l’espresso 24.6.18
Cultura
Le parole del presente/2 ONESTÀ
Dagli
ideali di Tolstoj e dai tormenti di Dostoevskij alle promesse del
populismo. Un grande scrittore spiega perché fuggire la corruzione non
equivale a fare giustizia a doppio taglio colloquio con Javier Cercas
di Wlodek Goldkorn
E
poi c’è la parola “onestà”. Quante volte l’abbiamo sentita gridata nei
comizi, declinata nei discorsi dei politici (onesti e disonesti),
evocata nei testi degli uomini e donne che fanno opinione. Ma basta
l’onestà per far buona politica e per far prevalere il bene sul male?
La
domanda non è retorica né demagogica, tanto che a un certo punto della
sua vita, un uomo come Tolstoj sembrava essersi convinto che la
Redenzione laica (e non solo quella religiosa) passasse appunto per una
mobilitazione degli onesti contro i bugiardi e i falsi. Dell’onestà
abbiamo parlato con Javier Cercas, scrittore spagnolo tra i più bravi
del nostro Continente, autore di romanzi dove con estremo rigore etico
ed estetico racconta e mette in scena storie scomode, come la scelta di
un suo zio di militare nelle forze armate franchiste contro la
Repubblica (“Il sovrano delle ombre”); o quella di un soldato
repubblicano di risparmiare la vita a un ideologo falangista (“Il
soldato di Salamina”) e via elencando. Prima di entrare nel cuore delle
nostre domande Cercas fa una lunga e indispensabile premessa. Dice:
«Oggi, molte parole bellissime vengono usate come maschere, come uno
specchio deformato, per dire il contrario del loro significato
originario. Si viola la libertà in nome della libertà. Si dicono
menzogne in nome della verità. Si corrompe in nome dell’onestà.
Dell’onestà parlano i politici convinti invece che l’unica cosa
importante sia la conquista del potere e quindi che il fine giustifichi i
mezzi. Io invece penso al contrario, in democrazia sono i mezzi a
giustificare i fini. Uno scopo giusto si corrompe se i mezzi per
raggiungerlo non sono buoni né onesti. Ha presente l’immagine di Barack
Obama e Hillary Clinton mentre stavano guardando sullo schermo del
computer l’azione in cui veniva ucciso Bin Laden? Il messaggio implicito
in quella immagine era: è lecito usare un mezzo terribile per fare
bene? E Obama ha fatto bene? Felipe González, nostro ex premier ha detto
recentemente in tv: ho avuto la possibilità di uccidere tutta la
direzione dell’Eta ma non l’ho fatto. E ha aggiunto; non so se ho fatto
bene. E allora, González ha risparmiato vite umane o è stato codardo?
Aggiungo,
Max Weber diceva: il politico fa il patto con il diavolo, perché fa il
patto con la violenza». In fondo quella di usare mezzi sbagliati per un
fine buono e di aver stretto il patto con il diavolo, è la storia del
comunismo. «Un fine bellissimo, corrotto dai mezzi, per cui il comunismo
è una parola da non usare».
Cominciamo con le domande. Partendo
da un gigante, Tolstoj. In “Guerra e pace” Pierre Bezuchov dice a
Natasha: «Se le persone viziose sono tutte quante collegate tra di loro e
perciò sono una forza, basterebbe che le persone oneste facessero lo
stesso». Anche oggi, spesso vince l’idea che basta che gli onesti si
mettano insieme contro i corrotti e i bugiardi per cambiare il mondo.
«Pierre Bezuchov è ingenuo. Ma è un personaggio letterario».
Sappiamo che è Tolstoj a parlare con la voce di Bezuchov.
«Lo
presumiamo. Comunque io non sono d’accordo con questa frase, perché
penso che il mondo non si divida tra gli onesti e i disonesti e fra i
giusti e gli ingiusti. Le persone oneste possono diventare disoneste e i
giusti possono diventare ingiusti, i coraggiosi possono rivelarsi
codardi.
L’animo degli uomini e delle donne è complesso e
contraddittorio. Per questo la vita sociale ha bisogno delle regole. Da
voi in Italia il Movimento Cinque Stelle e da noi in Spagna gli
attivisti di Podemos dicono: siamo gente onesta. L’ingresso dei grillini
al governo viene presentato come l’arrivo dell’onestà al potere. Ma
questa rappresentazione è un errore e un’ingenuità, oppure una forma di
cinismo. Non sono giovanissimo e quindi mi ricordo quando per la prima
volta i socialisti spagnoli arrivarono al governo, dopo 40 anni di
franchismo. Ci sembrava una festa. I socialisti erano i giusti e gli
onesti. Ma poi è successo che i socialisti sono diventati disonesti, e
corrotti». Quindi?
«Quindi la meraviglia della democrazia non sta nel carattere delle persone ma nel rispetto delle regole. Tutto qui».
Possiamo
azzardare un’ipotesi? Dentro l’animo di ognuno di noi - uno scrittore
lo sa perché il suo mestiere è indagare e raccontare l’animo umano - è
insito un elemento del Male. Ognuno di noi è un potenziale carnefice. Ma
non tutti lo diventiamo. Vale anche per la corruzione?
«Infatti,
è molto più importante capire il carnefice che la vittima. Certo, la
solidarietà con le vittime deve essere assoluta, ma dobbiamo comprendere
il boia. Sarebbe straordinario capire Hitler».
Ma ci sarà un
limite all’empatia. Lei, in “Il sovrano delle ombre” descrive un soldato
franchista, Manuel Mena. Per come lei lo racconta potrebbe essere un
nostro fratello, salvo che in guerra l’avremmo ucciso. Ma allora fin
dove si può essere empatici, fin dove è lecito capire? È una domanda
sull’onestà dello scrittore e sull’etica della letteratura e quindi
sull’onestà del nostro immaginario collettivo.
«Per me è una
questione essenziale. Rispondo: non c’è limite all’empatia. Quello che
deve fare uno scrittore, ma anche un filosofo, è capire tutto, capire i
peggiori. Capire non vuol dire giustificare. Ma il contrario. Capire è
darci le armi per non diventare carnefici e corrotti».
Quindi
Primo Levi quando diceva che capire è un po’ giustificare sbagliava? Lo
vogliamo dire? «L’ha posta, come domanda, Tzvetan Todorov».
Possiamo spingerci oltre? Levi, essendo una vittima, non poteva capire il carnefice.
«Appunto.
Per una vittima capire il suo boia significa autodistruggersi. Però, a
pensarci bene, me la sento di dire che Levi non sbagliava: La sua
“Trilogia di Auschwitz” (in Spagna “Se questo è un uomo”, “La tregua” e
“I sommersi e i salvati” sono usciti appunto come “Trilogia di
Auschwitz”, ndr) è ovviamente un geniale tentativo di comprensione. Uno
sforzo di capire tutto».
Stiamo parlando dell’onestà letteraria e intellettuale.
«Certo.
E continuo. Sappiamo tutti chi era Hitler. Ma allora la domanda è come
mai un pazzo, un oligofrenico come lui sia riuscito a conquistare
l’animo della Germania, il Paese più colto, e anche quello di mezzo
mondo. Se oggi ci fosse un Dostoevskij, un Cervantes o uno Shakespeare
in grado di capire quella testa, avremmo un’arma per impedire che un
personaggio come Hitler torni. È come quando abbiamo paura di una bomba
che sta per scoppiare. Non basta urlare: qui c’è una bomba. Occorre un
artificiere per disattivarla. A questo serve la letteratura e il
pensiero complesso. E per questo non bisogna porre limiti alla
letteratura e all’empatia. Del resto Shakespeare era empatico con
Riccardo III, un assassino feroce. E anche chi legge “Delitto e castigo”
è in grado di capire un assassino. Questa è l’onestà dello scrittore e
l’etica della letteratura. Aggiungo un esempio: come faccio a giudicare
Manuel Mena (il soldato franchista del romanzo “Il sovrano delle ombre”,
ndr)? Quello che devo fare è comprenderlo. Aveva solo 17 anni».
In
altre circostanze avrebbe potuto essere un eroe repubblicano. Cercas,
che rapporto c’è tra onestà e verità? Abbiamo parlato di Levi e della
sua estrema e radicale onestà. Si può osar dire che Levi per raccontare
Auschwitz, da grandissimo scrittore quale era - uno dei più grandi del
Novecento - doveva immaginarsi Auschwitz?
«Immaginare vuol dire
dare un senso». Ma se la verità nasce nel racconto, ci sono tante
verità. «Credo che la verità esista. Ma penso anche che chi crede di
possedere la verità o è uno stupido, o un fanatico, o un pazzo, o tutte e
tre le cose. Detto questo: una cosa è la verità letteraria un’altra la
verità dei fatti. La verità dei fatti è concreta, la verità letteraria è
una verità morale, universale. È la finzione che cerca di indagare su
cosa succede a tutti gli umani, in tutto il mondo e in tutti i Paesi. E
questa verità è il risultato della forma. “Guerra e pace” o “Don
Chisciotte” parlano di ciascuno di noi. Siamo tutti protagonisti di
Tolstoj e di Cervantes. Ecco, non c’è verità letteraria senza onestà. Ma
l’onestà è come la democrazia. È forma».
Esiste una verità politica?
«Esiste
la menzogna che è una forma di disonestà in politica. Oggi sta
trionfando (basti guardare l’esempio di Trump) perché il disprezzo della
verità è enorme. Ed è una situazione pericolosissima».
Lei, nei suoi libri si è sempre occupato del rapporto tra onestà e memoria. Oggi, la memoria, è sacralizzata...
«La interrompo per dire che una memoria sacralizzata è come se non ci fosse».
E
anche il tempo è stato abolito. È tutto nel presente. Ed è facile
essere disonesti quando non c’è più memoria. Senza memoria si può
raccontare la storia che si vuole.
«Sono d’accordo. Oggi, la
possibilità di manipolare le menti e i fatti è più grande che mai.
Viviamo in una dittatura del presente. È questo uno dei risultati del
potere dei media che ormai non riflettono la realtà ma la creano. Per i
mezzi di comunicazione, la tv e i social media, la settimana scorsa è
preistoria. Il passato è roba da biblioteche, archivi, che può
interessare gente strana come me. Ma una simile tesi è menzognera. E sa
perché? Perché il passato e soprattutto un passato di cui c’è ancora la
memoria e i testimoni, non è passato; è invece parte del presente senza
il quale il futuro è mutilato. Diceva T.S. Eliot: “Il tempo presente e
il passato sono forse entrambi presenti nel tempo futuro e il tempo
futuro contiene il passato”. Vede, il potere costruisce sempre un
racconto manipolato del passato, perché sa benissimo che per controllare
il futuro e il presente occorre controllare il passato. Mi ha chiesto
qual è il rapporto fra onestà e memoria? La sacralizzazione della
memoria che è una forma della sparizione della memoria, rende diicile
l’onestà e facile la manipolazione. Aggiungo: Pierre Nora, il grande
storico, ha detto una volta che la memoria viene ormai a sostituire la
storia e che il Ventunesimo secolo sarebbe stato il secolo dell’oblio».
Forse è arrivato il momento di chiederglielo direttamente: cosa è l’onestà?
«L’onestà
è una virtù. E la virtù o è segreta o non è. L’unico uomo puro dei miei
libri è il soldato di Salamina, che salva una vita (la vita del poeta
franchista, ndr), ma nessuno lo sa e lui muore da solo e nell’anonimato.
L’uomo diventato famoso con la virtù è invece Enric Marco (il
protagonista di “L’impostore”, storia di Enric Marco che per decenni
pretese di essere stato prigioniero a Mauthausen; incarnava in pubblico
la memoria delle vittime del fascismo, ma si è inventato quasi tutto,
ndr). Marco ha trasformato la virtù in uno spettacolo. Ma torniamo alla
guerra civile: dal punto di vista politico i repubblicani avevano
ragione. Ma dal punto di vista etico i repubblicani hanno fatto tante
cose sbagliate. Molto spesso gente onesta ha appoggiato cause ingiuste».
Sta parlando delle suore stuprate e uccise, dei preti
assassinati. Ma parliamo invece, per un attimo, del ruolo degli
intellettuali. Uomini e donne come Zola o Camus o Hannah Arendt erano
l’onestà fatta persona. Oggi, l’intellettuale è considerato una specie
di radical chic, lontano dal popolo. Ha senso il ruolo
dell’intellettuale?
«Dipende cosa intende per intellettuale».
Colui o colei che dice «il re è nudo», mentre tutto il mondo elogia i vestiti del re.
«Io
lo dico in un altro modo. Io dico di no, quando tutti dicono di sì. Ha
citato Camus. Cosa è un uomo in rivolta? È un uomo capace di dire no.
Questo è l’intellettuale. Quando il mondo diventa sovranista io dico di
no, io non lo sono. Per me l’emblema di intellettuale è Kafka. Kafka
partecipava a una riunione degli anarchici. Entrò la polizia e intimò
agli astanti di disperdersi. La gente cominciò a scappare. Kafka invece
restò fermo, immobile. E si fece arrestare. Detto questo oggi molti
intellettuali sono troppo frivoli, appoggiano cause sbagliate e dicono
di sì».
Lei una volta ha contrapposto i quadri di Velázquez a
quelli di Goya. I soldati in battaglia di Velázquez sono pervasi di una
certa gravitas, la battaglia ha un che di solenne; in Goya, la guerra è
invece cruda e crudele.
«La verità di Velázquez è una verità idealizzata. Lui dipinge gli uomini come dovrebbero essere, non come sono».
Ma non era disonesto.
«Non
lo era di certo. Non nascondeva niente, ma presentava le cose come
sarebbe stato bello che fossero. Narrava la guerra come un fatto nobile.
Lo faceva pure Omero e in fondo l’epica in questo consiste: nella
narrazione di gesta nobili dei guerrieri. Goya invece era un visionario.
Al Museo del Prado a Madrid ci sono due suoi quadri sulle fucilazioni
alla Moncloa (il 3 maggio 1808, durante l’invasione francese della
Spagna, ndr). Nel primo racconta la ribellione degli spagnoli contro
Napoleone. In quel quadro gli spagnoli commettono atrocità. Nel secondo,
i carnefici sono i francesi e le vittime gli spagnoli. È questa, per me
l’onestà».
Ultima domanda, di rito. Vede un futuro per la sinistra?
«Sì,
a patto che sia capace di autocritica. La sinistra senza la democrazia
non è sinistra. Fidel Castro, per fare un esempio, non era di sinistra.
La sinistra è Concordia, Prosperità, Democrazia. Aggiungo anche, a
scanso di equivoci: il populismo, che sembra così forte, è solo una
tecnica di conquista del potere, ma non ha un programma. Non basta dirsi
onesti per stare dalla parte del popolo».