“In Italia si lavora il 20 per cento in più rispetto alla Germania
(1.725 ore, pro capite contro 1.371), ma si produce il 20 per cento in
meno e si guadagna molto meno dei tedeschi”
l’espresso 3.6.18
Il futuro dell’occupazione
Lavorare meno lavorare tutti
Distribuire i posti riducendo gli orari. Di fronte ai cambiamenti tecnologici è l’unica strada. Ma l’Italia fa il contrario
di Gloria Riva
Turni
di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada
il problema per un buon periodo di tempo»: è il 1930, John Maynard
Keynes si trova a Madrid per esporre il suo trattato sulle “Prospettive
economiche per i nostri nipoti”. I nipoti in questione oggi sono i
giovani che entreranno nel mercato del lavoro tra dodici anni, cioè nel
2030, e il problema fondamentale è la disoccupazione, che con l’aumento
della tecnologia sta contribuendo a ridurre drasticamente la richiesta
di forza lavoro, già massacrata dalle crisi del 2008 e 2013. Basterà una
redistribuzione dell’orario per riconquistare l’eden della piena
occupazione? Intorno a questo interrogativo ruota l’interesse oggi si
molti studiosi. Tra loro anche il sociologo Domenico De Masi, che il 5
giugno esce nelle librerie con “Il lavoro nel XXI secolo”, edito da
Giulio Einaudi: un tomo gigantesco e riassuntivo di tutto il pensiero
critico dell’ottantenne professore. Ripercorre il significato e il
valore del Lavoro da Adamo ai giorni nostri e conclude con una
proiezione - non troppo catastrofica - sul futuro. In Italia il tema è
di grandissima attualità, perché nonostante la massiccia riforma del
Jobs Act, la disoccupazione resta all’11 per cento, così come rimane
alta la percezione di instabilità da parte dei cittadini e i salari
continuano a restare al palo. E pensare che, alla fine degli anni
Novanta, gli italiani avevano redditi allineati con quelli degli
inglesi, mentre oggi sono stati superati persino dagli spagnoli che
dieci anni fa non erano neppure in gara. E non è un caso se l’idea dei
Cinque Stelle di istituire un reddito di cittadinanza ha conquistato
gran parte del Sud Italia, dove il lavoro continua a essere l’eterno
assente. Nel suo libro, prima di entrare a capofitto nel groviglio
italiano, De Masi si sofferma sulla prospettiva di lungo termine: «Siamo
presi dal pessimismo perché il progresso tecnologico elimina più
manodopera di quanta riusciamo a riassorbirne. Quelli di cui soffriamo
sono disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi. In
pochissimi anni le operazioni dei settori agricolo, minerario,
manifatturiero sono state realizzabili con un quarto di quell’energia
umana che eravamo abituati a impegnarvi. E quella curva non si è ancora
conclusa, continuerà a crescere molto velocemente, riducendo la domanda
di lavoro», spiega il professore, che invita a guardare oltre
all’atrocità dell’assenza occupazionale, ben simboleggiata dal caso di
un operaio sessantunenne milanese che la settimana scorsa è stato
licenziato da un’azienda di Melzo perché è stata acquistata una macchina
che svolge automaticamente il lavoro a cui lui, per trent’anni, era
stato assegnato. Così dice la lettera di licenziamento. «Per
riconquistare l’eden, Keynes sostiene che occorre sostituire la perizia
nel lavoro con la perizia nella vita», dice De Masi. «La trasformazione
avverrà gradualmente. In una prima tappa, di natura organizzativa,
durante la quale il lavoro diminuirà drasticamente senza ancora
scomparire del tutto, occorrerà ridistribuirne il residuo in modo che
ognuno possa essere occupato sia pure per un tempo minimo». Ma De Masi
non è ovviamente l’unico studioso ad approfondire il tema. L’economista
Carlo Dell’Aringa ha mandato alle stampe due settimane fa il dossier
“L’Esplosione dei lavori temporanei: fattori ciclici o strutturali?”
pubblicato da Arel, Agenzia di ricerca e legislazione. Vi si scopre che
in Italia in dieci anni si è verificata una riduzione delle ore di
lavoro di circa il 15 per cento, ma il numero di persone che risultano
occupate è lo stesso. Cos’è successo? Probabilmente nulla di buono: le
persone lavorano meno ore non per scelta ma per necessità, perché
trovano solo occupazioni non piene, stagionali, “liquide”. Eppure una
riduzione della quantità di lavoro pro capite, di per sé, non sarebbe un
fattore negativo, se però avvenisse in un quadro di redistribuzione del
lavoro controllata, cogestita e sostenuta dal welfare. De Masi ad
esempio cita l’accordo fra sindacato e imprenditori tedeschi per
consentire ai metalmeccanici con esigenze famigliari di ridurre l’orario
a 28 ore settimanali, pur mantenendo i livelli salariali. «Indurre gli
uomini, che sono la maggioranza dei metalmeccanici, a occuparsi
maggiormente della famiglia è sintomo di intelligenza, serve a
equilibrare l’enorme divario tra donne, che si fanno carico di quasi
tutto, e uomini». De Masi fa anche notare che in Italia si lavora il 20
per cento in più rispetto alla Germania (1.725 ore, pro capite contro
1.371), ma si produce il 20 per cento in meno e si guadagna molto meno
dei tedeschi. Lì sta il problema: «Il sindacato non è stato in grado di
guardare lontano, non ha mai chiesto una riduzione dell’orario di lavoro
a fronte di un’incapacità decennale di aumentare la produttività che
deriva dalla mancanza di tecnologia e scarsa organizzazione del lavoro,
provocata dall’assenza di manager e di imprenditoria competente». Ma il
modello tedesco sarebbe difficile da applicare in Italia, fa notare
Dell’Aringa: «L’esempio della Germania va letto alla luce della
flessibilità che è ben gestibile nelle imprese di grandi dimensioni,
mentre nelle piccole si rischia di incappare in gravi problemi di
direzione. Pensiamo alla tipica impresa italiana, che ha meno di 15
dipendenti: la riduzione d’orario di un dipendente finirebbe sulle
spalle dei colleghi, a meno che non vi sia una seria pianificazione dei
compiti e una gestione manageriale, che spesso manca». Di più. Da tempo
imprenditori e sindacalisti italiani, con il benestare e il
finanziamento degli ultimi quattro governi, hanno puntato molto sulla
detassazione del lavoro straordinario, rendendolo la normalità,
specialmente nel ricco Nord, dove si lavora anche 55 ore la settimana. E
così succede che l’impresa, invece di prendere in considerazione una
nuova assunzione, chiede ai dipendenti che già ha uno sforzo extra. Che
tra l’altro è inversamente proporzionale alla produttività, perché più
aumentano le ore di lavoro, minore è l’efficienza. Insomma avviene
esattamente il contrario del modello a cui si dovrebbe puntare: chi ha
un’occupazione lavora troppo, chi è disoccupato resta fuori. «Se nella
grande industria il super utilizzo del lavoro straordinario è arginabile
per l’elevata presenza sindacale, il fenomeno è esploso nelle piccole
imprese con gravi fenomeni di elusione. Capita che la voce “altri
rimborsi” nasconda centinaia di ore passate in officina, per altro non
soggette a tassazione», dice Luca Nieri, sindacalista della Fim Cisl di
Bergamo. C’è poi un’altra forma di lavoro straordinario tutta italiana:
«Il vezzo di manager e quadri di restare in ufficio ben oltre l’orario
stabilito, regalando ore agli azionisti. Mai in un paese protestante
accadrebbe una cosa simile, mentre da noi si cerca un’espiazione del
senso di colpa insito nella cultura cristiana, dimostrando al datore di
lavoro l’attaccamento e il concetto del dovere, nonché la disaffezione
alla famiglia. Non a caso le donne, che in Italia si fanno carico delle
questioni domestiche, lasciano l’ufficio prima dei colleghi maschi e,
tendenzialmente, fanno meno carriera», incalza De Masi, che ha
calcolato: «Oltre due milioni di persone dedicano due ore extra al
giorno all’ufficio. Fanno quattro milioni di ore, sufficienti per creare
500 mila nuovi posti». Eppure spesso lo straordinario è un modo per
rispondere al problema dei bassi salari, che è una variabile legata alla
scarsa produttività, ferma da vent’anni: «La produttività non cresce,
le imprese non riescono a generare ricchezza aggiuntiva e i salari
restano invariati», dice Dell’Aringa. «L’Italia, anche per colpa del
debito pubblico accumulato, non ha investito. Lo ha fatto solo il 20 per
cento dell’industria manifatturiera, che ha compiuto il grande balzo,
cogliendo la sida della globalizzazione e dell’export, facendo crescere
produttività e salari. Nelle altre imprese, invece, la gente continua a
lavorare esattamente come 25 anni fa». Per invertire la tendenza,
bisognerebbe proseguire sull’incentivazione di Industria 4.0, puntare
sulla formazione di competenze, mettendo più risorse su scuola,
università e riformando da capo a piedi la giustizia e la pubblica
amministrazione. «Ma non mi pare che queste siano priorità in questo
momento», dice l’economista. Il gap salariale secondo De Masi, andrebbe
anche affrontato tassando le rendite finanziarie, così da ridurre la
forbice sempre più ampia fra ricchi e poveri: «Nel 2007 dieci famiglie
possedevano la stessa ricchezza di 3,5 milioni di poveri, oggi quei
pochi ricchi hanno la stessa ricchezza di sei milioni di poveri». Usando
un altro paragone, «Adriano Olivetti diceva che nessun dirigente doveva
prendere più di dieci volte rispetto al salario più basso della sua
impresa, mentre oggi ci sono top manager che prendono mille volte di più
rispetto ai loro dipendenti». C’è poi un’altra variabile da
considerare: la globalizzazione. L’economista ed esponente di Leu
Stefano Fassina e il professore di Economia Politica all’Università Tor
Vergata Leonardo Becchetti concordano nel sostenere che la direzione di
una riduzione dell’orario sarebbe auspicabile, se solo si potesse
contrastare il dumping salariale prove niente dalle dinamiche dei
mercati globali attuali. Fassina invoca una totale revisione degli
accordi europei: «L’eccesso di liberismo, incarnato in questo caso nella
direttiva Bolkestein che ha favorito la libera circolazione dei
servizi, ha spinto a una corsa al ribasso sui costi. Succede con le
delocalizzazioni nei paesi dell’Est dei call center, l’incursione di
trasportatori stranieri nei magazzini nostrani e, recentemente, le guide
turistiche stanno sul piede di guerra perché subiscono la concorrenza a
basso costo degli stranieri, che s’accontentano di tariffe più basse.
Serve una revisione delle direttive europee perché la svalutazione del
lavoro non è più sostenibile». Becchetti va oltre, sostenendo che la
grande sida sia l’inversione alla corsa al ribasso: «Bisogna lavorare
dal lato della domanda del consumatore, dello Stato e sulla fiscalità.
Creando ad esempio un sistema di rating sociale, simile a quello
dell’impronta di carbonio per l’inquinamento ambientale. Un esempio
potrebbe essere l’acquisto di un prodotto al supermercato, dove
un’indicazione precisa dei livelli di sfruttamento convincerebbe molti
ad acquistare quello più socialmente etico. E lo Stato dovrebbe evitare
di adottare la politica del massimo ribasso nelle gare d’appalto, ma
esigere adeguatezza sociale e salariale dai fornitori; infine istituire
una riforma dell’Iva che premia le filiere sostenibili con una
tassazione al 10 per cento e punisce le altre, portandola al 30 per
cento». Al 2030 non manca molto, ma l’Italia non sembra ancora pronta a
governare il cambiamento e pensare a una riduzione delle ore di lavoro.
Al contrario, chi ha un lavoro soffre per l’insufficienza del tempo
libero, mentre chi non ha un lavoro soffre per assenza di reddito. E,
senza un radicale cambiamento, i futuri giovani degli anni ‘30 rischiano
di non avere alternative a questa tenaglia.