l’espresso 3.6.18
«Ho visto le parole d’odio trasformarsi in dittatura. E poi in sterminio. Vorrei non vederle mai più»
La democrazia finisce piano piano
colloquio con Liliana Segre
di Marco Damilano
Lo
ricorda bene, quel due giugno 1946, il giorno del referendum
istituzionale in cui l’Italia scelse di voltare pagina e di diventare
una Repubblica. «Avevo quindici anni e non potevo votare, però ho ancora
quella sensazione di gioia collettiva. Qualcosa di nuovo dopo tante
tragedie, l’esplosione di felicità per questa Italia ritrovata, in
ricostruzione, ottimista, questo mondo intorno a me che festeggiava,
anche se io ero personalmente lacerata. Ero una vecchia ragazza che
aveva già visto l’indicibile, come lo ha chiamato Primo Levi». Liliana
Segre era stata deportata da Milano al campo di concentramento nazista
di Auschwitz e Birkenau il 30 gennaio 1944 con il padre, che non rivide
più, qualche mese prima dei nonni, anche loro uccisi al loro arrivo.
Numero matricola 75190, il 19 gennaio è stata nominata dal presidente
Sergio Mattarella senatrice a vita «per avere illustrato la Patria con
altissimi meriti nel campo sociale». Sembra di vederla nel 1946, provo a
immaginarla, doveva avere la stessa età della ragazza che compare nella
foto simbolo di quel giorno, quella che alza la prima pagina del
giornale a titoli cubitali con la notizia più emozionante: è nata la
Repubblica italiana. «Per quello che succedeva attorno a me, con quel
che restava di me stessa, ero felice. Nella mia casa, prima della
tragedia, mio padre e mio zio erano stati ufficiali nella Prima guerra
mondiale. Mio zio fascista, mio padre antifascista. Si amavano molto,
discutevano moltissimo. Mentre mio padre è finito ad Auschwitz, mio zio
si è salvato, ha vissuto a lungo ma per tutta la vita aveva l’incubo di
non essere riuscito a portare giù dal treno per il lager suo padre, mio
nonno. E lui che era stato ufficiale dell’esercito regio ed era stato a
Caporetto, fascista e monarchico, quel giorno votò per la Repubblica e
mi disse: mai mi sarei aspettato di votare felicemente per la
Repubblica».
Capelli candidi, portamento fiero, giudizi affilati,
nei suoi uffici a Palazzo Giustiniani, gli stessi che furono di Gianni
Agnelli, la senatrice Segre è ora una signora della Repubblica, mai come
in questo anniversario lacerata, strattonata, contesa, sottoposta ad
attacchi interni e esterni, con le massime istituzioni sotto assedio,
con un imbarbarimento del linguaggio che è il segnale di un venir meno
delle ragioni civili dello stare insieme. Gruppi contrapposti convocati a
Roma. Il Quirinale, la sede della presidenza, la suprema garanzia
costituzionale, assediato dalle critiche (legittime) e dagli insulti
(vergognosi). Il capo dello Stato minacciato, offeso perfino
nell’affetto più caro, il fratello Piersanti ucciso dalla mafia, con i
messaggi ripugnanti apparsi sui social. Il silenzio di partiti,
sindacati, intellettuali che in passato sono scesi in piazza per
difendere le istituzioni repubblicane e che in questa occasione
balbettano. E l’esigenza sempre più urgente di trovare figure che
sappiano parlare a tutto il Paese stremato e allibito dal balletto dei
politici sulla crisi, simmetrico a quello degli speculatori sui mercati.
«Oggi
sono molto rattristata per la mia Italia, paese amato, alle soglie di
qualche sorpresa, di situazioni che mi sarei aspettata di non vedere
più», racconta Liliana Segre. «Abbiamo avuto tante crisi politiche in
questi decenni, formule di ogni tipo, ma quello che sta accadendo in
questi giorni è totalmente inaspettato. La Repubblica è la cosa di
tutti, ma oggi rischia di essere strattonata da una parte e dall’altra,
lo vediamo tutti, sono preoccupata. C’è una tristezza di fondo, nelle
polemiche, nelle speculazioni, anche nei giudizi della stampa
internazionale, così lontana dalla bellezza dell’Italia e da un popolo
che non si merita questa severità di giudizio».
Sono tanti i
motivi di preoccupazione e di amarezza per la senatrice Segre, nominata a
Parlamento sciolto, accolta tra gli applausi a Palazzo Madama durante
la prima seduta, il 23 marzo.
«Conosco i miei colleghi senatori a
vita, sono stata troppo poco in aula per farmi un giudizio degli altri,
non sono una vecchia volpe. Quando sono stata nominata ho detto al
presidente Mattarella che sono sempre una bambina: mi hanno chiuso la
porta della scuola e ottant’anni dopo mi hanno aperto quella del
Senato».
Che pensa degli attacchi contro l’inquilino del
Quirinale, compresa la richiesta di impeachment avanzata da Giorgia
Meloni e da Luigi Di Maio?
«Impeachment è una parola che non
esiste nell’ordinamento italiano, chi l’ha sbandierata poteva almeno
informarsi. Quando ho conosciuto Mattarella e abbiamo parlato eravamo
tutti e due con i capelli bianchi, alle spalle anche lui ha avuto un
dramma che ti segna la vita, ci siamo ritrovati come un fratello e una
sorella. È il presidente della Repubblica, ma io lo considero come mio
fratello, come una persona che fa parte della mia famiglia. Ho letto
anch’io cosa hanno scritto in rete, quando gli hanno augurato la fine di
suo fratello mi son venute in mente le minacce contro di me da bambina,
rispondevo al telefono e una voce mi chiedeva: perché non muori? Perché
non morite? Questi cattivi sentimenti ci sono sempre stati, il web li
amplifica, ma non è solo una questione di mezzi di espressione. Ci sono i
tempi che consentono a queste persone di comportarsi così. C’è stato un
tempo dopo la guerra, dopo l’orrore di milioni di morti, che queste
parole e questi comportamenti sono sembrati sparire. Sono arrivate altre
esigenze, la gente ha pensato all’arricchirsi, a farsi notare. La
bellezza, il consumismo, il successo, essere qualcuno, sono diventati
idoli. Poi gli idoli cadono e nel vuoto sono tornate parole antiche».
Tempi
cupi. Tempi di divisione che anticipano la futura campagna elettorale,
quando verrà. Cosa la preoccupa di più di questi tempi, del ritorno del
passato?
«Ho la paura della perdita della democrazia, perché io
so cos’è la non democrazia. La democrazia si perde pian piano,
nell’indifferenza generale, perché fa comodo non schierarsi, e c’è chi
grida più forte e tutti dicono: ci pensa lui».
La democrazia
svanisce progressivamente, per slittamenti successivi. Per le parole che
non vogliono più dire nulla, che risuonano a vuoto. E per i leader che
aizzano anziché placare, dirigenti che non dirigono ma seguono. Una
delle parole che ritornano è popolo. Si ripete: il popolo, lo vuole il
popolo, ci sono i nemici del popolo, il presidente incaricato Giuseppe
Conte si era proposto come avvocato del popolo. Ma che cos’è il popolo,
chi può dire parlo a nome del popolo? E si può contrapporre alle leggi,
ai limiti della Costituzione?
«Quando il popolo ha votato bisogna
rispettare l’esito elettorale, anche se può non piacere», risponde la
senatrice Segre. «Poi c’è la coscienza di ognuno. E c’è la Costituzione,
un lavoro grandissimo, i padri non erano improvvisati».
Come si reagisce?
«Io
ho un’idea issa. Chi entra nel memoriale della Shoah trova scritta una
parola: indifferenza. Da senatrice ho depositato un disegno di legge per
istituire una commissione parlamentare bicamerale di monitoraggio e di
controllo sugli “hate speech”, i discorsi d’odio. Un invito che il
Consiglio d’Europa ha fatto ai 47 Stati membri, il nostro sarebbe il
primo caso. Le parole d’odio sono l’anticamera della fine della
democrazia. L’imbarbarimento del linguaggio è arrivato a livelli
intollerabili. In questi giorni si è scritto di un mercato di divise da
deportati di Dachau, che parole si possono trovare?»
La
Repubblica divide, per molti ha deluso le speranze di settantadue anni
fa. Per certi versi comandano ancora i luigini di Carlo Levi in
“L’orologio”, le caste degli inamovibili:
«La grande maggioranza
della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue
specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi
complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni
sbagliate, e idolatriche paure. Sono quelli che dipendono e comandano; e
amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano».
È la loro presenza a scatenare la reazione dei populismi?
«Ero
molto giovane quando ho subito l’orrore, per ritrovare una speranza di
futuro è stato importantissimo l’incontro con mio marito», rilette la
senatrice Segre. «Era fiero di aver combattuto per la democrazia che
stava nascendo, ma anno dopo anno mi ossessionava con la sua delusione
per tutti quelli che erano morti per far nascere questo Stato, per chi
aveva dato la vita per un’Italia migliore. Delusioni per gli scandali,
le ruberie, il distacco dalle persone».
Oggi in tanti votano più per delusione o per rabbia che per speranza.
«Ha
ragione, ma per votare la speranza devono esserci i motivi e tanti,
evidentemente, motivi non ne trovano. In democrazia l’elettorato va
rispettato e non va mai dimenticato che il mondo è degli indifferenti,
sono loro che decidono chi vince e chi perde. La mia speranza è che un
giorno possano nascere gli Stati Uniti d’Europa, ora appare un’utopia,
lo abbiamo visto sulla questione dei migranti, in cui ogni Stato ha dato
spazio al suo egoismo nazionale. Io la speranza ce l’ho, ho sempre
scelto la vita, ho conosciuto nella mia vita tanti affetti, un lungo
amore».
E amare la Repubblica? Che significa oggi, senatrice Liliana Segre?
«Amare la Repubblica significa attuare la Costituzione».
E difenderla dai fantasmi del passato. Questi tempi nuovi che ci sono dati da vivere, simili a quelli antichi.
Liliana
Segre, nata a Milano nel 1930. Incarcerata in quanto ebrea a 14 anni,
venne deportata ad Auschwitz-Birkenau. Oggi è senatrice a vita.