l’espresso 3.6.18
Le idee
Leonardo d’Arabia
Come un quadro mette in discussione il tabù islamico delle immagini
di Angiola Codacci-Pisanelli
Alcune
cose sul mondo arabo le sappiamo tutti. Sappiamo tutti per esempio che
l’Islam vieta di riprodurre la figura umana. Ma allora come si spiega
che un principe della penisola araba spenda 450 milioni di dollari per
comprare un quadro che rappresenta Gesù? Quel Gesù che è anche per
l’Islam un profeta importante, anche se meno importante di Maometto, e
quindi ancora più protetto dal famoso divieto di rappresentazione?
Eppure abbiamo tutti presente le immagini dei Buddha di Bamiyam, in
Afghanistan, distrutti dai talebani nel 2001. E conosciamo bene il
terribile “effetto farfalla” scatenato dalle vignette danesi su
Maometto: nel 2005 a Copenhagen un giornale pubblica delle vignette
satiriche, e nei mesi seguenti questo scatena violente manifestazioni in
tutto il mondo, finché nel 2006 un sacerdote italiano viene ucciso in
Turchia. Qualcuno ricorderà anche “Il mio nome è rosso”, il giallo che
lanciò la carriera di Orhan Pamuk, portandolo dalle vette delle
classifiche di vendita di tutto il mondo al Premio Nobel per la
Letteratura, nel 2006: lo stesso anno delle manifestazioni contro le
vignette. La trama di “Il mio nome è rosso” riguarda proprio la
proibizione della figura umana. Il libro è ambientato a Istanbul alla
fine del Cinquecento, e parte dall’uccisione di un miniaturista per
raccontare lo scontro tra la tradizione ottomana – che, appunto, vietava
di riprodurre essere viventi – e l’ammirazione per i dipinti dei
pittori del Rinascimento veneziano, ricchi di figure umane. Ma come mai
non creano problemi le campagne pubblicitarie con fotomodelle, a meno
che non siano troppo poco vestite rispetto al “comune senso del pudore”
locale – come è successo a Gisele Bündchen qualche anno fa? E se il
divieto riguarda soprattutto Allah e i profeti, come si spiega
l’investimento record saudita per il “Salvator Mundi”? Dopo pochi giorni
di suspense, si è saputo che il misterioso acquirente del quadro
attribuito a Leonardo da Vinci era un parente e stretto collaboratore di
Salman bin Mohammed Al Saud, il principe ereditario e leader di fatto
dell’Arabia Saudita che da qualche mese ha lanciato un percorso di
riforme “filo-occidentali”, dalla revoca del divieto di guidare per le
donne alla riapertura dei cinema. Le prime reazioni allo spettacolare
acquisto sono state maligne: ah vedi, in pubblico le immagini sono
vietate, ma se ti appendi un Leonardo in salotto non c’è problema. Come
succede per le donne arabe che spesso fuori casa, volenti o nolenti,
indossano il velo – hijab, niqab o burqa – ma poi sono (o almeno così si
dice in Occidente) grandi acquirenti di vestiti discinti e di
biancheria sexy. Questo doppio standard di comportamento, normale per
gli arabi, è invece un nervo scoperto nel rapporto tra il mondo islamico
e quello cristiano: che è illuminato dall’idea che “Dio ti vede” e che
un bravo credente “non ha niente da nascondere”. Niente di più diverso,
del resto, tra le mura ininterrotte che custodiscono la privacy della
casa araba tradizionale e le grandi finestre senza tende che permettono a
ogni passante di curiosare negli appartamenti tipici di molti paesi
protestanti. La malignità intorno al quadro comunque ha avuto vita
breve: si è saputo presto che era stato comprato per essere esposto nel
Louvre di Abu Dhabi, da dove presto farà concorrenza alla Gioconda del
Louvre parigino. Ma il dubbio è rimasto: le immagini di esseri viventi
nel mondo islamico sono vietate o no? Come succede spesso quando si
parla di arabi, la risposta è complessa. E richiede due movimenti
paralleli: allargare il campo e ritornare indietro nel tempo. Il punto
di partenza è il libro che unisce le tre religioni monoteiste, la
Bibbia. Lì il divieto c’è, ed è scritto molto chiaramente. «Non ti fare
scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù ne’ cieli o
quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra», si legge nel libro
dell’Esodo. E continua: «Non ti prostrare dinanzi a tali cose». Il
divieto biblico è direttamente legato al rischio di idolatria: senza
immagini di esseri viventi, non c’è il rischio che qualcuno finisca per
venerare il vitello d’oro. Nel mondo ebraico il divieto è ancora
rispettato, tra i cristiani, invece, è caduto presto in disuso. E per
lungo tempo affreschi e dipinti all’interno delle chiese, con le loro
storie di vite dei santi, hanno avuto una funzione di “catechismo per
immagini” rivolto a fedeli quasi sempre analfabeti - mentre ebraismo e
Islam hanno in comune i luoghi di culto senza immagini e lo studio
diretto dei testi sacri. L’iconoclastia, cioè la “crociata” per la
distruzione delle immagini, nasce a Costantinopoli nell’VIII secolo
proprio in risposta all’Islam, che per colpa delle immagini sacre
accusava i cristiani di idolatria. E un’altra forma meno famosa di
iconoclastia è nata con la riforma protestante: da Calvino in poi, le
chiese di chi rompeva i ponti con Roma erano caratterizzate dall’assenza
di figure sacre, scolpite o dipinte: una caratteristica che dura ancora
oggi. Ma torniamo all’Islam. Come scrive François Boesplug ne “La
caricatura e il sacro” (Vita e Pensiero), «il Corano non vieta
esplicitamente le immagini di Dio, né le immagini divieto». È in base a
questi testi, meno importanti del Corano, che alcune frange di musulmani
considerano proibite le immagini di esseri viventi. E poiché tra i più
focosi fautori del divieto ci sono vari gruppi terroristi,
l’investimento del principe saudita per il Salvatore leonardesco mostra
un chiaro messaggio politico: è un modo per provare la vicinanza ai
valori occidentali da parte di un paese, l’Arabia Saudita, che avendo
dato i natali a Osama Bin Laden e a 15 dei 19 terroristi morti negli
attentati dell’11 settembre ha continuamente bisogno di rassicurare
l’Occidente da questo punto di vista. Il divieto è più sentito
nell’Islam sunnita che tra gli sciiti. Questo spiega le famose
rappresentazioni di Maometto in miniature persiane del XVI secolo e
anche l’uso propagandistico delle immagini di capi religiosi che si è
diffuso in Iran dopo la rivoluzione khomeinista. Quest’ultimo aspetto ci
porta a parlare di fotografie e video. Circa un secolo fa una raccolta
di “fatwa” dell’università di Al Ahzar stabilì che foto e video sono
ammessi perché derivano da un procedimento meccanico, privo di volontà
creatrice: «Le fotografie sono come immagini rilesse in uno specchio e i
video sono riproduzioni di “ombre imprigionate”». Di certo, lo scarso
uso di figure umane ha portato l’arte islamica a perfezionare magnifici
giochi astratti, che si sono sviluppati in parallelo alla matematica e
alla geometria. E dalla geometria all’arte astratta il passo è breve.
Anche oggi molti famosi artisti contemporanei che vengono da un ambiente
islamico giocano con l’astratto e con la figura umana. Pensiamo alla
pakistana Shahzia Sikander, nelle sue opere il disegno geometrico e le
figure umane si fondono, e prendono nuova vita grazie a tecnologie usate
per realizzare cartoni animati e videogame. Si arriva così ad
animazioni ipnotiche dove frammenti di figure spiccano il volo seguendo
le progressioni matematiche che regolano il disegno degli stormi di
uccelli nel cielo o la dispersione di particelle solide nel corso di un
fiume. Il risultato sono immagini insieme figurative e astratte, umane e
immaginarie. E che affascinano allo stesso modo l’occhio orientale e
quello occidentale.