venerdì 8 giugno 2018

l’espresso 3.6.18
Le idee
Leonardo d’Arabia
Come un quadro mette in discussione il tabù islamico delle immagini
di Angiola Codacci-Pisanelli


Alcune cose sul mondo arabo le sappiamo tutti. Sappiamo tutti per esempio che l’Islam vieta di riprodurre la figura umana. Ma allora come si spiega che un principe della penisola araba spenda 450 milioni di dollari per comprare un quadro che rappresenta Gesù? Quel Gesù che è anche per l’Islam un profeta importante, anche se meno importante di Maometto, e quindi ancora più protetto dal famoso divieto di rappresentazione? Eppure abbiamo tutti presente le immagini dei Buddha di Bamiyam, in Afghanistan, distrutti dai talebani nel 2001. E conosciamo bene il terribile “effetto farfalla” scatenato dalle vignette danesi su Maometto: nel 2005 a Copenhagen un giornale pubblica delle vignette satiriche, e nei mesi seguenti questo scatena violente manifestazioni in tutto il mondo, finché nel 2006 un sacerdote italiano viene ucciso in Turchia. Qualcuno ricorderà anche “Il mio nome è rosso”, il giallo che lanciò la carriera di Orhan Pamuk, portandolo dalle vette delle classifiche di vendita di tutto il mondo al Premio Nobel per la Letteratura, nel 2006: lo stesso anno delle manifestazioni contro le vignette. La trama di “Il mio nome è rosso” riguarda proprio la proibizione della figura umana. Il libro è ambientato a Istanbul alla fine del Cinquecento, e parte dall’uccisione di un miniaturista per raccontare lo scontro tra la tradizione ottomana – che, appunto, vietava di riprodurre essere viventi – e l’ammirazione per i dipinti dei pittori del Rinascimento veneziano, ricchi di figure umane. Ma come mai non creano problemi le campagne pubblicitarie con fotomodelle, a meno che non siano troppo poco vestite rispetto al “comune senso del pudore” locale – come è successo a Gisele Bündchen qualche anno fa? E se il divieto riguarda soprattutto Allah e i profeti, come si spiega l’investimento record saudita per il “Salvator Mundi”? Dopo pochi giorni di suspense, si è saputo che il misterioso acquirente del quadro attribuito a Leonardo da Vinci era un parente e stretto collaboratore di Salman bin Mohammed Al Saud, il principe ereditario e leader di fatto dell’Arabia Saudita che da qualche mese ha lanciato un percorso di riforme “filo-occidentali”, dalla revoca del divieto di guidare per le donne alla riapertura dei cinema. Le prime reazioni allo spettacolare acquisto sono state maligne: ah vedi, in pubblico le immagini sono vietate, ma se ti appendi un Leonardo in salotto non c’è problema. Come succede per le donne arabe che spesso fuori casa, volenti o nolenti, indossano il velo – hijab, niqab o burqa – ma poi sono (o almeno così si dice in Occidente) grandi acquirenti di vestiti discinti e di biancheria sexy. Questo doppio standard di comportamento, normale per gli arabi, è invece un nervo scoperto nel rapporto tra il mondo islamico e quello cristiano: che è illuminato dall’idea che “Dio ti vede” e che un bravo credente “non ha niente da nascondere”. Niente di più diverso, del resto, tra le mura ininterrotte che custodiscono la privacy della casa araba tradizionale e le grandi finestre senza tende che permettono a ogni passante di curiosare negli appartamenti tipici di molti paesi protestanti. La malignità intorno al quadro comunque ha avuto vita breve: si è saputo presto che era stato comprato per essere esposto nel Louvre di Abu Dhabi, da dove presto farà concorrenza alla Gioconda del Louvre parigino. Ma il dubbio è rimasto: le immagini di esseri viventi nel mondo islamico sono vietate o no? Come succede spesso quando si parla di arabi, la risposta è complessa. E richiede due movimenti paralleli: allargare il campo e ritornare indietro nel tempo. Il punto di partenza è il libro che unisce le tre religioni monoteiste, la Bibbia. Lì il divieto c’è, ed è scritto molto chiaramente. «Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù ne’ cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra», si legge nel libro dell’Esodo. E continua: «Non ti prostrare dinanzi a tali cose». Il divieto biblico è direttamente legato al rischio di idolatria: senza immagini di esseri viventi, non c’è il rischio che qualcuno finisca per venerare il vitello d’oro. Nel mondo ebraico il divieto è ancora rispettato, tra i cristiani, invece, è caduto presto in disuso. E per lungo tempo affreschi e dipinti all’interno delle chiese, con le loro storie di vite dei santi, hanno avuto una funzione di “catechismo per immagini” rivolto a fedeli quasi sempre analfabeti - mentre ebraismo e Islam hanno in comune i luoghi di culto senza immagini e lo studio diretto dei testi sacri. L’iconoclastia, cioè la “crociata” per la distruzione delle immagini, nasce a Costantinopoli nell’VIII secolo proprio in risposta all’Islam, che per colpa delle immagini sacre accusava i cristiani di idolatria. E un’altra forma meno famosa di iconoclastia è nata con la riforma protestante: da Calvino in poi, le chiese di chi rompeva i ponti con Roma erano caratterizzate dall’assenza di figure sacre, scolpite o dipinte: una caratteristica che dura ancora oggi. Ma torniamo all’Islam. Come scrive François Boesplug ne “La caricatura e il sacro” (Vita e Pensiero), «il Corano non vieta esplicitamente le immagini di Dio, né le immagini divieto». È in base a questi testi, meno importanti del Corano, che alcune frange di musulmani considerano proibite le immagini di esseri viventi. E poiché tra i più focosi fautori del divieto ci sono vari gruppi terroristi, l’investimento del principe saudita per il Salvatore leonardesco mostra un chiaro messaggio politico: è un modo per provare la vicinanza ai valori occidentali da parte di un paese, l’Arabia Saudita, che avendo dato i natali a Osama Bin Laden e a 15 dei 19 terroristi morti negli attentati dell’11 settembre ha continuamente bisogno di rassicurare l’Occidente da questo punto di vista. Il divieto è più sentito nell’Islam sunnita che tra gli sciiti. Questo spiega le famose rappresentazioni di Maometto in miniature persiane del XVI secolo e anche l’uso propagandistico delle immagini di capi religiosi che si è diffuso in Iran dopo la rivoluzione khomeinista. Quest’ultimo aspetto ci porta a parlare di fotografie e video. Circa un secolo fa una raccolta di “fatwa” dell’università di Al Ahzar stabilì che foto e video sono ammessi perché derivano da un procedimento meccanico, privo di volontà creatrice: «Le fotografie sono come immagini rilesse in uno specchio e i video sono riproduzioni di “ombre imprigionate”». Di certo, lo scarso uso di figure umane ha portato l’arte islamica a perfezionare magnifici giochi astratti, che si sono sviluppati in parallelo alla matematica e alla geometria. E dalla geometria all’arte astratta il passo è breve. Anche oggi molti famosi artisti contemporanei che vengono da un ambiente islamico giocano con l’astratto e con la figura umana. Pensiamo alla pakistana Shahzia Sikander, nelle sue opere il disegno geometrico e le figure umane si fondono, e prendono nuova vita grazie a tecnologie usate per realizzare cartoni animati e videogame. Si arriva così ad animazioni ipnotiche dove frammenti di figure spiccano il volo seguendo le progressioni matematiche che regolano il disegno degli stormi di uccelli nel cielo o la dispersione di particelle solide nel corso di un fiume. Il risultato sono immagini insieme figurative e astratte, umane e immaginarie. E che affascinano allo stesso modo l’occhio orientale e quello occidentale.