venerdì 8 giugno 2018

L’opinione
Il presidente ha sbagliato
Di Diogo Queiroz De Andrade, Público, Portogallo

La scelta di Mattarella
Ex democristiano e giudice della corte costituzionale, il presidente della repubblica ha gestito bene i colloqui per cercare di formare il governo, scrive lo Spiegel
Di Hans Jürgen Schlamp, Der Spiegel, Germania


“L’Italia sta sbagliando tutto. Rifiutare un governo con una maggioranza espressa dalla volontà popolare solo perché un ministro dell’economia ha dubbi sul futuro dell’economia nazionale è una decisione così assurda che può solo portare a ulteriori problemi. Le scelte democratiche sono sovrane, non possono esserci interferenze in nome di un bene più grande. Il presidente della repubblica Sergio Mattarella può sostenere di fare un servizio all’Europa, ma in realtà sta solo indebolendo l’idea di democrazia, che è il fondamento principale della costruzione europea. Non si possono cambiare i princìpi della democrazia quando i risultati non ci piacciono”.



Con parole chiare e con il suo consueto tono pacato, Sergio Mattarella ha spiegato il tentativo fallito di formare un governo. Le bandiere dell’Italia e dell’Europa alle sue spalle e lo stemma della repubblica italiana davanti a lui hanno rafforzato il richiamo alla ragione di stato, in nome della quale non avrebbe potuto accettare Paolo Savona, il ministro dell’economia proposto dalla Lega e dal Movimento 5 stelle (M5s). I discorsi antieuropei di Savona avevano già provocato l’aumento dei tassi d’interesse e le perdite in borsa nei giorni precedenti. È dovere del presidente proteggere le imprese e i cittadini italiani da potenziali perdite. Punto. Per questo, esercitando i poteri che gli concede la costituzione, Mattarella ha proposto l’economista Carlo Cottarelli alla guida del paese fino alle prossime elezioni. Una mossa coraggiosa: Lega e M5s insieme hanno una maggioranza netta in parlamento. Com’era ovvio le reazioni non si sono fatte attendere. “Un attacco alla democrazia”, ha tuonato il leader della Lega Matteo Salvini, mentre il leader dei cinquestelle, Luigi Di Maio, ha parlato di una decisione “incomprensibile” di Mattarella. Se a decidere sul governo degli italiani non sono più i cittadini ma le agenzie di rating, ha detto, allora andare a votare non serve a nulla. Coerente e determinato Mattarella è nato a Palermo nel 1941. Il padre, Bernardo, era un politico della Democrazia cristiana (Dc) che fu più volte ministro. Il fratello più grande, Piersanti, presidente della regione Sicilia, fu ucciso dalla maia nel 1980. Sergio Mattarella è cresciuto in un ambiente alto borghese molto politicizzato. I capi di governo frequentavano la casa dei suoi genitori. Ogni tanto a pranzo da loro andava anche Giovanni Battista Montini, prima di diventare papa Paolo VI. Mattarella ha studiato legge, ha insegnato diritto costituzionale all’università di Palermo, poi è entrato in politica, nella Dc come il padre. Era in prima linea quando a metà degli anni novanta gli ex comunisti, una parte della Dc e i centristi si allearono nell’Ulivo. Era in prima linea anche quando, più tardi, fu fondato il Partito democratico. In politica Mattarella è sempre stato pacato, ma coerente. Per esempio nell’opposizione a Silvio Berlusconi: nel 1990 si dimise da ministro per protestare contro una legge che favoriva le sue televisioni. Nel 1994 si dimise da direttore del Popolo, il giornale della Democrazia cristiana, perché l’allora capo del partito Rocco Buttiglione si era alleato con Berlusconi. È stato ministro, vicepresidente del consiglio e parlamentare per sette legislature. Eppure, quando è entrato nel “pensionato per politici di punta”, come alcuni chiamano ironicamente la corte costituzionale, lo conoscevano in pochi. Le cose sono cambiate lentamente, dopo il 31 gennaio 2015, quando il parlamento in seduta comune lo ha eletto presidente della repubblica. Anche in questa veste è fedele a se stesso: riservato, poco appariscente, ma determinato. Ora, come custode della costituzione, è diventato uno dei politici italiani più popolari. Molti giudici della corte costituzionale sono cambiati negli anni in cui servivano il supremo arbitro del paese. “Quello che diciamo è legge”, ha dichiarato una volta in privato uno di loro, “sopra di noi c’è solo il cielo”. È una responsabilità che può anche infondere coraggio. Potrebbe essere questa la forza che ha spinto Mattarella ad agire con tanta determinazione. Una sorta di rispetto profondo per la legge, soprattutto per la costituzione, e un’istintiva inflessibilità. La costituzione italiana, dopotutto, garantisce al presidente un potere enorme. Il capo dello stato indice le elezioni delle nuove camere, autorizza la presentazione alle camere dei disegni di legge di iniziativa del governo, promulga le sue leggi ed emana i decreti che hanno valore di legge e i regolamenti. Può sciogliere una o entrambe le camere dopo aver sentito i loro presidenti, ha il comando delle forze armate, presiede il Consiglio superiore della magistratura, può concedere la grazia e commutare le pene. Piano d’emergenza Il suo compito è controllare che l’azione del governo rispetti le leggi e il diritto. Prima del 27 maggio, Mattarella aveva più volte avvertito che molte misure contenute nel “contratto di governo” tra i due partiti vincenti si sarebbero scontrate con la legge, se effettivamente adottate. Per esempio i regali elettorali da vari miliardi di euro, come la flat tax, il reddito di cittadinanza e l’anticipo sull’età pensionabile. Non c’era la copertura economica necessaria per realizzare queste riforme, come invece stabilisce la legge. Peggio ancora, i leader della Lega e del M5s non si erano neanche posti il problema. Il giudice costituzionale Mattarella non poteva che essere spaventato. Ma sono state le dichiarazioni ostili verso l’Europa e le minacce di uscire dall’euro se non ci fosse stata la possibilità di rinegoziare le regole finanziarie di Bruxelles che, ai suoi occhi, non gli hanno lasciato scelta. Perché i trattati firmati dall’Italia con l’Unione, i paesi membri e i paesi dell’eurozona hanno forza di legge. Non si possono semplicemente cancellare con gli slogan di Di Maio e Salvini, tipo “difenderemo gli interessi degli italiani”, o “gli indicatori come lo spread e il pil per noi non contano”, o addirittura con le minacce di non ripagare i debiti se le cose dovessero mettersi male. Cosa deve fare allora il custode della costituzione? Lasciare il paese nelle mani di potenziali trasgressori della legge senza opporre nessuna resistenza? O fermare tutto, almeno per un attimo, nella speranza che nel frattempo si possano formare nuove coalizioni per scongiurare i mali dell’Italia e quelli dell’Europa? Da questo punto di vista, l’ostinazione della Lega e dei cinquestelle sul nome di Savona potrebbe perfino aver aiutato Mattarella a realizzare il suo piano d’emergenza. Come minimo gli ha fornito un facile pretesto. Per Salvini, per quanto abbia protestato contro la decisione del capo dello stato, il cambio di programma non è affatto spiacevole: ora vede avvicinarsi le nuove elezioni che ha sempre invocato.

Le pressioni dell’Europa
La crisi italiana rivela che all’Unione europea serve più democrazia. I risultati elettorali che non piacciono a Bruxelles devono essere rispettati e affrontati senza paura
Di Joseph Confavreux, Ludovic Lamant, Mediapart, Francia

A che gioco ha giocato il presidente della repubblica italiana Sergio Mattarella? Con il rifiuto di nominare Paolo Savona ministro dell’economia, Mattarella ha immediatamente fatto ripiombare l’Italia nella crisi politica. Il capo dello stato non ha voluto nominare Savona ministro perché in passato aveva criticato l’euro. Il veto opposto da Mattarella, 76 anni, ex esponente della Democrazia cristiana, che tra l’altro è stato ministro della difesa nel governo presieduto da Massimo D’Alema (1999-2001), ha rinfocolato anche le preoccupazioni di quanti temono un nuovo “colpo di stato” dell’Unione europea ai danni di un paese dell’Europa meridionale, a meno di tre anni dalla resa di Syriza a Bruxelles, nell’estate del 2015. Il 27 maggio Luigi Di Maio, leader politico del Movimento 5 stelle, ha detto di voler chiedere la messa in stato d’accusa del presidente della repubblica. “Dopo stasera”, ha dichiarato Di Maio, vincitore delle elezioni del 4 marzo, con il 33 per cento dei voti, “è davvero difficile credere nelle leggi e nelle istituzioni dello stato”. La costituzione italiana prevede la messa in stato di accusa del presidente in due casi: alto tradimento e attentato alla costituzione (Di Maio ha poi ritirato la proposta). Il giorno successivo il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha respinto l’appello per la messa in stato d’accusa di Mattarella: “Ci vuole mente fredda, certe cose non si lanciano sull’onda della rabbia”, ha dichiarato per smarcarsi da Di Maio, che con lui avrebbe dovuto formare il governo. Ma l’amico di Marine Le Pen, la leader del Front national francese, ha già ricominciato a fare campagna elettorale proclamando: “L’Italia non è una colonia” dell’Europa. Se Mattarella indirà nuove elezioni, ammoniva il 27 maggio l’analista politico Francesco Galietti, sul Financial Times, “la campagna elettorale ruoterà attorno a un solo tema: il popolo contro il palazzo”. È lo stesso timore che esprimeva il 28 maggio sul suo blog anche l’ex ministro greco dell’economia Yannis Varoufakis, che la sa lunga in fatto d’intimidazioni da parte dell’Unione europea. Varoufakis se la prende con la “deriva morale” del presidente Mattarella, che “tollera la misantropia su vasta scala della Lega” (e la sua promessa di espellere dall’Italia 500mila migranti), e allo stesso tempo “pone il veto nei confronti di una legittima preoccupazione legata alla capacità dell’eurozona di lasciar respirare l’Italia”. Secondo Varoufakis questo “errore tattico” del presidente italiano – difendere l’euro e le regole di bilancio dell’Unione europea, invece di una politica più umana sull’immigrazione – rischia di costare caro e prepara il terreno a una vittoria della Lega nell’eventualità di nuove elezioni. Tradizione storica Gli appelli alla “responsabilità” dell’Italia, lanciati in questi ultimi giorni da vari governi europei, non hanno certo contribuito a rasserenare il clima politico a Roma. Sono sembrati nel migliore dei casi un modo per condizionare il programma di governo che la Lega e i cinquestelle stavano preparando. Nel peggiore dei casi sono stati interpretati come la volontà degli europei di negare il responso delle urne. Il 20 maggio il ministro francese dell’economia, Bruno Le Maire, aveva infatti dichiarato: “In Italia tutti devono capire che il futuro del loro paese è in Europa e non altrove, e affinché questo futuro sia effettivamente in Europa ci sono regole da rispettare”. E insisteva: “Gli impegni assunti dall’Italia restano validi quale che sia il governo”. Salvini, che è molto bravo ad attizzare il risentimento di una parte degli italiani nei confronti dell’Unione europea, non si è lasciato sfuggire l’occasione di rispondere all’avvertimento di Le Maire: “È l’ennesima, inaccettabile invasione di campo”. Il veto posto da Mattarella a un governo etichettato come “euroscettico”, associato allo spettro di un “governo tecnico” guidato da Carlo Cottarelli – che ha un passato nel Fondo monetario internazionale – s’iscrive in una certa tradizione europea. Fin dallo scoppio della crisi dell’euro, infatti, il carattere tecnocratico dell’Unione europea mal si adatta agli esiti contrari delle consultazioni popolari e provoca forzature antidemocratiche che rendono più fragile l’intero edificio dell’Unione. In un suo saggio del 2013 il professor Antoine Vauchez individuava “la grande precarietà della legittimità democratica nell’Unione europea”, e riassumeva la sua tesi dicendo che tra le pareti delle istituzioni europee “la consultazione del popolo, a quanto pare, è vista come uno spauracchio”. Il gioco dei parallelismi storici è sempre azzardato, ma il “momento romano” del 2018 ne ricorda altri. Per esempio, la bocciatura della costituzione europea in un referendum in Francia e nei Paesi Bassi mise una pietra tombale sopra quel testo ma non impedì ai leader dell’Unione europea di adottare il Trattato di Lisbona, in vigore dal dicembre 2009, che riprendeva il grosso delle disposizioni della stessa costituzione europea. E già nel 1992 i danesi, che in una prima consultazione si erano opposti al Trattato di Maastricht, furono invitati a rimetterlo al voto per “votare meglio”, cioè per approvarlo. E difatti il trattato ottenne il 57 per cento dei consensi. Nel 2011 Mario Monti, ex commissario europeo con un passato alla Goldman Sachs, fu chiamato in soccorso a Roma per formare un “governo tecnico” dopo la caduta dell’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, coronando così il paziente lavoro di disturbo da parte dei leader dell’Unione europea che auspicavano un cambio di governo. Nell’estate del 2011 entrarono nella mischia sia l’allora presidente della Banca centrale europea (Bce), Jean-Claude Trichet, sia il suo futuro successore Mario Draghi: il 5 agosto scrissero a Berlusconi una “lettera segreta” (di cui la stampa italiana svelò l’esistenza molto dopo) in cui elencarono le riforme che il governo avrebbe dovuto varare entro il 30 settembre di quell’anno. Il 19 settembre, visto che il governo di Roma non aveva fatto nulla, la Bce decise di ridurre il volume d’acquisto di titoli del debito pubblico italiano, esasperando così le pressioni dei mercati finanziari e provocando la caduta del governo Berlusconi. In occasione del G20 che si tenne a Cannes il 3 e il 4 novembre del 2011 la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy si espressero apertamente in favore di un cambiamento politico a Roma. Un’idea della loro intensa campagna contro Berlusconi ce la danno le memorie dell’ex segretario del tesoro statunitense Timothy Geithner, che era a Cannes insieme all’allora presidente Barack Obama. “Prima della riunione gli europei ci hanno avvicinato a passi felpati, dicendo in modo indiretto: ‘Essenzialmente, vogliamo che ci aiutiate a mandare a casa Berlusconi’. Più o meno, volevano che ci opponessimo a un’offerta di aiuto all’Italia da parte del Fondo monetario internazionale o di qualsiasi altro organismo, finché Berlusconi fosse rimasto a palazzo Chigi. Io ho detto di no…”. Alla fine, il 16 novembre 2011 s’insediò il governo Monti.
A qualsiasi costo
E si arriva all’ultimo episodio richiamato alla mente dal veto di Mattarella, la crisi greca del 2015. Quell’estate, i dirigenti dell’Unione europea hanno imposto alla Grecia governata da Alexis Tsipras un nuovo piano di “salvataggio” all’insegna di più austerità e più riforme, pudicamente definite “strutturali” (delle pensioni, del mercato del lavoro, eccetera), nonostante nel referendum che si era tenuto pochi giorni prima i greci avessero risposto per il 61 per cento con un forte “no”. In gennaio, subito dopo il responso delle urne che aveva mandato al governo Syriza, il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, aveva spiegato a Le Figaro: “Non ci può essere una scelta democratica contro i trattati europei”. Insomma: poco importa come votano i cittadini, bisogna perseguire il progetto europeo a qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo. Sotto questo profilo, la dichiarazione di Bruno Le Maire sugli “impegni” dell’Italia è pressoché identica. Ma a ben vedere, l’incertezza politica a Roma in questo maggio 2018 non somiglia né al referendum francese del 2005 né al “colpo di stato” di Cannes nel 2011 né alla crisi greca del 2015. E il Movimento 5 stelle è imparagonabile da molti punti di vista ai movimenti europei che rivendicano il “populismo di sinistra” . Tuttavia, attaccarsi alle specificità della politica italiana o di quell’ufo che sono i cinquestelle per evitare o trascurare qualsiasi insegnamento si possa trarre da questa situazione sarebbe un comportamento pigro tanto quanto quello degli opinionisti che nel progetto di alleanza tra la Lega e i cinquestelle vedevano la prova che gli estremi finiscono sempre per toccarsi e fondersi allo scopo di rendere fragile la democrazia. Capire la crisi politica italiana significa capire perché e da chi è minacciata, con violenza crescente, la democrazia. È una questione ineludibile non solo per gli pseudosocialdemocratici che credono di potersela cavare accontentandosi di gridare al lupo populista, ma anche per quelle forze progressiste e di sinistra che invece di fare i conti con la loro impotenza accusano i tecnocrati di Bruxelles o le figure autoritarie e demagogiche di intercettare la rabbia del popolo attirandolo in un “tranello”. Che cos’è più insopportabile: l’alleanza tra un partito ultrapragmatico, antisistema, fondato sulla democrazia diretta digitale e ancorato a sinistra da una parte del suo programma con un partito di estrema destra, violentemente ostile agli immigranti e ultraliberista in campo economico? o piuttosto il rifiuto, in nome di criteri definiti dai mercati finanziari e dalle istituzioni dell’Unione europea, di lasciar governare quest’alleanza, che ha la maggioranza dei seggi in parlamento, come meglio crede? A voler fare politica e non solo la morale, il pur legittimo sollievo per aver rimandato l’arrivo al potere di una coalizione che comprende una forza di estrema destra appoggiata da Steve Bannon e Marine Le Pen può essere solo temporaneo o illusorio. Questo rinvio potrebbe benissimo trasformarsi in un vaso di Pandora, tanto sembra controproducente di fronte alla rabbia di una parte della cittadinanza che si sente spogliata della sua sovranità: una rabbia che le accuse di cedere al sovranismo non basteranno a contenere. Il veto che ha posto Mattarella, allora, costringe forse chi vuole ancora promuovere o salvare la democrazia a fare tre gesti paralleli. Il primo è un rifiuto di certi termini ormai diventati offensivi, con cui si cerca di delegittimare i contenuti di un voto sempre più ampio ai partiti che non si riconoscono nel funzionamento della democrazia rappresentativa contemporanea. Il progetto di alleanza di governo tra Lega e cinquestelle non è un’“alleanza antisistema” visto che la Lega è da tempo integrata nel gioco politico italiano e alleata della destra berlusconiana. Usare quella retorica equivale ad avallare l’idea che esista un sistema bloccato su cui si può agire solo rompendo radicalmente con esso, e fornire argomenti a chi pensa che questo sistema sia costituito solo dalle istituzioni politiche. Equivale a correre il rischio di buttar via il bambino della democrazia insieme all’acqua sporca delle disfunzioni della rappresentanza, e insieme non vedere le altre forme di potere (in particolare quello delle entità economiche e finanziarie), che si impongono alle rivendicazioni popolari e che la Lega non pretende di rimettere in discussione. L’altro termine che forse non bisognerebbe usare è populismo, un concetto sempre più inafferrabile sotto il profilo sia filosofico sia politico, visto che ormai serve solo a denunciare tutto ciò che mette in discussione certi meccanismi radicati, oppure a ironizzare sull’affinità tra le forze considerate estremiste. Affibbiare l’etichetta di populismo a qualsiasi cosa metta in discussione l’ordine economico e istituzionale esistente e farne l’unica presenza concreta del “popolo” nella politica europea significa aumentare il rischio di rendere sempre più profondo l’abisso tra le aspirazioni popolari e la realtà delle decisioni prese in Europa da decenni a questa parte. E questo anche se l’appello al popolo “non è necessariamente immune da tentazioni o da tendenze nazionaliste, o da ricorsi alla retorica identitaria”, come osservava di recente il filosofo francese Gérard Bras. Il secondo gesto da compiere è un’analisi concreta di ciò che oggi minaccia la democrazia. La storia dell’estrema destra in Europa, come anche le sue metamorfosi contemporanee che si possono osservare in Ungheria, è abbastanza attuale per capire che le elezioni non bastano a garantirsi contro gli arretramenti della democrazia stessa. Ma contemporaneamente, se le elezioni non sono una condizione sufficiente per la democrazia, ne sono una condizione necessaria, anche quando il responso delle urne può risultare sgradito.
Abbandonati al loro destino
Allora, se non vogliamo limitarci a spaventarci tutte le volte, il giorno prima e il giorno dopo le elezioni, dobbiamo ammettere almeno due cose. Primo: che i centristi possono minacciare la democrazia tanto quanto gli estremisti, se non di più. È la conclusione di un articolo di David Adler, intitolato Centrists are the most hostile to democracy, not extremists (Sono i centristi i più ostili alla democrazia, non gli estremisti), pubblicato sul New York Times, in cui si dimostra che non c’è una correlazione tra la considerazione degli elettori per la democrazia e la posizione che occupano nello spettro politico, anzi è proprio il contrario. Secondo: che sono stati soprattutto i politici di centro, guidati dal Partito democratico (Pd) in Italia e dai democratici negli Stati Uniti, dai socialisti in Francia e dai laburisti blairiani nel Regno Unito, a creare i mostri che oggi minacciano la democrazia, appropriandosi dell’espressione “Non c’è alternativa” di Margaret Thatcher e abbandonando al loro destino la stragrande maggioranza dei cittadini che appartengono ai ceti popolari. E questo comporta, come minimo, ammettere la responsabilità dei numerosi finti socialdemocratici per le rinunce alla democrazia, di cui pure pretendono di essere i custodi. Un’ammissione ancora lontana: Hillary Clinton, nel suo libro What happened, afferma di aver perso le elezioni presidenziali per colpa delle notizie false messe in circolazione dalla Russia e del maschilismo dell’elettorato statunitense; François Hollande attribuisce ai soli “frondisti” la responsabilità di aver cancellato un secolo di socialismo del panorama politico francese. Di fronte alla prospettiva di democrazie occidentali che oscillano tra figure autoritarie e illiberali (come Trump e Orbán) e falangi di tecnocrati usciti dal Fondo monetario internazionale, il presidente francese Emmanuel Macron ritiene di poter incarnare una “terza via”. Ma oltre al fatto che questa terza via somiglia molto ad alcune logore idee politiche che hanno prodotto i vicoli ciechi e i pericoli in cui si dibattono oggi le democrazie, e oltre al fatto che si adatta a meraviglia a una concezione autoritaria della democrazia, la “terza via” è incoerente se, pur in modo minore, mette in moto le politiche del “tanto peggio tanto meglio” che imputa agli estremisti. In altre parole l’Italia delle politiche migratorie di questi ultimi anni non può essere credibile quando denuncia il pericolo rappresentato dalla Lega perché – per esempio nel trattamento riservato ai migranti – siamo di fronte a differenze di grado e non sostanziali. E questo mette a nudo il fatto che i partiti detti populisti sono stigmatizzati non tanto per le loro tendenze autoritarie e antidemocratiche quanto perché minacciano il comune accordo neoliberista. Se si crede ancora alla possibilità di un’Europa democratica e solidale, diventa sempre più incoerente non tenere conto di come le scelte di ogni nazione incidano sui paesi vicini. La Lega e i cinquestelle devono gran parte del loro successo al fatto che gli italiani si sono sentiti abbandonati di fronte agli sconvolgimenti migratori di questi ultimi anni.
Invece di lamentarsi
Su un altro piano – come ha detto Sahra Wagenknecht, dirigente della Linke tedesca, poco prima che il 27 maggio Giuseppe Conte, incaricato dal presidente Mattarella di formare il governo, rimettesse il mandato – “è facile per il governo tedesco lamentarsi del nuovo governo di Roma, quando è la politica europea di Merkel la principale responsabile del successo dei cinquestelle e della Lega. Invece di lamentarsi della situazione elettorale italiana e di far piovere dall’alto consigli a una eventuale coalizione di governo tra Salvini e Di Maio, la Germania farebbe meglio a ridurre i surplus della sua bilancia dei pagamenti smettendola con il dumping salariale e varando invece investimenti pubblici”. Di fronte alla constatazione che la cerchia della presunta ragione democratica non resisterà a lungo per incoerenza, ipocrisia e vigliaccheria, il terzo gesto che la situazione italiana ci obbliga a compiere è fornire qualche indicazione su come rifondare un campo progressista e democratico che non sia più un’araba fenice. Naturalmente, questa rifondazione impone di non liquidare la rabbia di oggi come un difetto autoritario tipico del mondo popolare o, a scelta, come una variazione sul tema del popolo che indirizza la sua collera verso il destinatario sbagliato. In ogni caso, sarà impossibile far passi avanti senza prendere posizione nei confronti di un movimento come i cinquestelle, la cui forma e il cui successo destabilizzano lo schieramento progressista e democratico. Riuscirà quest’ultimo a tener fede ai princìpi che gli impediscono di allearsi con l’estrema destra, e al tempo stesso a restare intransigente sul riorientamento radicale delle nostre democrazie preteso e in parte messo in pratica dal Movimento 5 stelle? Dalla risposta a questa domanda dipende non solo il futuro dell’Italia, ma anche quello delle democrazie occidentali.