole di bilancio dell’Unione europea,
invece di una politica più umana sull’immigrazione – rischia di costare
caro e prepara il terreno a una vittoria della Lega nell’eventualità di
nuove elezioni. Tradizione storica Gli appelli alla “responsabilità”
dell’Italia, lanciati in questi ultimi giorni da vari governi europei,
non hanno certo contribuito a rasserenare il clima politico a Roma. Sono
sembrati nel migliore dei casi un modo per condizionare il programma di
governo che la Lega e i cinquestelle stavano preparando. Nel peggiore
dei casi sono stati interpretati come la volontà degli europei di negare
il responso delle urne. Il 20 maggio il ministro francese
dell’economia, Bruno Le Maire, aveva infatti dichiarato: “In Italia
tutti devono capire che il futuro del loro paese è in Europa e non
altrove, e affinché questo futuro sia effettivamente in Europa ci sono
regole da rispettare”. E insisteva: “Gli impegni assunti dall’Italia
restano validi quale che sia il governo”. Salvini, che è molto bravo ad
attizzare il risentimento di una parte degli italiani nei confronti
dell’Unione europea, non si è lasciato sfuggire l’occasione di
rispondere all’avvertimento di Le Maire: “È l’ennesima, inaccettabile
invasione di campo”. Il veto posto da Mattarella a un governo
etichettato come “euroscettico”, associato allo spettro di un “governo
tecnico” guidato da Carlo Cottarelli – che ha un passato nel Fondo
monetario internazionale – s’iscrive in una certa tradizione europea.
Fin dallo scoppio della crisi dell’euro, infatti, il carattere
tecnocratico dell’Unione europea mal si adatta agli esiti contrari delle
consultazioni popolari e provoca forzature antidemocratiche che rendono
più fragile l’intero edificio dell’Unione. In un suo saggio del 2013 il
professor Antoine Vauchez individuava “la grande precarietà della
legittimità democratica nell’Unione europea”, e riassumeva la sua tesi
dicendo che tra le pareti delle istituzioni europee “la consultazione
del popolo, a quanto pare, è vista come uno spauracchio”. Il gioco dei
parallelismi storici è sempre azzardato, ma il “momento romano” del 2018
ne ricorda altri. Per esempio, la bocciatura della costituzione europea
in un referendum in Francia e nei Paesi Bassi mise una pietra tombale
sopra quel testo ma non impedì ai leader dell’Unione europea di adottare
il Trattato di Lisbona, in vigore dal dicembre 2009, che riprendeva il
grosso delle disposizioni della stessa costituzione europea. E già nel
1992 i danesi, che in una prima consultazione si erano opposti al
Trattato di Maastricht, furono invitati a rimetterlo al voto per “votare
meglio”, cioè per approvarlo. E difatti il trattato ottenne il 57 per
cento dei consensi. Nel 2011 Mario Monti, ex commissario europeo con un
passato alla Goldman Sachs, fu chiamato in soccorso a Roma per formare
un “governo tecnico” dopo la caduta dell’esecutivo guidato da Silvio
Berlusconi, coronando così il paziente lavoro di disturbo da parte dei
leader dell’Unione europea che auspicavano un cambio di governo.
Nell’estate del 2011 entrarono nella mischia sia l’allora presidente
della Banca centrale europea (Bce), Jean-Claude Trichet, sia il suo
futuro successore Mario Draghi: il 5 agosto scrissero a Berlusconi una
“lettera segreta” (di cui la stampa italiana svelò l’esistenza molto
dopo) in cui elencarono le riforme che il governo avrebbe dovuto varare
entro il 30 settembre di quell’anno. Il 19 settembre, visto che il
governo di Roma non aveva fatto nulla, la Bce decise di ridurre il
volume d’acquisto di titoli del debito pubblico italiano, esasperando
così le pressioni dei mercati finanziari e provocando la caduta del
governo Berlusconi. In occasione del G20 che si tenne a Cannes il 3 e il
4 novembre del 2011 la cancelliera tedesca Angela Merkel e il
presidente francese Nicolas Sarkozy si espressero apertamente in favore
di un cambiamento politico a Roma. Un’idea della loro intensa campagna
contro Berlusconi ce la danno le memorie dell’ex segretario del tesoro
statunitense Timothy Geithner, che era a Cannes insieme all’allora
presidente Barack Obama. “Prima della riunione gli europei ci hanno
avvicinato a passi felpati, dicendo in modo indiretto: ‘Essenzialmente,
vogliamo che ci aiutiate a mandare a casa Berlusconi’. Più o meno,
volevano che ci opponessimo a un’offerta di aiuto all’Italia da parte
del Fondo monetario internazionale o di qualsiasi altro organismo,
finché Berlusconi fosse rimasto a palazzo Chigi. Io ho detto di no…”.
Alla fine, il 16 novembre 2011 s’insediò il governo Monti.
A qualsiasi costo
E
si arriva all’ultimo episodio richiamato alla mente dal veto di
Mattarella, la crisi greca del 2015. Quell’estate, i dirigenti
dell’Unione europea hanno imposto alla Grecia governata da Alexis
Tsipras un nuovo piano di “salvataggio” all’insegna di più austerità e
più riforme, pudicamente definite “strutturali” (delle pensioni, del
mercato del lavoro, eccetera), nonostante nel referendum che si era
tenuto pochi giorni prima i greci avessero risposto per il 61 per cento
con un forte “no”. In gennaio, subito dopo il responso delle urne che
aveva mandato al governo Syriza, il presidente della Commissione
europea, Jean-Claude Juncker, aveva spiegato a Le Figaro: “Non ci può
essere una scelta democratica contro i trattati europei”. Insomma: poco
importa come votano i cittadini, bisogna perseguire il progetto europeo a
qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo. Sotto questo profilo, la
dichiarazione di Bruno Le Maire sugli “impegni” dell’Italia è pressoché
identica. Ma a ben vedere, l’incertezza politica a Roma in questo maggio
2018 non somiglia né al referendum francese del 2005 né al “colpo di
stato” di Cannes nel 2011 né alla crisi greca del 2015. E il Movimento 5
stelle è imparagonabile da molti punti di vista ai movimenti europei
che rivendicano il “populismo di sinistra” . Tuttavia, attaccarsi alle
specificità della politica italiana o di quell’ufo che sono i
cinquestelle per evitare o trascurare qualsiasi insegnamento si possa
trarre da questa situazione sarebbe un comportamento pigro tanto quanto
quello degli opinionisti che nel progetto di alleanza tra la Lega e i
cinquestelle vedevano la prova che gli estremi finiscono sempre per
toccarsi e fondersi allo scopo di rendere fragile la democrazia. Capire
la crisi politica italiana significa capire perché e da chi è
minacciata, con violenza crescente, la democrazia. È una questione
ineludibile non solo per gli pseudosocialdemocratici che credono di
potersela cavare accontentandosi di gridare al lupo populista, ma anche
per quelle forze progressiste e di sinistra che invece di fare i conti
con la loro impotenza accusano i tecnocrati di Bruxelles o le figure
autoritarie e demagogiche di intercettare la rabbia del popolo
attirandolo in un “tranello”. Che cos’è più insopportabile: l’alleanza
tra un partito ultrapragmatico, antisistema, fondato sulla democrazia
diretta digitale e ancorato a sinistra da una parte del suo programma
con un partito di estrema destra, violentemente ostile agli immigranti e
ultraliberista in campo economico? o piuttosto il rifiuto, in nome di
criteri definiti dai mercati finanziari e dalle istituzioni dell’Unione
europea, di lasciar governare quest’alleanza, che ha la maggioranza dei
seggi in parlamento, come meglio crede? A voler fare politica e non solo
la morale, il pur legittimo sollievo per aver rimandato l’arrivo al
potere di una coalizione che comprende una forza di estrema destra
appoggiata da Steve Bannon e Marine Le Pen può essere solo temporaneo o
illusorio. Questo rinvio potrebbe benissimo trasformarsi in un vaso di
Pandora, tanto sembra controproducente di fronte alla rabbia di una
parte della cittadinanza che si sente spogliata della sua sovranità: una
rabbia che le accuse di cedere al sovranismo non basteranno a
contenere. Il veto che ha posto Mattarella, allora, costringe forse chi
vuole ancora promuovere o salvare la democrazia a fare tre gesti
paralleli. Il primo è un rifiuto di certi termini ormai diventati
offensivi, con cui si cerca di delegittimare i contenuti di un voto
sempre più ampio ai partiti che non si riconoscono nel funzionamento
della democrazia rappresentativa contemporanea. Il progetto di alleanza
di governo tra Lega e cinquestelle non è un’“alleanza antisistema” visto
che la Lega è da tempo integrata nel gioco politico italiano e alleata
della destra berlusconiana. Usare quella retorica equivale ad avallare
l’idea che esista un sistema bloccato su cui si può agire solo rompendo
radicalmente con esso, e fornire argomenti a chi pensa che questo
sistema sia costituito solo dalle istituzioni politiche. Equivale a
correre il rischio di buttar via il bambino della democrazia insieme
all’acqua sporca delle disfunzioni della rappresentanza, e insieme non
vedere le altre forme di potere (in particolare quello delle entità
economiche e finanziarie), che si impongono alle rivendicazioni popolari
e che la Lega non pretende di rimettere in discussione. L’altro termine
che forse non bisognerebbe usare è populismo, un concetto sempre più
inafferrabile sotto il profilo sia filosofico sia politico, visto che
ormai serve solo a denunciare tutto ciò che mette in discussione certi
meccanismi radicati, oppure a ironizzare sull’affinità tra le forze
considerate estremiste. Affibbiare l’etichetta di populismo a qualsiasi
cosa metta in discussione l’ordine economico e istituzionale esistente e
farne l’unica presenza concreta del “popolo” nella politica europea
significa aumentare il rischio di rendere sempre più profondo l’abisso
tra le aspirazioni popolari e la realtà delle decisioni prese in Europa
da decenni a questa parte. E questo anche se l’appello al popolo “non è
necessariamente immune da tentazioni o da tendenze nazionaliste, o da
ricorsi alla retorica identitaria”, come osservava di recente il
filosofo francese Gérard Bras. Il secondo gesto da compiere è un’analisi
concreta di ciò che oggi minaccia la democrazia. La storia dell’estrema
destra in Europa, come anche le sue metamorfosi contemporanee che si
possono osservare in Ungheria, è abbastanza attuale per capire che le
elezioni non bastano a garantirsi contro gli arretramenti della
democrazia stessa. Ma contemporaneamente, se le elezioni non sono una
condizione sufficiente per la democrazia, ne sono una condizione
necessaria, anche quando il responso delle urne può risultare sgradito.
Abbandonati al loro destino
Allora,
se non vogliamo limitarci a spaventarci tutte le volte, il giorno prima
e il giorno dopo le elezioni, dobbiamo ammettere almeno due cose.
Primo: che i centristi possono minacciare la democrazia tanto quanto gli
estremisti, se non di più. È la conclusione di un articolo di David
Adler, intitolato Centrists are the most hostile to democracy, not
extremists (Sono i centristi i più ostili alla democrazia, non gli
estremisti), pubblicato sul New York Times, in cui si dimostra che non
c’è una correlazione tra la considerazione degli elettori per la
democrazia e la posizione che occupano nello spettro politico, anzi è
proprio il contrario. Secondo: che sono stati soprattutto i politici di
centro, guidati dal Partito democratico (Pd) in Italia e dai democratici
negli Stati Uniti, dai socialisti in Francia e dai laburisti blairiani
nel Regno Unito, a creare i mostri che oggi minacciano la democrazia,
appropriandosi dell’espressione “Non c’è alternativa” di Margaret
Thatcher e abbandonando al loro destino la stragrande maggioranza dei
cittadini che appartengono ai ceti popolari. E questo comporta, come
minimo, ammettere la responsabilità dei numerosi finti socialdemocratici
per le rinunce alla democrazia, di cui pure pretendono di essere i
custodi. Un’ammissione ancora lontana: Hillary Clinton, nel suo libro
What happened, afferma di aver perso le elezioni presidenziali per colpa
delle notizie false messe in circolazione dalla Russia e del
maschilismo dell’elettorato statunitense; François Hollande attribuisce
ai soli “frondisti” la responsabilità di aver cancellato un secolo di
socialismo del panorama politico francese. Di fronte alla prospettiva di
democrazie occidentali che oscillano tra figure autoritarie e
illiberali (come Trump e Orbán) e falangi di tecnocrati usciti dal Fondo
monetario internazionale, il presidente francese Emmanuel Macron
ritiene di poter incarnare una “terza via”. Ma oltre al fatto che questa
terza via somiglia molto ad alcune logore idee politiche che hanno
prodotto i vicoli ciechi e i pericoli in cui si dibattono oggi le
democrazie, e oltre al fatto che si adatta a meraviglia a una concezione
autoritaria della democrazia, la “terza via” è incoerente se, pur in
modo minore, mette in moto le politiche del “tanto peggio tanto meglio”
che imputa agli estremisti. In altre parole l’Italia delle politiche
migratorie di questi ultimi anni non può essere credibile quando
denuncia il pericolo rappresentato dalla Lega perché – per esempio nel
trattamento riservato ai migranti – siamo di fronte a differenze di
grado e non sostanziali. E questo mette a nudo il fatto che i partiti
detti populisti sono stigmatizzati non tanto per le loro tendenze
autoritarie e antidemocratiche quanto perché minacciano il comune
accordo neoliberista. Se si crede ancora alla possibilità di un’Europa
democratica e solidale, diventa sempre più incoerente non tenere conto
di come le scelte di ogni nazione incidano sui paesi vicini. La Lega e i
cinquestelle devono gran parte del loro successo al fatto che gli
italiani si sono sentiti abbandonati di fronte agli sconvolgimenti
migratori di questi ultimi anni.
Invece di lamentarsi
Su
un altro piano – come ha detto Sahra Wagenknecht, dirigente della Linke
tedesca, poco prima che il 27 maggio Giuseppe Conte, incaricato dal
presidente Mattarella di formare il governo, rimettesse il mandato – “è
facile per il governo tedesco lamentarsi del nuovo governo di Roma,
quando è la politica europea di Merkel la principale responsabile del
successo dei cinquestelle e della Lega. Invece di lamentarsi della
situazione elettorale italiana e di far piovere dall’alto consigli a una
eventuale coalizione di governo tra Salvini e Di Maio, la Germania
farebbe meglio a ridurre i surplus della sua bilancia dei pagamenti
smettendola con il dumping salariale e varando invece investimenti
pubblici”. Di fronte alla constatazione che la cerchia della presunta
ragione democratica non resisterà a lungo per incoerenza, ipocrisia e
vigliaccheria, il terzo gesto che la situazione italiana ci obbliga a
compiere è fornire qualche indicazione su come rifondare un campo
progressista e democratico che non sia più un’araba fenice.
Naturalmente, questa rifondazione impone di non liquidare la rabbia di
oggi come un difetto autoritario tipico del mondo popolare o, a scelta,
come una variazione sul tema del popolo che indirizza la sua collera
verso il destinatario sbagliato. In ogni caso, sarà impossibile far
passi avanti senza prendere posizione nei confronti di un movimento come
i cinquestelle, la cui forma e il cui successo destabilizzano lo
schieramento progressista e democratico. Riuscirà quest’ultimo a tener
fede ai princìpi che gli impediscono di allearsi con l’estrema destra, e
al tempo stesso a restare intransigente sul riorientamento radicale
delle nostre democrazie preteso e in parte messo in pratica dal
Movimento 5 stelle? Dalla risposta a questa domanda dipende non solo il
futuro dell’Italia, ma anche quello delle democrazie occidentali.