l’espresso 3.6.18
Giustizia per ricchi
Prescrizione per i
reati economici, privatizzazione dei processi, costi legali
inarrivabili. Così in Italia i vip restano impuniti
di Paolo Biondani
Più
sicurezza, più carcere, più armi contro la criminalità. Più diritti,
più tutele, più risarcimenti per le vittime della crisi. In un’Italia
sprofondata in una campagna elettorale permanente, le questioni
giudiziarie sono al centro della propaganda politica. E i cittadini si
vedono tempestare di promesse. Nuove leggi miracolose. Progetti di
riforma a costo zero. Soluzioni facili e immediate per problemi
complicati. Slogan e comizi fanno leva quasi sempre sulle emozioni
scatenate da un singolo caso di violenza spettacolarizzato dai media:
l’omicidio impressionante, la rapina nella casa di famiglia, l’attentato
terroristico tra la folla. Di giustizia civile, che secondo tutti gli
esperti è la vera e cronica emergenza italiana, nell’arena elettorale si
parla pochissimo. Ma anche sul fronte della lotta al crimine, raramente
si confrontano le promesse, e le paure dei cittadini, con la realtà del
nostro sistema giudiziario. Tutti parlano di legalità e sicurezza, ma i
dati oggettivi sembrano interessare solo a magistrati e professori. Un
esempio? La recidiva: è il termine tecnico che descrive la ricaduta nel
reato. Fotografa chi torna a delinquere dopo aver finito di scontare una
precedente condanna. È un problema enorme: ogni mese dalle carceri
italiane, secondo l’ultimo studio statistico del ministero della
giustizia, escono dai duemila ai tremila ex detenuti. Tranne i casi
eccezionali di ergastolo “ostativo”, ogni pena ha una durata massima:
quasi tutti, prima o poi, tornano in libertà, anche i condannati per
omicidi, violenze sessuali, maia e altri reati gravissimi. Ma quanti ex
detenuti hanno cambiato vita? E quanti invece tornano al crimine? «Più
del 70 per cento, purtroppo», risponde Francesco Cascini, pm antimafia a
Roma ed ex numero due del Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria (Dap). «Per avere cifre esatte, servono anni di studi
statistici, ma trovare un dato generale, a livello nazionale, è
semplice: basta interrogare il sistema informatico del Dap e chiedere,
per ogni nuovo detenuto, se è già stato in carcere. L’ho fatto molte
volte: le risposte affermative variano dal 70 all’80 per cento. Quindi
parliamo di decine di migliaia di persone a rischio di recidiva. Questo
significa che il nostro sistema penale non realizza la sua funzione di
rieducazione, recupero, reinserimento nella vita civile, che sarebbe
imposta dalla Costituzione. Dopo i famosi pacchetti sicurezza, abbiamo
avuto punte di 70 mila detenuti, con carceri sovraffollate, invivibili;
oggi, dopo le ripetute condanne dell’Italia per violazione dei diritti
umani e le conseguenti misure legislative, abbiamo comunque più di 50
mila reclusi. Eppure quasi nessuno si chiede che fine fanno gli ex
detenuti. Scontata la pena, cosa fa l’assassino? E il rapinatore di
banche? E il pedofilo? Il carcere e i processi costano. Ma la recidiva
ha costi sociali molto più alti». Il magistrato, dopo anni di antimafia
in Calabria e Campania, è stato anche capo del Dipartimento della
giustizia minorile, che segue logiche rieducative: la reclusione è
un’eccezione per i casi più gravi, la regola è un percorso di
formazione, scuola, lavoro, recupero personale e familiare. «Per chi ha
meno di 18 anni si parte dal presupposto, accettato, che il tempo della
pena serve a ricostruire il futuro. Lo Stato e molti enti locali, ma
anche la Chiesa e le associazioni offrono risorse: in media gestiamo
circa 20 mila minori in esecuzione esterna, cioè fuori dal carcere. In
certe zone d’Italia l’assenza di politiche per i giovani crea un
paradosso: l’assistenza sociale arriva solo dopo l’arresto». E
nell’umanitaria giustizia minorile qual è il tasso di recidiva? «La metà
degli adulti: 30-35 per cento». Il mito della linea dura è incrinato
anche dalle statistiche internazionali verificate dall’Istat. Le nazioni
con il più alto numero di detenuti in rapporto alla popolazione, cioè
le repubbliche baltiche e gran parte dei paesi dell’est, hanno tassi di
omicidio molto superiori alla media europea: il rischio di morire
ammazzati è da due a nove volte più alto che nell’Italia di oggi. Quindi
più carcere non significa più sicurezza. Anzi, le manette facili
sembrano aumentare la propensione alla violenza. I pensatori
progressisti, da Beccaria a Turati, non avevano bisogno di statistiche
per insegnare che un carcere disumano è una scuola di delinquenza. Chi
entra spacciatore ne esce narcotrafficante, il ladro diventa rapinatore,
il criminale comune è reclutato dalla maia. Oggi l’unico grande
penitenziario per adulti dove la rieducazione non è una favola è
Milano-Bollate: una struttura moderna, inaugurata nel 2000, con più di
mille detenuti inseriti in programmi di formazione e lavoro anche
esterno. Un mese fa due autorevoli studiosi, Giovanni Mastrobuoni e
Daniele Terlizzese, hanno pubblicato la prima ricerca scientifica sui
detenuti trasferiti da altre prigioni a Bollate: il risultato più
vistoso è che, per ogni anno trascorso in questo carcere più umano, la
recidiva crolla del 10 per cento. Questo significa che, in 18 anni di
attività, il modello Bollate ha evitato all’Italia migliaia di gravi
reati. Meno omicidi, più paure In questi anni molti leader politici
hanno parlato di giustizia per attaccare indagini, arresti e sentenze di
condanna, se coinvolgono la classe dirigente o personaggi famosi. In
realtà proprio nel sistema penale c’è il settore che funziona meglio e
ottiene risultati riconosciuti e studiati anche all’estero: la lotta
alla criminalità. In Italia i reati più gravi sono in continuo calo
(vedi tabelle). Gli omicidi sono al minimo storico: come dimostrano 150
anni di statistiche pubblicate dal professor Marzio Barbagli, dall’unità
d’Italia ad oggi il rischio di morire ammazzati non è mai stato così
basso. Tra il 1988 e il 1991 si contavano, in media, tre delitti al
giorno. Il tasso di omicidi era quattro volte più alto di oggi. Anche le
rapine sono in calo. Nell’ultimo decennio si sono quasi dimezzate,
soprattutto le più gravi, come gli assalti a banche e uffici postale
organizzati da bande armate. Nelle mappe della criminalità diffusa
aumentano solo i furti in casa, senza violenza sulle persone (altrimenti
diventano rapine), con una crescita continua fino al 2014 e un lieve
calo successivo. Non sembra trattarsi di un effetto della crisi e
nemmeno degli sbarchi di profughi al sud: i ladri colpiscono soprattutto
nelle regioni del nord dove c’è meno disoccupazione, molte seconde case
sfitte e abitazioni di famiglia che si svuotano perché tutti vanno a
lavorare. Un altro problema che non ha soluzioni semplici è la crescita
allarmante delle percentuali di femminicidi e delitti tra familiari e
conoscenti. I giudici dei divorzi, a Milano, segnalano un parallelo
«aumento impressionante della litigiosità e cattiveria nelle cause tra
coniugi, che spesso strumentalizzano i figli». Stando ai dati, insomma,
la sicurezza bisognerebbe imporla prima di tutto dentro le case. Fuori,
la criminalità cala: magistrati, poliziotti, carabinieri e finanzieri
hanno raggiunto risultati storici. A spiegare il crollo sono soprattutto
le indagini antimafia. Nel 1990 nel sud dominato da cosa nostra,
camorra e ‘ndrangheta c’erano tassi di omicidio spaventosi: in Sicilia
8,2 delitti ogni centomila abitanti, in Calabria 15,1. La media
nazionale oggi è precipitata a 0,66. Le regioni più a rischio restano
(nell’ordine) Campania, Puglia, Sardegna e Calabria, ma il dato più
negativo oggi è 1,42. Meno di un decimo del record di trent’anni fa. La
lotta alla maia ha ridotto anche altri reati, dalle estorsioni ai morti
per droga, mentre i sequestri di persona sono quasi scomparsi. Anche gli
effetti delle indagini sono diversi. In media vengono arrestati oltre
il 90 per cento degli assassini di familiari e il 70-80 per cento dei
rapinatori che sparano e uccidono. Negli omicidi di mafia invece il
tasso scende al 20 per cento (con punte massime di 30), quindi i killer
restano liberi di commettere altri crimini. I maxi-processi alle
organizzazioni mafiose, dunque, hanno un effetto moltiplicatore della
sicurezza. Nonostante la riduzione oggettiva della criminalità violenta,
tra gli italiani cresce da anni la paura, misurata dai sondaggi sulla
percezione del rischio. La crescita non è lineare, ma altalenante: i
dati dell’Istat fanno ipotizzare che la sensazione di insicurezza
aumenti nei periodi di scontro politico, propaganda elettorale e
martellamento mediatico. Rovesciando l’esempio, questa ipotesi si
rafforza. Nella storia d’Italia, il tasso più allarmante di omicidi
(esclusa ovviamente la seconda guerra mondiale) risale agli anni
dell’affermazione della dittatura fascista. Oltre a incarcerare gli
oppositori e abolire la libertà di pensiero, il regime censurava perfino
la cronaca nera, per non smentire la retorica dello Stato forte. Il
rischio di morire ammazzati era enormemente più elevato di oggi, ma
nessuno poteva farlo percepire al popolo italiano. Il rovescio della
medaglia è la prescrizione, che garantisce una sostanziale impunità per
tutti i reati dei colletti bianchi: evasioni fiscali, scandali
economici, disastri ambientali, morti sul lavoro, illeciti bancari e
finanziari, truffe e corruzioni. Prescrizione significa che il reato
c’è, l’imputato lo ha commesso, ma sono scaduti i termini massimi di
punibilità del colpevole, che in Italia sono bassissimi. Quindi per i
ricchi e potenti le regole del diritto si rovesciano: chi sbaglia non
paga. In media, ogni anno, vengono così annientati circa 130 mila
processi penali. E ogni sentenza di prescrizione può cancellare decine
di reati. Un privilegio italiano che si è aggravato dopo il 2005 (vedi
tabella) con la legge “ex Cirielli” varata dal governo Berlusconi, poi
in parte riformata dal centrosinistra con il ministro Orlando. Più di
metà delle prescrizioni scattano già alla ine delle indagini: il
processo muore prima di iniziare. L’anomalia più assurda (all’estero non
esiste) è la prescrizione dichiarata nelle sentenze di tribunale,
appello e cassazione: il processo si fa e dura anni, ma non si condanna
nessuno. E tra i pochi colpevoli conclamati di reati da ricchi,
rischiano il carcere solo i peggiori delinquenti: sotto il limite dei
quattro anni di pena, l’ex incensurato resta fuori di galera, o torna
subito libero, perché ha diritto di ottenere l’affidamento ai servizi
sociali. Tribunali di classe Fra tante polemiche pubbliche sulla
giustizia, i cambiamenti più profondi stanno passando sotto silenzio.
Tra i 9.543 magistrati italiani, più di metà (5.061) sono donne. Tra i
capi degli uffici dominano ancora i maschi, soprattutto ai livelli più
alti, ma la quota femminile è in continua crescita. Alessandra Cerreti,
pm antimafia a Milano (e prima a Reggio Calabria), evidenzia un altro
cambiamento: «L’età media di ingresso nella magistratura, quando feci il
concorso, era di 25 anni. Oggi, dopo la laurea, è obbligatoria una
lunga formazione: i corsi privati costano, con tutti i problemi e rischi
conseguenti, l’età media è salita a 31 anni e continua a crescere.
Quindi nelle procure e tribunali non arrivano più i giovani, ma persone
sposate, con figli. Questo incide sulla propensione al sacrificio, ad
accettare carichi di lavoro straordinari, ma anche sulla composizione
sociale della magistratura: quanti genitori di ceto medio-basso possono
permettersi di far studiare i figli ino a 30 o 35 anni, in attesa di un
concorso difficile, che non dà certezze di trovare lavoro?». Il pericolo
di una giustizia classista, con buona pace del principio costituzionale
di uguaglianza, è aggravato da altri fattori. Come una privatizzazione
strisciante dei processi. Da sempre i ricchi possono pagare i migliori
avvocati e consulenti. Ora interi settori legali, come i processi
fiscali e le cause minori per valore (ma non per numero), sono affidati a
toghe onorarie: giudici privati, non magistrati con garanzie di
indipendenza da ogni altro potere. Tempi infiniti, ma al Sud Nella
giustizia amministrativa, gli attacchi politici si concentrano sui Tar, i
tribunali regionali di primo grado. Un grande esperto come l’avvocato
Stefano Nespor non condivide le critiche: «Il sistema dei Tar funziona
molto meglio della giustizia ordinaria quasi in tutta Italia. Le cause
vengono sempre decise da un collegio e la durata è ridotta: da uno a
cinque mesi per le sospensioni cautelari, circa tre anni per le sentenze
definitive. E mediamente i giudici dei Tar sono preparati, perché
devono superare un concorso di secondo grado: possono farlo solo
magistrati o funzionari di grande esperienza, che conoscono bene le
regole della pubblica amministrazione». Molto amato dai governi è invece
il Consiglio di Stato, che decide in secondo e ultimo grado. Una parte
di questi giudici supremi sono nominati dal potere politico. E molti
diventano ministri, super-burocrati o consulenti dei governi. Ma anche
arbitri di cause private con parcelle milionarie pagate dai colossi
degli appalti. Con prevedibili rischi di collusioni e corruzioni: le
procure di Roma, Messina e Milano indagano da mesi su sentenze vendute e
altri inquinamenti giudiziari. Un disastro notorio è la giustizia
civile, che è lentissima, zavorrata da quattro milioni di cause
arretrate e avrebbe bisogno di una riforma generale, strutturale, mai
tentata da nessun governo. L’inefficienza aggrava il divario economico
tra regioni: al sud le cause durano il doppio o il triplo che al nord.
Messina ha il primato negativo: 1.806 giorni per ottenere una sentenza
di primo grado. L’emergenza più incivile è il recupero crediti: vinto il
processo, bisogna farsi pagare. Ma per incassare il ricavato della
vendita giudiziaria di un immobile ipotecato, il creditore italiano può
aspettare più di otto anni (vedi tabelle). E se il debitore manda la sua
società in fallimento, al sud l’attesa supera il decennio. Un
paradossale incentivo a ignorare il diritto e applicare la legge del più
forte.