l’espresso 3.6.18
Le tre parole che non contano più
Di Bruno Manfellotto
Le
parole e le cose, verrebbe da dire. Questa, lo abbiamo capito, non è
una crisi come le altre, ma la tempesta perfetta: è allo stesso tempo
politica (tre mesi senza governo), finanziaria (spread sotto tiro) e
pure istituzionale (in Italia: dopo la minaccia di impeachment, quella
di un voto-referendum pro o contro Mattarella e ciò che rappresenta; e
fuori: il mondo ci giudica). Crisi che segna però anche un cambio di
passo, un salto di stagione che si manifesta non solo nell’imporsi di
forze comunemente definite “populiste”, ma perfino nel diffondersi di un
nuovo linguaggio. Fenomeno che qui sintetizziamo segnalando la
scomparsa – o forse la rivisitazione – di tre vocaboli fondanti del
lessico politico fino a oggi conosciuto. Le parole e le cose, appunto.
La coerenza che non c’è. La rapidità con la quale Luigi Di Maio, con la
stessa giacca e cravatta, riesce a saltare dal bon ton istituzionale
alla marcia su Roma e di nuovo al dialogo, ha davvero del sorprendente. È
talmente drastico il “vado di qua-vado di là” da far pensare che dal
vocabolario grillino sia stata espunta per sempre la parola “coerenza”.
Sembra anzi, per paradosso, che ilo conduttore dell’azione politica sia
quello di avere mani libere per zompare da un credo all’altro senza
vergogna né preoccupazioni di sorta. E l’elettorato segue, sembra anzi
trovare cemento e alimento proprio nella totale indifferenza agli
strappi di incoerenza. Forse si fa strada la convinzione che per
cambiare le cose non ci si debba opporre all’andazzo confuso, piuttosto
assecondarlo per vedere l’effetto che fa. Evidentemente quella che per
molti è inaffidabilità, per i 5S è libertà di azione, quasi che più dei
contenuti pesino i modi di manifestare di volta in volta rabbia e
dissenso. Contro gli stantii profeti della coerenza. Con queste
premesse, non deve stupire la teoria delle alleanze variabili, o con il
Pd o con la Lega, comunque con chiunque condivida il programma a cinque
stelle: si può dichiarare fedeltà alla Nato e amicizia a Putin,
conciliare l’europeismo dichiarato e la moneta parallela dei minibot, il
reddito di cittadinanza e la flat tax, Palazzo Chigi e la piazza, “al
governo al governo” e “al voto al voto”. In verità una forma di coerenza
c’è, ed è quella di individuare il nemico nei “poteri forti”,
nell’establishment, nelle nomenklature, eccetto quelle che essi stessi
scelgono per la realizzazione del loro programmacontratto. E in questo
l’identità con la Lega di Matteo Salvini è totale. Responsabilità l’è
morta Se c’era un richiamo a cui nessuno poteva dire di no era quello
alla “responsabilità”, già prima che questa diventasse la motivazione
stessa della nascita di un governo, e pure dopo, come testimoniano
l’avvento di Mario Monti e il Napolitano bis (nel primo caso B. chinò il
capo denunciando però un complotto internazionale dei poteri forti, e
la teoria ha fatto scuola; adesso smentisce Lega e 5S che lo evocano a
proposito di Savona). Responsabilità era stata chiesta al Pd perché
accettasse il dialogo con i cinque stelle; di responsabilità s’era
ammantato Di Maio nel suo periodo istituzionale e di intesa con
Mattarella, che in lui confidava, e in nome di quella si è battuto per
convincere Salvini perché ne dimostrasse un po’, salvo poi buttarla a
mare lui stesso in nome della piazza, dell’impeachment e del iato sul
collo di Alessandro Di Battista, e poi ripensarci ancora (vedi alla voce
“coerenza”). E responsabilità è certamente mancata al leader della Lega
che alla stretta finale ha preferito rinunciare alla possibilità di
occuparsi per i suoi elettori di flat tax, sicurezza, immigrazione,
legge Fornero e privare il paese di un governo ino alle elezioni bis pur
di tenere il punto su Paolo Savona. La voglia di andare a votare è
stata più forte. Un po’ di responsabilità, infine, avrebbe forse
consigliato di non avviare la campagna elettorale con l’accusa infamante
al presidente della Repubblica di complottare con potenze straniere…
Solo la conquista del Palazzo, ora a portata di mano, può far mutare lo
schema. Ragionevoli mai. Gli appelli ai comportamenti di cui sopra,
eterno corollario di ogni mediazione politica, cadono nel nulla. La
stagione che ci tocca vivere sembra infatti caratterizzarsi con il
diniego pregiudiziale di ogni forma di ragionevolezza; perfino il buon
senso, compagno di strada della concretezza, va riempiendo i fossi, come
si dice delle buone intenzioni. Sembra quasi che le virtù di cui qui si
ragiona - coerenza, responsabilità, ragionevolezza - siano viste come
bagaglio culturale di una nomenklatura, casta, classe politica,
intellighenzia, chiamatela come vi pare, che va rigettata per principio,
e che con essa vadano cassati quei principi perché giudicati forieri di
trappole, ricatti, ingerenze, condizionamenti. Ora, è evidente che
dietro tale rifiuto si nascondano amare realtà e che sarebbe ora di
cambiare codici e riferimenti, rovesciare la partita e ricominciare da
qualche altra parte. Si spererebbe, però, che ciò avvenisse non al buio e
comunque salvaguardando quelle tutele che garantiscono il buon
funzionamento di ogni democrazia. A questo punto verrò accusato di
eccesso di coerenza, ragionevolezza, responsabilità…