venerdì 8 giugno 2018

l’espresso 3.6.18
Giustizia per ricchi
Prescrizione per i reati economici, privatizzazione dei processi, costi legali inarrivabili. Così in Italia i vip restano impuniti
di Paolo Biondani


Più sicurezza, più carcere, più armi contro la criminalità. Più diritti, più tutele, più risarcimenti per le vittime della crisi. In un’Italia sprofondata in una campagna elettorale permanente, le questioni giudiziarie sono al centro della propaganda politica. E i cittadini si vedono tempestare di promesse. Nuove leggi miracolose. Progetti di riforma a costo zero. Soluzioni facili e immediate per problemi complicati. Slogan e comizi fanno leva quasi sempre sulle emozioni scatenate da un singolo caso di violenza spettacolarizzato dai media: l’omicidio impressionante, la rapina nella casa di famiglia, l’attentato terroristico tra la folla. Di giustizia civile, che secondo tutti gli esperti è la vera e cronica emergenza italiana, nell’arena elettorale si parla pochissimo. Ma anche sul fronte della lotta al crimine, raramente si confrontano le promesse, e le paure dei cittadini, con la realtà del nostro sistema giudiziario. Tutti parlano di legalità e sicurezza, ma i dati oggettivi sembrano interessare solo a magistrati e professori. Un esempio? La recidiva: è il termine tecnico che descrive la ricaduta nel reato. Fotografa chi torna a delinquere dopo aver finito di scontare una precedente condanna. È un problema enorme: ogni mese dalle carceri italiane, secondo l’ultimo studio statistico del ministero della giustizia, escono dai duemila ai tremila ex detenuti. Tranne i casi eccezionali di ergastolo “ostativo”, ogni pena ha una durata massima: quasi tutti, prima o poi, tornano in libertà, anche i condannati per omicidi, violenze sessuali, maia e altri reati gravissimi. Ma quanti ex detenuti hanno cambiato vita? E quanti invece tornano al crimine? «Più del 70 per cento, purtroppo», risponde Francesco Cascini, pm antimafia a Roma ed ex numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). «Per avere cifre esatte, servono anni di studi statistici, ma trovare un dato generale, a livello nazionale, è semplice: basta interrogare il sistema informatico del Dap e chiedere, per ogni nuovo detenuto, se è già stato in carcere. L’ho fatto molte volte: le risposte affermative variano dal 70 all’80 per cento. Quindi parliamo di decine di migliaia di persone a rischio di recidiva. Questo significa che il nostro sistema penale non realizza la sua funzione di rieducazione, recupero, reinserimento nella vita civile, che sarebbe imposta dalla Costituzione. Dopo i famosi pacchetti sicurezza, abbiamo avuto punte di 70 mila detenuti, con carceri sovraffollate, invivibili; oggi, dopo le ripetute condanne dell’Italia per violazione dei diritti umani e le conseguenti misure legislative, abbiamo comunque più di 50 mila reclusi. Eppure quasi nessuno si chiede che fine fanno gli ex detenuti. Scontata la pena, cosa fa l’assassino? E il rapinatore di banche? E il pedofilo? Il carcere e i processi costano. Ma la recidiva ha costi sociali molto più alti». Il magistrato, dopo anni di antimafia in Calabria e Campania, è stato anche capo del Dipartimento della giustizia minorile, che segue logiche rieducative: la reclusione è un’eccezione per i casi più gravi, la regola è un percorso di formazione, scuola, lavoro, recupero personale e familiare. «Per chi ha meno di 18 anni si parte dal presupposto, accettato, che il tempo della pena serve a ricostruire il futuro. Lo Stato e molti enti locali, ma anche la Chiesa e le associazioni offrono risorse: in media gestiamo circa 20 mila minori in esecuzione esterna, cioè fuori dal carcere. In certe zone d’Italia l’assenza di politiche per i giovani crea un paradosso: l’assistenza sociale arriva solo dopo l’arresto». E nell’umanitaria giustizia minorile qual è il tasso di recidiva? «La metà degli adulti: 30-35 per cento». Il mito della linea dura è incrinato anche dalle statistiche internazionali verificate dall’Istat. Le nazioni con il più alto numero di detenuti in rapporto alla popolazione, cioè le repubbliche baltiche e gran parte dei paesi dell’est, hanno tassi di omicidio molto superiori alla media europea: il rischio di morire ammazzati è da due a nove volte più alto che nell’Italia di oggi. Quindi più carcere non significa più sicurezza. Anzi, le manette facili sembrano aumentare la propensione alla violenza. I pensatori progressisti, da Beccaria a Turati, non avevano bisogno di statistiche per insegnare che un carcere disumano è una scuola di delinquenza. Chi entra spacciatore ne esce narcotrafficante, il ladro diventa rapinatore, il criminale comune è reclutato dalla maia. Oggi l’unico grande penitenziario per adulti dove la rieducazione non è una favola è Milano-Bollate: una struttura moderna, inaugurata nel 2000, con più di mille detenuti inseriti in programmi di formazione e lavoro anche esterno. Un mese fa due autorevoli studiosi, Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese, hanno pubblicato la prima ricerca scientifica sui detenuti trasferiti da altre prigioni a Bollate: il risultato più vistoso è che, per ogni anno trascorso in questo carcere più umano, la recidiva crolla del 10 per cento. Questo significa che, in 18 anni di attività, il modello Bollate ha evitato all’Italia migliaia di gravi reati. Meno omicidi, più paure In questi anni molti leader politici hanno parlato di giustizia per attaccare indagini, arresti e sentenze di condanna, se coinvolgono la classe dirigente o personaggi famosi. In realtà proprio nel sistema penale c’è il settore che funziona meglio e ottiene risultati riconosciuti e studiati anche all’estero: la lotta alla criminalità. In Italia i reati più gravi sono in continuo calo (vedi tabelle). Gli omicidi sono al minimo storico: come dimostrano 150 anni di statistiche pubblicate dal professor Marzio Barbagli, dall’unità d’Italia ad oggi il rischio di morire ammazzati non è mai stato così basso. Tra il 1988 e il 1991 si contavano, in media, tre delitti al giorno. Il tasso di omicidi era quattro volte più alto di oggi. Anche le rapine sono in calo. Nell’ultimo decennio si sono quasi dimezzate, soprattutto le più gravi, come gli assalti a banche e uffici postale organizzati da bande armate. Nelle mappe della criminalità diffusa aumentano solo i furti in casa, senza violenza sulle persone (altrimenti diventano rapine), con una crescita continua fino al 2014 e un lieve calo successivo. Non sembra trattarsi di un effetto della crisi e nemmeno degli sbarchi di profughi al sud: i ladri colpiscono soprattutto nelle regioni del nord dove c’è meno disoccupazione, molte seconde case sfitte e abitazioni di famiglia che si svuotano perché tutti vanno a lavorare. Un altro problema che non ha soluzioni semplici è la crescita allarmante delle percentuali di femminicidi e delitti tra familiari e conoscenti. I giudici dei divorzi, a Milano, segnalano un parallelo «aumento impressionante della litigiosità e cattiveria nelle cause tra coniugi, che spesso strumentalizzano i figli». Stando ai dati, insomma, la sicurezza bisognerebbe imporla prima di tutto dentro le case. Fuori, la criminalità cala: magistrati, poliziotti, carabinieri e finanzieri hanno raggiunto risultati storici. A spiegare il crollo sono soprattutto le indagini antimafia. Nel 1990 nel sud dominato da cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta c’erano tassi di omicidio spaventosi: in Sicilia 8,2 delitti ogni centomila abitanti, in Calabria 15,1. La media nazionale oggi è precipitata a 0,66. Le regioni più a rischio restano (nell’ordine) Campania, Puglia, Sardegna e Calabria, ma il dato più negativo oggi è 1,42. Meno di un decimo del record di trent’anni fa. La lotta alla maia ha ridotto anche altri reati, dalle estorsioni ai morti per droga, mentre i sequestri di persona sono quasi scomparsi. Anche gli effetti delle indagini sono diversi. In media vengono arrestati oltre il 90 per cento degli assassini di familiari e il 70-80 per cento dei rapinatori che sparano e uccidono. Negli omicidi di mafia invece il tasso scende al 20 per cento (con punte massime di 30), quindi i killer restano liberi di commettere altri crimini. I maxi-processi alle organizzazioni mafiose, dunque, hanno un effetto moltiplicatore della sicurezza. Nonostante la riduzione oggettiva della criminalità violenta, tra gli italiani cresce da anni la paura, misurata dai sondaggi sulla percezione del rischio. La crescita non è lineare, ma altalenante: i dati dell’Istat fanno ipotizzare che la sensazione di insicurezza aumenti nei periodi di scontro politico, propaganda elettorale e martellamento mediatico. Rovesciando l’esempio, questa ipotesi si rafforza. Nella storia d’Italia, il tasso più allarmante di omicidi (esclusa ovviamente la seconda guerra mondiale) risale agli anni dell’affermazione della dittatura fascista. Oltre a incarcerare gli oppositori e abolire la libertà di pensiero, il regime censurava perfino la cronaca nera, per non smentire la retorica dello Stato forte. Il rischio di morire ammazzati era enormemente più elevato di oggi, ma nessuno poteva farlo percepire al popolo italiano. Il rovescio della medaglia è la prescrizione, che garantisce una sostanziale impunità per tutti i reati dei colletti bianchi: evasioni fiscali, scandali economici, disastri ambientali, morti sul lavoro, illeciti bancari e finanziari, truffe e corruzioni. Prescrizione significa che il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma sono scaduti i termini massimi di punibilità del colpevole, che in Italia sono bassissimi. Quindi per i ricchi e potenti le regole del diritto si rovesciano: chi sbaglia non paga. In media, ogni anno, vengono così annientati circa 130 mila processi penali. E ogni sentenza di prescrizione può cancellare decine di reati. Un privilegio italiano che si è aggravato dopo il 2005 (vedi tabella) con la legge “ex Cirielli” varata dal governo Berlusconi, poi in parte riformata dal centrosinistra con il ministro Orlando. Più di metà delle prescrizioni scattano già alla ine delle indagini: il processo muore prima di iniziare. L’anomalia più assurda (all’estero non esiste) è la prescrizione dichiarata nelle sentenze di tribunale, appello e cassazione: il processo si fa e dura anni, ma non si condanna nessuno. E tra i pochi colpevoli conclamati di reati da ricchi, rischiano il carcere solo i peggiori delinquenti: sotto il limite dei quattro anni di pena, l’ex incensurato resta fuori di galera, o torna subito libero, perché ha diritto di ottenere l’affidamento ai servizi sociali. Tribunali di classe Fra tante polemiche pubbliche sulla giustizia, i cambiamenti più profondi stanno passando sotto silenzio. Tra i 9.543 magistrati italiani, più di metà (5.061) sono donne. Tra i capi degli uffici dominano ancora i maschi, soprattutto ai livelli più alti, ma la quota femminile è in continua crescita. Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano (e prima a Reggio Calabria), evidenzia un altro cambiamento: «L’età media di ingresso nella magistratura, quando feci il concorso, era di 25 anni. Oggi, dopo la laurea, è obbligatoria una lunga formazione: i corsi privati costano, con tutti i problemi e rischi conseguenti, l’età media è salita a 31 anni e continua a crescere. Quindi nelle procure e tribunali non arrivano più i giovani, ma persone sposate, con figli. Questo incide sulla propensione al sacrificio, ad accettare carichi di lavoro straordinari, ma anche sulla composizione sociale della magistratura: quanti genitori di ceto medio-basso possono permettersi di far studiare i figli ino a 30 o 35 anni, in attesa di un concorso difficile, che non dà certezze di trovare lavoro?». Il pericolo di una giustizia classista, con buona pace del principio costituzionale di uguaglianza, è aggravato da altri fattori. Come una privatizzazione strisciante dei processi. Da sempre i ricchi possono pagare i migliori avvocati e consulenti. Ora interi settori legali, come i processi fiscali e le cause minori per valore (ma non per numero), sono affidati a toghe onorarie: giudici privati, non magistrati con garanzie di indipendenza da ogni altro potere. Tempi infiniti, ma al Sud Nella giustizia amministrativa, gli attacchi politici si concentrano sui Tar, i tribunali regionali di primo grado. Un grande esperto come l’avvocato Stefano Nespor non condivide le critiche: «Il sistema dei Tar funziona molto meglio della giustizia ordinaria quasi in tutta Italia. Le cause vengono sempre decise da un collegio e la durata è ridotta: da uno a cinque mesi per le sospensioni cautelari, circa tre anni per le sentenze definitive. E mediamente i giudici dei Tar sono preparati, perché devono superare un concorso di secondo grado: possono farlo solo magistrati o funzionari di grande esperienza, che conoscono bene le regole della pubblica amministrazione». Molto amato dai governi è invece il Consiglio di Stato, che decide in secondo e ultimo grado. Una parte di questi giudici supremi sono nominati dal potere politico. E molti diventano ministri, super-burocrati o consulenti dei governi. Ma anche arbitri di cause private con parcelle milionarie pagate dai colossi degli appalti. Con prevedibili rischi di collusioni e corruzioni: le procure di Roma, Messina e Milano indagano da mesi su sentenze vendute e altri inquinamenti giudiziari. Un disastro notorio è la giustizia civile, che è lentissima, zavorrata da quattro milioni di cause arretrate e avrebbe bisogno di una riforma generale, strutturale, mai tentata da nessun governo. L’inefficienza aggrava il divario economico tra regioni: al sud le cause durano il doppio o il triplo che al nord. Messina ha il primato negativo: 1.806 giorni per ottenere una sentenza di primo grado. L’emergenza più incivile è il recupero crediti: vinto il processo, bisogna farsi pagare. Ma per incassare il ricavato della vendita giudiziaria di un immobile ipotecato, il creditore italiano può aspettare più di otto anni (vedi tabelle). E se il debitore manda la sua società in fallimento, al sud l’attesa supera il decennio. Un paradossale incentivo a ignorare il diritto e applicare la legge del più forte.