venerdì 8 giugno 2018

internazionale 1.6.18
L’Irlanda ha ascoltato la voce delle donne
Al referendum del 25 maggio più di due terzi dei votanti hanno sostenuto il diritto all’aborto. Un risultato che mette ine a decenni di sofferenza, scrive una giornalista irlandese
Di Ciara Kelly, The Irish Independent, Irlanda


Mi ci è voluto un po’ per capire cosa volevano dire gli exit poll. Molte di noi non osavano neanche sperare di farcela. Il 66 per cento di sì. Poteva essere vero? Lacrime. Avevamo parlato dei risultati per tutto il giorno. Sarebbe andata come con il referendum sul divorzio nel 1995, vinto dai sì per meno di novemila voti? Di sicuro non sarebbe stato un trionfo come il referendum sul matrimonio gay del 2015. Stavolta convincere gli elettori sarebbe stato molto più difficile, ci avevano ripetuto. La campagna per il sì aveva sbagliato tutto, dicevano. “Siete troppo isteriche”. Isteriche, la parola usata per descrivere e sminuire le donne arrabbiate dalla notte dei tempi. “È una campagna troppo conflittuale, nessuno si azzarderà a sostenerla”. “State allontanando la gente, il vostro tono è completamente sbagliato”. E alla fine: “È troppo estremo, gli irlandesi non vogliono l’aborto su ordinazione”. Ma a dire queste cose erano i politici, gli opinionisti e i reazionari, e per fortuna non sono loro a decidere. Doveva essere il popolo a scegliere. E il popolo ci ha ascoltato. Il dibattito sull’aborto è stato estenuante. Delle ragazze hanno raccontato che erano state stuprate e non volevano essere costrette a diventare madri per questo. Si sono sentite rispondere che non era colpa del bambino. Delle donne – molte delle quali già madri – hanno raccontato di aver portato in grembo un bambino che non aveva alcuna possibilità di sopravvivere. Sentivano che l’unica scelta possibile era interrompere la gravidanza. Il che ha significato viaggiare verso luoghi in cui sono state trattate con più compassione che nel loro paese. Hanno portato a casa i corpi dei loro neonati nel bagagliaio della macchina, avvolti in confezioni di piselli surgelati. O li hanno dovuti lasciare in un paese straniero. Si sono sentite dire che evidentemente non amavano davvero i loro figli. E che ci sono donne coraggiose e nobili che in casi simili portano a termine la gravidanza e provano una grande gioia per essere state con il loro bambino, anche se per poco tempo. Le donne che hanno abortito all’estero hanno risposto che rispettano la scelta di chi ha voluto andare fino in fondo, ma per loro non era quella giusta. Ma si sono sentite dire con gelida indifferenza che “i casi estremi creano leggi sbagliate”. La verità è che sono state le nostre leggi sbagliate a creare un caso estremo dopo l’altro. Le donne hanno raccontato tutto il dolore delle loro gravidanze difficili alla radio e sui social network. La pagina Facebook In her shoes è diventata un luogo in cui potevano condividere le loro esperienze, anche se questo le esponeva agli insulti e agli attacchi. Le hanno chiamate “assassine di bambini”, come in occasione del referendum sull’ottavo emendamento che nel 1983 ha introdotto il divieto di aborto nella costituzione irlandese. Tutto questo ha alimentato una sofferenza profonda, un tormento emotivo. Raccontare il proprio dolore più profondo e ottenere solo indifferenza. Sentirsi dire “l’aborto non è mai giusto” è come un calcio nello stomaco. Abbiamo raccontato gli abusi, la violenza, i problemi di salute mentale. Ci hanno detto che in questo caso la salute mentale non conta. Abbiamo parlato della nostra salute. Avevamo il cancro, la fibrosi cistica, insufficienze cardiache. Una gravidanza avrebbe potuto ucciderci. Ci hanno risposto che “l’Irlanda ha il miglior sistema sanitario del mondo per le donne incinte”. Abbiamo raccontato la storia di Savita Halappanavar, la donna di 31 anni morta di setticemia nel 2012 perché i medici si sono rifiutati di interrompere la sua gravidanza Il giorno in cui Savita è morta i medici continuavano a controllare il battito cardiaco del bambino, anche se non aveva alcuna possibilità di sopravvivere. Quel battito quasi assente è bastato a negarle l’aborto che le avrebbe salvato la vita. Ci hanno detto che non dovevamo parlare di Savita, perché non c’entrava niente. Votate no e basta. Un ruggito
A dire la verità ci siamo chieste se ci avrebbero mai ascoltato, se qualcuno in Irlanda si sarebbe mai interessato alle donne, come fanno negli altri paesi. Volevamo disperatamente credere che la gente avrebbe capito che eravamo nei guai e che all’Irlanda sarebbe finalmente importato qualcosa di noi. E alla fine è stato così. Anche se i sostenitori del no sono rimasti impassibili davanti alle nostre storie. Anche se abbiamo raccontato in lacrime cosa abbiamo passato e loro hanno risposto solo con lo slogan “amali entrambi”. Gli irlandesi ci hanno ascoltato. Gli irlandesi buoni, gentili, compassionevoli e premurosi ci hanno ascoltato e hanno risposto alla nostra richiesta di aiuto con un sì. Un sì assordante che non è stato un sussurro, ma un ruggito. Una valanga di sostegno per le donne irlandesi quando ci saremmo accontentate di una vittoria risicata. Perché per i sostenitori del sì e per le donne di questo paese in gioco non c’è mai stato solo l’aborto. C’era il modo in cui le donne – noi, le vostre madri, sorelle, mogli, partner, figlie e amiche – vengono trattate dall’Irlanda nel momento in cui sono più vulnerabili. E in passato non siamo state trattate molto bene. Il nostro ruolo nella riproduzione è stato usato come un bastone per picchiarci. Ci hanno emarginate quando siamo rimaste incinte fuori dal matrimonio. Ci hanno emarginate quando abbiamo abortito. Ci hanno negato i contraccettivi, ma una gravidanza indesiderata ci trasformava in paria. Ci hanno chiuse negli istituti e nelle Magdalene laundries, le case di lavoro per “donne disonorate”. Ci hanno detto che le madri nubili non erano adatte a crescere i loro bambini e dovevano affidarli a famiglie migliori, a donne migliori. Hanno chiamati i nostri figli bastardi. Ci hanno coperte di vergogna e ci hanno dato la colpa della nostra sorte. E naturalmente ci hanno giudicato. Nella storia del mondo pochi giudici sono stati così severi con le donne come la società irlandese. Ma a un certo punto qualcosa è cambiato. Le poche voci che dicevano che era sbagliato sono diventate un rumore fortissimo. E anche se ci dicevano di non essere così arrabbiate, di non allontanare la gente, la gente non si è allontanata. Ha ascoltato, ha riflettuto, ha capito e ha votato. Hanno votato in migliaia. Non dimenticherò mai il momento in cui ho visto le centinaia di gioani donne che arrivavano nei nostri aeroporti con indosso le felpe con la scritta repeal (abrogazione) del movimento Home to vote (torna a casa per votare). Lo slogan “noi viaggiamo perché voi non siate costrette a farlo” è stato uno dei più commoventi della campagna. La solidarietà femminile a cui abbiamo assistito spazza via per sempre l’idea secondo cui le donne non aiutano le altre donne. Ma abbiamo avuto alleati anche tra i maschi. Non ce l’avremmo mai fatta senza il 65 per cento di maschi che ha votato per noi. Ci sono tante persone che con il loro duro lavoro ci hanno portate ino a questo giorno, troppe per ringraziarle tutte. Ma una menzione speciale va ad Ailbhe Smyth, che si batte strenuamente per i diritti delle donne da prima del referendum del 1983. Riesco a malapena a esprimere cosa significa questo voto per le donne irlandesi. Fa moltissimo per curare le vecchie ferite. E mi ha dato molta speranza per il futuro di mia figlia e di tutte le nostre figlie. L’ottavo emendamento è stato inserito nella costituzione quando avevo 12 anni e ha governato la mia intera vita riproduttiva. Il giorno del referendum, quando ho visto i fiori davanti al memoriale delle Magdalene laun dries e tutte le persone riunite davanti al murales per Savita che piangevano e si abbracciavano, finalmente ho creduto alle parole “mai più”. MnanahEireann, donne d’Irlanda, questo è il nostro momento da suffragette. Grazie, Irlanda.
Ciara Kelly è una dottoressa e giornalista irlandese. Conduce un programma sulla radio Newstalk e scrive una column sull’Irish Independent.