internazionale 1.6.18
L’Irlanda ha ascoltato la voce delle donne
Al
referendum del 25 maggio più di due terzi dei votanti hanno sostenuto
il diritto all’aborto. Un risultato che mette ine a decenni di
sofferenza, scrive una giornalista irlandese
Di Ciara Kelly, The Irish Independent, Irlanda
Mi
ci è voluto un po’ per capire cosa volevano dire gli exit poll. Molte
di noi non osavano neanche sperare di farcela. Il 66 per cento di sì.
Poteva essere vero? Lacrime. Avevamo parlato dei risultati per tutto il
giorno. Sarebbe andata come con il referendum sul divorzio nel 1995,
vinto dai sì per meno di novemila voti? Di sicuro non sarebbe stato un
trionfo come il referendum sul matrimonio gay del 2015. Stavolta
convincere gli elettori sarebbe stato molto più difficile, ci avevano
ripetuto. La campagna per il sì aveva sbagliato tutto, dicevano. “Siete
troppo isteriche”. Isteriche, la parola usata per descrivere e sminuire
le donne arrabbiate dalla notte dei tempi. “È una campagna troppo
conflittuale, nessuno si azzarderà a sostenerla”. “State allontanando la
gente, il vostro tono è completamente sbagliato”. E alla fine: “È
troppo estremo, gli irlandesi non vogliono l’aborto su ordinazione”. Ma a
dire queste cose erano i politici, gli opinionisti e i reazionari, e
per fortuna non sono loro a decidere. Doveva essere il popolo a
scegliere. E il popolo ci ha ascoltato. Il dibattito sull’aborto è stato
estenuante. Delle ragazze hanno raccontato che erano state stuprate e
non volevano essere costrette a diventare madri per questo. Si sono
sentite rispondere che non era colpa del bambino. Delle donne – molte
delle quali già madri – hanno raccontato di aver portato in grembo un
bambino che non aveva alcuna possibilità di sopravvivere. Sentivano che
l’unica scelta possibile era interrompere la gravidanza. Il che ha
significato viaggiare verso luoghi in cui sono state trattate con più
compassione che nel loro paese. Hanno portato a casa i corpi dei loro
neonati nel bagagliaio della macchina, avvolti in confezioni di piselli
surgelati. O li hanno dovuti lasciare in un paese straniero. Si sono
sentite dire che evidentemente non amavano davvero i loro figli. E che
ci sono donne coraggiose e nobili che in casi simili portano a termine
la gravidanza e provano una grande gioia per essere state con il loro
bambino, anche se per poco tempo. Le donne che hanno abortito all’estero
hanno risposto che rispettano la scelta di chi ha voluto andare fino in
fondo, ma per loro non era quella giusta. Ma si sono sentite dire con
gelida indifferenza che “i casi estremi creano leggi sbagliate”. La
verità è che sono state le nostre leggi sbagliate a creare un caso
estremo dopo l’altro. Le donne hanno raccontato tutto il dolore delle
loro gravidanze difficili alla radio e sui social network. La pagina
Facebook In her shoes è diventata un luogo in cui potevano condividere
le loro esperienze, anche se questo le esponeva agli insulti e agli
attacchi. Le hanno chiamate “assassine di bambini”, come in occasione
del referendum sull’ottavo emendamento che nel 1983 ha introdotto il
divieto di aborto nella costituzione irlandese. Tutto questo ha
alimentato una sofferenza profonda, un tormento emotivo. Raccontare il
proprio dolore più profondo e ottenere solo indifferenza. Sentirsi dire
“l’aborto non è mai giusto” è come un calcio nello stomaco. Abbiamo
raccontato gli abusi, la violenza, i problemi di salute mentale. Ci
hanno detto che in questo caso la salute mentale non conta. Abbiamo
parlato della nostra salute. Avevamo il cancro, la fibrosi cistica,
insufficienze cardiache. Una gravidanza avrebbe potuto ucciderci. Ci
hanno risposto che “l’Irlanda ha il miglior sistema sanitario del mondo
per le donne incinte”. Abbiamo raccontato la storia di Savita
Halappanavar, la donna di 31 anni morta di setticemia nel 2012 perché i
medici si sono rifiutati di interrompere la sua gravidanza Il giorno in
cui Savita è morta i medici continuavano a controllare il battito
cardiaco del bambino, anche se non aveva alcuna possibilità di
sopravvivere. Quel battito quasi assente è bastato a negarle l’aborto
che le avrebbe salvato la vita. Ci hanno detto che non dovevamo parlare
di Savita, perché non c’entrava niente. Votate no e basta. Un ruggito
A
dire la verità ci siamo chieste se ci avrebbero mai ascoltato, se
qualcuno in Irlanda si sarebbe mai interessato alle donne, come fanno
negli altri paesi. Volevamo disperatamente credere che la gente avrebbe
capito che eravamo nei guai e che all’Irlanda sarebbe finalmente
importato qualcosa di noi. E alla fine è stato così. Anche se i
sostenitori del no sono rimasti impassibili davanti alle nostre storie.
Anche se abbiamo raccontato in lacrime cosa abbiamo passato e loro hanno
risposto solo con lo slogan “amali entrambi”. Gli irlandesi ci hanno
ascoltato. Gli irlandesi buoni, gentili, compassionevoli e premurosi ci
hanno ascoltato e hanno risposto alla nostra richiesta di aiuto con un
sì. Un sì assordante che non è stato un sussurro, ma un ruggito. Una
valanga di sostegno per le donne irlandesi quando ci saremmo
accontentate di una vittoria risicata. Perché per i sostenitori del sì e
per le donne di questo paese in gioco non c’è mai stato solo l’aborto.
C’era il modo in cui le donne – noi, le vostre madri, sorelle, mogli,
partner, figlie e amiche – vengono trattate dall’Irlanda nel momento in
cui sono più vulnerabili. E in passato non siamo state trattate molto
bene. Il nostro ruolo nella riproduzione è stato usato come un bastone
per picchiarci. Ci hanno emarginate quando siamo rimaste incinte fuori
dal matrimonio. Ci hanno emarginate quando abbiamo abortito. Ci hanno
negato i contraccettivi, ma una gravidanza indesiderata ci trasformava
in paria. Ci hanno chiuse negli istituti e nelle Magdalene laundries, le
case di lavoro per “donne disonorate”. Ci hanno detto che le madri
nubili non erano adatte a crescere i loro bambini e dovevano affidarli a
famiglie migliori, a donne migliori. Hanno chiamati i nostri figli
bastardi. Ci hanno coperte di vergogna e ci hanno dato la colpa della
nostra sorte. E naturalmente ci hanno giudicato. Nella storia del mondo
pochi giudici sono stati così severi con le donne come la società
irlandese. Ma a un certo punto qualcosa è cambiato. Le poche voci che
dicevano che era sbagliato sono diventate un rumore fortissimo. E anche
se ci dicevano di non essere così arrabbiate, di non allontanare la
gente, la gente non si è allontanata. Ha ascoltato, ha riflettuto, ha
capito e ha votato. Hanno votato in migliaia. Non dimenticherò mai il
momento in cui ho visto le centinaia di gioani donne che arrivavano nei
nostri aeroporti con indosso le felpe con la scritta repeal
(abrogazione) del movimento Home to vote (torna a casa per votare). Lo
slogan “noi viaggiamo perché voi non siate costrette a farlo” è stato
uno dei più commoventi della campagna. La solidarietà femminile a cui
abbiamo assistito spazza via per sempre l’idea secondo cui le donne non
aiutano le altre donne. Ma abbiamo avuto alleati anche tra i maschi. Non
ce l’avremmo mai fatta senza il 65 per cento di maschi che ha votato
per noi. Ci sono tante persone che con il loro duro lavoro ci hanno
portate ino a questo giorno, troppe per ringraziarle tutte. Ma una
menzione speciale va ad Ailbhe Smyth, che si batte strenuamente per i
diritti delle donne da prima del referendum del 1983. Riesco a malapena a
esprimere cosa significa questo voto per le donne irlandesi. Fa
moltissimo per curare le vecchie ferite. E mi ha dato molta speranza per
il futuro di mia figlia e di tutte le nostre figlie. L’ottavo
emendamento è stato inserito nella costituzione quando avevo 12 anni e
ha governato la mia intera vita riproduttiva. Il giorno del referendum,
quando ho visto i fiori davanti al memoriale delle Magdalene laun dries e
tutte le persone riunite davanti al murales per Savita che piangevano e
si abbracciavano, finalmente ho creduto alle parole “mai più”.
MnanahEireann, donne d’Irlanda, questo è il nostro momento da
suffragette. Grazie, Irlanda.
Ciara Kelly è una dottoressa e
giornalista irlandese. Conduce un programma sulla radio Newstalk e
scrive una column sull’Irish Independent.