Il manifesto 26.6.18
Giallo-verdi (o forse rosso-bruni?)
Si fa crescere irrazionalmente la rabbia «del popolo» contro il capro espiatorio di turno, anziché, razionalmente, contro le vere cause del malessere sociale e un sistema economico che produce ingiustizie e disuguaglianze, guerre e migrazioni di massa
di Alberto Leiss
Mi è capitato in questo spazio, a proposito del «mondo nuovo» annunciato da Grillo e dal «Governo del cambiamento», di affermare l’esigenza di una battaglia linguistica senza quartiere. Il linguaggio che si adopera è già un «fare» politica gravido di conseguenze: tutta la migliore filosofia contemporanea indica il potere performativo delle parole e la loro capacità di interagire con la nostra psicologia e i suoi fondamenti inconsci (Lacan non diceva che l’inconscio «è strutturato come un linguaggio»?).
Sulla Repubblica di ieri Marco Belpoliti scrive in termini molto preoccupati della «neolingua» di Salvini: gli slittamenti semantici (i migranti «in crociera» nel Mediterraneo, per i quali «è finita la pacchia», e altre amenità terribili pronunciate – ormai canonicamente – «da ministro e da papà») sono operati ogni giorno «attraverso il continuo riferimento allo scontro.
Di più: Salvini ha bisogno di individuare un capro espiatorio per l’insoddisfazione, il malcontento e il risentimento che covano nel paese». E ancora: «Produrre il nemico è il solo modo che Salvini ha per esistere politicamente. Non ha idee, non ha visione per il futuro, non ha progetti, se non quello di aumentare il proprio potere». Un fenomeno di opportunismo politico che insiste sulle parole, le strumentalizza «come fa con le persone. Irresponsabile e falsario, è un pericolo per tutti».
Per Letizia Paolozzi (I Rom, Salvini e le Eumenidi, su Alfabeta2) il ministro potrebbe anche essere personalmente «un pezzo di pane, ma i problemi invece di risolverli li infiamma. Ci soffia sopra. E se i bubboni (per Salvini la lista comprende oltre ai Rom, Sinti, gli immigrati, la massaggiatrici orientali sulle spiagge, i venditori di pareo fino al «fritto misto» delle coppie gay) si sono ingranditi, non ha intenzione di curarli».
Il risultato è una continua riproduzione di rabbia, e la rabbia «sorta di danza narcisistica – scrive ancora Paolozzi – espressione e paradigma adatto alla mascolinità, non si scioglie miracolosamente».
Si fa crescere irrazionalmente la rabbia «del popolo» contro il capro espiatorio di turno, anziché, razionalmente, contro le vere cause del malessere sociale e un sistema economico che produce ingiustizie e disuguaglianze, guerre e migrazioni di massa. E cresce pericolosamente anche la nostra rabbia (la mia per esempio) contro lo stesso Salvini. È proprio «il lato oscuro della forza» che viene evocato.
È poi leggermente inquietante che si tratti di una fenomenologia con l’aspetto di un movimento internazionale, probabilmente sostenuto da «poteri forti».
Dopo le visite italiane dell’ideologo del trumpismo Steve Bannon, è stata la volta del russo Alexander Dugin, dipinto dai media quale “Rasputin” di Putin. In due interviste all’ Huffington Post e alla Repubblica questo singolare filosofo e ideologo (seguace di Heidegger e di Julius Evola, fondatore con Limonov, da cui poi si è separato, di un partito «nazionalbolscevico») tesse l’elogio del governo giallo-verde italiano quale «primo passo storico verso l’affermazione irreversibile del populismo. Una nuova identità che guarda con fiducia alla Russia». Dugin rifiuta le etichette di «fascismo» e respinge l’accusa di farsi portatore di una ideologia «rosso-bruna»: la giustizia sociale va coniugata alla tradizione e alle identità popolari, contro le «élite» liberali. Ma quando lo fa evocando la tradizione imperiale russa e la metafisica heideggeriana del Dasein (l’esserci), non si sa bene se sorridere o ripensare a quel pittore fallito un po’ ridicolo che arringava il «popolo» nelle birrerie di Monaco degli anni ’30.
Il manifesto 26.6.18
Tomaso Montanari: «Pd missione compiuta: ora il rosso è solo quello della Ferrari»
Intervista. Parla lo storico dell'arte: "Questa storia è iniziato dopo il muro di Berlino, quando la sinistra ha pensato che non ci sono alternative al capitalismo"
di Tomaso Montanari
La Pisa di sinistra, quella di Ciccio Auletta e dei Diritti in Comune, osserva che quello che la vittoria elettorale della Lega è l’effetto, sociale e culturale, delle politiche condotte dal Pd. Inseguendo la destra sul suo terreno. In molti casi anticipandola, e per giunta vantandosene. Tomaso Montanari, ti convince ?
Non c’è dubbio che sia così. Ed è una storia che inizia ancora prima, dal dopo muro di Berlino, quando la sinistra ha pensato di aver perso perché aveva torto. Così l’agenda è diventata quella di Tony Blair, riassumibile nell’acronimo «Tina»: non ci sono alternative. Allora resta solo lo storytelling, da Veltroni a Renzi, che sono in continuità. Smettendo di pensare che la sinistra possa cambiare il mondo, perché il mondo è immodificabile e chi sta sopra sta sopra, chi sta sotto sta sotto. E la politica non cambia più nulla. Se non la vita di chi la fa.
Dunque continui a pensare che da un quarto di secolo la «sinistra di governo» abbia prodotto tanti disastri. A tal punto che non la votano più…
Lo ripeto, il problema è antico. Renzi è stato solo il botto finale. Ricordo che quando inizia la sua parabola politica, dice che per lui le bandiere rosse sono quelle della Ferrari. La sua parabola è finita ora, non il 4 marzo o il 4 dicembre. Ma paradossalmente ha vinto: oggi l’Italia, e la Toscana, pensano che le bandiere rosse siano quelle della Ferrari.
Ora il presidente della regione Toscana Enrico Rossi dice che ora si deve andare oltre il Pd, Leu, Mdp, e che deve essere progettato un «contenitore» che raggruppi tutta la sinistra che non va più a votare, perché non si aspetta più risposte.
Mi sembra la politica dei bussolotti. Mentre il problema non è il contenitore ma quel che c’è dentro. I toscani hanno votato a destra perché c’è ingiustizia sociale, non perché manca una sinistra unita. Se la Toscana fosse stata davvero rossa, non sarebbe crollata. Invece era grigia, a tratti nera, altrimenti a Pisa non si sarebbero inventati i «daspo urbani» per i migranti, e Rossi non sarebbe il difensore dell’aeroporto di Peretola, quello che vuole fare Carrai. Non distinguendo più la politica del Pd da quella della Lega, ha prevalso l’originale. Poi non dobbiamo dimenticare che la legge elettorale toscana è nei fatti l’Italicum, e la degenerazione del sistema democratico nelle elezioni è partita da qui. Questo Salvatore Settis l’ha spiegato bene.
Contro il «razzismo di governo», sia Rossi che il sindaco fiorentino Nardella hanno indetto una manifestazione a Firenze, mercoledì 27. Che ne pensi?
Quando il mese scorso il Cantiere delle Idee ha presentato una ricerca con interviste nei quartieri popolari, è venuto fuori fra le tante che anche la provincia italiana sta votando in reazione al «centro», perché pensa che lì ci sia la ricchezza, mentre tutto il resto è una gigantesca periferia. Insomma si vota in reazione all’establishment dei capoluoghi. Allora io penso che organizzare una manifestazione antirazzista in una piccola piazza di lusso nel centro di Firenze, fra gli alberghi a cinque stelle, sia l’ennesimo regalo a Salvini. Fosse stata organizzata al campo rom del Poderaccio, e l’idea fosse partita da Libera, dall’Arci, dalla stessa Libertà e Giustizia, insomma «dal basso» e non da un sindaco e da un presidente regionale, avrebbe avuto un’altra simbologia. Non ho aderito, e non andrò in piazza Ognissanti.
A proposito, l’anno prossimo si vota a Firenze.
Se Nardella va avanti così, finirà come il sindaco senese Valentini. Se invece il Pd capisce che deve cambiare tutto, radicalmente, da domani, non inseguendo Salvini ma andando in direzione opposta, magari facendo la moschea in centro e lavorando sull’integrazione, allora può diventare un pezzetto della nuova sinistra. Hanno visto che facendo i «destri» perdono, non hanno nulla da perdere a fare cose di sinistra. Perché Salvini un ideale ce l’ha, «nero» ma ce l’ha. E l’unico che sta provando a resistergli è uno scrittore, Roberto Saviano, non un politico.
Il Fatto 26.6.18
Intervista a Massimo Cacciari
“Discutete di tutto, ma i nuovi capi siano estranei al passato”
Per il filosofo, “serve un gruppo dirigente innocente: basta col renzismo e con ciò che l’ha prodotto, D’Alema e Bersani”
“Discutete di tutto, ma i nuovi capi siano estranei al passato”
di Fabrizio d’Esposito
Professore Massimo Cacciari il Pd muore e i renziani se la ridono: “Avete visto? Si perde anche senza Renzi”.
Ma questi fanno le comiche, sono da prendere a sculacciate, anzi a calci in culo visto che non sono più bambini. Al posto di Renzi c’è Martina e allora? Vogliamo scherzare?
Non scherziamo.
Renzi fino all’altro giorno ha commesso errori su errori. I suoi cinque anni sono stati un disastro, nessuna revisione culturale, nessuna autocritica.
L’ultimo peccato?
Il Pd non è stato in grado neanche di intervenire e sottrarre il M5S alla Lega. Non c’è nulla da fare, quando ci sono i momenti drammatici loro continuano a non vedere il pericolo. È stato così anche prima di Renzi.
Ciechi e adesso pure dormienti.
È un gruppo dirigente di mezze tacche, senza alcun rapporto con la società vera. Sono stati capaci di distruggere anche il radicamento del partito alle Amministrative.
Caduti altri baluardi, domenica: Pisa, Siena, Imola.
Il voto amministrativo aveva consentito al Pd di resistere negli anni del berlusconismo.
E ora?
Il problema principale non è neanche più il Pd ma questa deriva culturale cui stiamo assistendo in tutta Europa.
L’onda populista.
Non populista, ma di destra.
Destra destra.
Questo governo Conte è parte di una grande destra che va da Milano a Vienna e Monaco, secondo modelli storici che l’Europa ha già conosciuto. Sta rinascendo una grande destra mitteleuropea con tutti i Paesi dell’Est dietro.
La parte peggiore del Novecento.
Il fascismo non tornerà, figuriamoci, ma ci sono delle costanti della Storia che si ripetono. E quando ritornano la sinistra va a puttane, non è la prima volta.
Inesorabilmente.
Ma come si a fa non capire che i tre milioni del Circo Massimo di Cofferati oggi per tre quarti votano per i Cinquestelle?
Già come si fa?
Il M5S è stato importante per la sua funzione di argine in questi anni ma è stato fagocitato dalla Lega anche per la cecità al Pd. Poveretti.
Poveretti?
Massì come fa un movimento senza struttura a reggere con la Lega di Salvini, radicata da decenni? Ci siete solo voi del Fatto un po’ a sostenerlo.
In questo deserto, il Pd che deve fare, leniniamente parlando?
Primo: fare subito al più presto un vero congresso in cui ogni componente presenta un programma chiaro, senza compromessi e con una totale discontinuità dal renzismo.
Si va dal repubblicanesimo centrista alla Macron di Calenda al neosocialismo.
Benissimo. Si confrontino. L’importante è che sia un gruppo dirigente innocente rispetto al passato. Basta con il renzismo e con ciò che l’ha prodotto, da D’Alema a Bersani.
Chi sono questi innocenti?
Penso a Cuperlo, a Zingaretti, no Zingaretti no, non si capisce quello che vuole.
E poi?
Barca, Boeri, la Reichlin, lo stesso Calenda. Ci vogliono idee e interpreti nuovi, il Pd deve cercare di recuperare quei ceti dipendenti che hanno scelto i grillini.
Ce la faranno? Il ronf ronf di questi mesi, per dirla alla Padellaro, segnala un sonno pesante.
Figuriamoci: passeranno a chiedersi se Martina vuole fare il segretario, come Franceschini e Orlando si muoveranno, eccetera eccetera. Polemichette, come quelle che fanno con Salvini senza mordere. Ma poi, scusi, perché non spiegano in cosa è diverso Salvini da Minniti?
Rispondono che lui fermava i migranti alla fonte.
In quei lager libici e tunisini? Purtroppo viviamo in una società di indifferenti e se dai lager nazisti vediamo uscire solo il fumo allora stiamo tranquilli perché non vediamo nulla.
Torniamo al centrosinistra. Se il Pd è finito, meglio cambiare nome?
Il problema non è il nome, ma il contenuto della bottiglietta. Puoi anche continuare a chiamarti Partito democratico se rompi drasticamente con quello che c’è stato prima. Altrimenti finirà che alle Europee saranno ancora più morti di oggi.
Lei non è ottimista.
Ma come faccio?
La ragione è incline al pessimismo.
Come faccio a non essere pessimista quando in giro per le televisioni sento ancora i Rosato, gli Orfini, i Romano che fanno le veline del renzismo? Gli altri devono svegliarsi, perché non lo capiscono? Sennò non ci resta che l’utopia.
Quale?
Che in qualche modo sia il M5S il futuro della sinistra.
La Stampa 26.6.18
Uno tsunami annulla il centrosinistra: perché la disfatta si replicherà ancora
di Alessandro Di Matteo
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La Stampa 26.6.18
Il Pd al tracollo. Calenda choc: “Scioglamoci
di Francesca Schianchi
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La Stampa 26.6.18
Emanuele Macaluso: “Senza lottare si va al 3%. Facciano un congresso vero”
di Alessandro Di Matteo
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Corriere 26.6.18
Si è sgretolato il mito del popolo rosso
di Pierluigi Battista
C’erano una volta le «Regioni rosse». C’erano, e ora con le elezioni di Massa, Pisa, Siena, Imola, Terni e di tanti altri comuni passati nel campo degli Infedeli si sono celebrate le loro esequie. Le Regioni rosse non erano solo un poderoso arsenale, ora svuotato, di voti per la sinistra. Erano un mito, una leggenda, un’immagine inamovibile nel paesaggio politico, umano e antropologico dell’Italia repubblicana. Erano l’ultima trincea del «popolo». Il «popolo» vero, non quello della folla solitaria in cui gli individui sono connessi (appunto) solo attraverso la virtualità della rete. Il popolo strutturato, organizzato. La comunità del popolo, che nelle Regioni rosse si rinsaldava attraverso i legami di una socialità attiva e avvolgente, della concretezza territoriale, del senso di appartenenza, e che ora si è dissolta. Fine, quel mito si è esaurito. Si è chiusa un’epoca. L’insieme delle Regioni rosse, quel polmone rosso che faceva respirare all’unisono l’Emilia-Romagna e le Marche, la Toscana e l’Umbria, è solo un ricordo del passato.
E solo chi ha l’età per ricordare quel passato può capire come le Feste dell’Unità nelle città e nei mille paesi delle Regioni rosse siano state l’ultimo santuario da cui emanasse un qualche sentore di spirito «popolare»: le cucine delle feste con i volontari a friggere e a cuocere salsicce, le balere dove si ballava il liscio che piaceva al popolo, le famiglie e le generazioni riunite, i film da vedere insieme. Quelle che sono rimaste, di Feste senza il giornale da cui prendevano il nome, sono solo il pallido simulacro di quelle che c’erano prima. E solo chi conta qualche anno alle spalle ricorda Roberto Benigni che raccontava le «case del popolo» della Toscana un tempo rossa, e che si chiamavano case del popolo perché appunto c’era il popolo, e dove si giocava a briscola, si beveva vino, si chiacchierava dei fatti locali. E si parlava di politica, anche, ma non sempre. Il tempo libero non era mai solitario, le Regioni rosse vivevano infatti di una mitologia collettivista che aveva qualche tratto comune con la Germania dell’Est, Stasi a parte. Lucio Colletti, il filosofo che aveva abbandonato il marxismo, spirito caustico e cinico, diceva che non avrebbe mai potuto andare ad abitare a Bologna, dove pure risiedevano i suoi affetti, per paura delle intrusioni poliziesche del «capo-caseggiato», come quelli che spadroneggiavano nell’est Europa. Era un’esagerazione, ma c’era un più di un briciolo di verosimiglianza. Ogni segmento della vita non lavorativa aveva la sua rappresentanza politicamente inquadrata: i luoghi del «dopolavoro», così si chiamava, o il capillare associazionismo sportivo targato Uisp, o le donne dell’Udi, o l’Arci Caccia, che tanto fa imbestialire, è il caso di dire, ambientalisti e animalisti.
E il lavoro, e tutto ciò che era connesso al lavoro, dava nelle Regioni rosse forma, organizzazione, struttura, cultura, non solo economia, ma anche valore esistenziale. L’integrazione tra mondo agrario e mondo industriale (peraltro in misura non lieve portato del fascismo, che in Emilia-Romagna, attraverso i suoi ras, aveva una forza tutta speciale: dal rosso, al nero, al rosso di nuovo) riduceva al minimo le tensioni sociali. Il sindacato era una potenza. Il credito delle banche popolari raccontava amicizia e sostegno per generazioni e generazioni: incalcolabile sul piano simbolico è stata negli ultimi anni la distruzione di un rapporto di fiducia e di compenetrazione con la «nostra» banca. E come calcolare il sentimento di delusione e frustrazione per le poco gloriose acrobazie a Siena del Monte dei Paschi? Il «nostro» non c’è più. Lo sposalizio del popolo con il credito elargito per far respirare il territorio si è deteriorato. E il sistema delle cooperative, non come normale impresa omologata al resto delle imprese, ma come arcipelago di imprese speciali, dove il popolo si riconosceva, che fine ha fatto? I partiti della sinistra selezionavano il loro personale politico da questo mondo legato alle cose, alle cifre, al concreto. L’amministrazione dei territori grandi e piccoli era la scuola politica più affidabile: non c’era solo ideologia e sol dell’avvenire, ma attenzione di governo. Sbagliato o giusto, ma governo. Realismo.
Non era un idillio, non c’è niente da rimpiangere dal passato, ma era «popolo», e quel popolo era la sinistra. Senza quel popolo organizzato, strutturato, inquadrato, la sinistra svanisce e le Regioni rosse cessano di vivere, nella realtà e nell’immaginario. Anche le Regioni bianche erano popolo, erano la cassaforte elettorale di un grande partito popolare come la Democrazia Cristiana. Ma il cuore delle Regioni bianche ha trovato un erede nella Lega, specialmente nel Veneto bianco e in una parte della Lombardia, che ha occupato quel territorio «popolare» (dinamismo economico e conservatorismo culturale con forti venature scioviniste, «la polenta contro il cous cous») in una misura che la sinistra non è mai riuscita davvero a capire, stupendosi ogni volta del seguito leghista. Nelle Regioni rosse la rivoluzione della post-modernità, l’avvento della società liquida, l’economia dell’immateriale sono passate come un rullo compressore su quella dimensione popolare, organica, comunitaria, coesa. Non era un idillio, soprattutto per chi restava fuori da quel sistema così compatto e cementato, in cui la politica si intrecciava con la società in ogni sua nervatura. Ma era stabilità: ecco perché le Regioni rosse continuavano a essere rosse. In futuro ci potranno essere elezioni del riscatto, capovolgimenti politici, come a Bologna, in cui la sinistra si è ripresa la città dopo lo choc Guazzaloca: in politica, in una democrazia dell’alternanza in cui comunque l’Italia fortunatamente continua a vivere, nulla è totalmente irreversibile. Ma quel cemento popolare si è sgretolato per sempre. Le Regioni rosse hanno smesso di essere, per una scelta del destino, la roccaforte inespugnabile della sinistra. E infatti.
Corriere 26.6.18
La sinistra senza voce
di Antonio Polito
La caduta del muro di Siena e di Pisa, dopo 74 anni di incontrastata egemonia della sinistra, segna la fine definitiva del voto di appartenenza. Gli elettori sono sempre in libera uscita. Non esiste più alcuna rendita di posizione. Neanche la più antica e nobile, che in Toscana si era nel tempo quasi fusa con la storia dei Comuni medievali e con le loro originali forme di autogoverno.
Proprio per questo il voto di domenica ha un valore politico speciale, superiore a quello di una consultazione locale. Hanno certo pesato i fattori indigeni e il forte astensionismo. Ma il messaggio è forte e chiaro: vince il governo anche in casa dell’opposizione. Questo doppio turno nei Comuni era infatti il primo con il governo gialloverde in carica. Se si poteva dire che in Molise e Friuli aveva contato l’effetto band wagon , la tendenza a saltare sul carro del vincitore, stavolta invece gli elettori hanno potuto valutare le prime e uniche mosse del governo, quelle sui migranti. E le hanno giudicate bene. È infatti Salvini il traino elettorale che ha portato il centrodestra a conquistare le ex roccaforti rosse e a dilagare nel Centro-Nord.
Al punto che il voto del prossimo anno a Firenze città e in Emilia-Romagna si presenta già come un incubo epocale per la sinistra.
Ma Salvini traina, insieme al «suo» centro-destra (o forse sarebbe ormai meglio dire destra-centro), anche le sorti della maggioranza di governo. Le difficoltà dei Cinquestelle, peraltro tradizionalmente deboli nel voto amministrativo, vengono infatti compensate con gli interessi dal successo della Lega. E, quel che più conta, quando si tratta di battere il Pd i due elettorati possono incontrarsi nei ballottaggi, come è avvenuto a Imola e Avellino dove il M5S ha prevalso. Il che conferma la buona salute di cui gode il governo nel Paese.
D’altra parte che cosa aveva da offrire l’opposizione agli elettori? Sia il Pd sia Forza Italia hanno praticamente dato il via libera al governo giallo-verde, pur ritenendolo pericoloso: il Pd tirandosi indietro da ogni trattativa con i Cinquestelle, e Berlusconi autorizzando apertamente Salvini a procedere senza rompere la coalizione. Ma mentre il Cavaliere può ancora contare sul forno dell’alleanza con Lega a Fratelli d’Italia, e sui nuovi candidati civici locali che ieri ha giustamente indicato come una delle chiavi del buon risultato di un «centrodestra plurale», il Pd è duramente sconfitto, tristemente solo e praticamente acefalo. Né la disfatta del 4 dicembre al referendum né quella del 4 marzo alle politiche hanno prodotto finora alcun ricambio di gruppi dirigenti o di politiche. L’atteggiamento generale del partito resta di stizzita recriminazione, quasi come se un destino cinico e baro avesse impedito agli elettori di apprezzare i grandi risultati di cinque anni di governo. Invece di provare a dare un senso al Pd si discute se superarlo, se andare per l’ennesima volta «oltre», così accreditando il giudizio di chi lo dà per morto. Mentre invece dove ancora esiste un simulacro di classe dirigente, come in Lazio e in Puglia, i risultati non autorizzano il funerale.
Se Renzi intendeva mettersi comodo a guardare lo spettacolo del rapido tracollo dell’alleanza giallo-verde, nella speranza che presto gli elettori si sarebbero pentiti dell’errore commesso per tornare all’ovile, bisogna dire che per ora i pop corn li stanno mangiando Salvini e Di Maio.
Naturalmente siamo appena agli inizi. Il governo è in carica da soli 25 giorni e ha prodotto un solo decreto legge. Tutta la parte economica e sociale del programma resta appesa alle fragilità di un bilancio che il ministro del Tesoro sembra voler proteggere da ogni assalto populista e che resta ogni giorno esposto al giudizio dei mercati. La stessa determinata azione che ha consentito a Salvini di rovesciare il tavolo europeo sui migranti e di costringere gli altri paesi a fare i conti con il dramma italiano, potrebbe trasformarsi in un boomerang se all’imminente vertice di Bruxelles non si trovasse un accordo, mentre le acque italiane si riempiono di navi cariche di esseri umani in cerca di approdo.
Ma tutto questo si vedrà. L’esperienza dovrebbe avere ormai insegnato che non basta che chi governa commetta errori, o dimostri di non essere in grado di mantenere le sue promesse, perché l’opposizione se ne avvantaggi. Ci deve essere un’alternativa credibile, in grado di prendere in mano l’agenda politica, per smuovere l’elettorato e fargli cambiare strada. Oggi questa alternativa non esiste, ed è lecito dubitare che possa manifestarsi in un prevedibile futuro.
Basti guardare a quello che è accaduto in questo turno elettorale a Castellammare di Stabia, ex roccaforte rossa, un tempo detta la Stalingr ado del Sud: il candidato sindaco del centrodestra era un ex segretario del Pd, il candidato del centrosinistra era un ex di Forza Italia, e l’unico iscritto al Pd della partita, vice-sindaco uscente, guidava una coalizione di liste centriste. Al ballottaggio il partito, forse ipnotizzato da questo kamasutra elettorale, ha invitato i suoi elettori a votare scheda bianca. Ha vinto il centrodestra. Difficile trovare una vicenda più simbolica dell’irrilevanza attuale della sinistra, sia riformista sia radicale.
Repubblica 26.6.18
Elezioni amministrative e società
Vince la propaganda di Salvini
Si riduce lo spazio dei 5 Stelle
di Ilvo Diamanti
Sono trascorsi 25 anni dall’approvazione della legge sull’elezione diretta dei sindaci.
Principale ragione della personalizzazione politica in Italia, accelerata, l’anno seguente, dalla discesa in campo del Cavaliere. Ebbene, 25 anni dopo le elezioni amministrative continuano a offrire uno specchio ai cambiamenti politici in corso. Nel rapporto sempre più instabile fra società, politica e territorio. Questi mutamenti ribadiscono una tendenza evidente ormai da tempo. La rarefazione del Centro-sinistra. In alcune zone (nel Nord Est): la scomparsa. Il Centro-sinistra, se consideriamo i Comuni maggiori (oltre 15 mila abitanti), prima di queste elezioni, governava 57 amministrazioni (su 109). Oggi 25.
Meno della metà. Superato nettamente dal Centro-destra, che prima ne amministrava 20, oggi 36 — come coalizione. Senza considerare che la Lega, da sola, governa in altre 2. Occorre aggiungere, infine, che nell’arena amministrativa, confluiscono numerose liste “civiche”. Talora espresse da esperienze e leader “locali”. Talora ispirate dagli stessi partiti nazionali. In questa occasione, si sono affermate in 38 Comuni (maggiori). Soprattutto nel Mezzogiorno.
Questi dati sottolineano quel che era già chiaro, dopo il primo turno: l’avanzata del Centro-destra Lega-forzista.
Mentre il M5s conferma i suoi limiti, su base locale. È un soggetto che amplifica il malessere politico dei cittadini soprattutto in ambito nazionale.
Ma non ha ancora messo radici. E fatica a proporre un’offerta politica convincente, sul territorio. Perché non dispone di leader e di militanti conosciuti e “attraenti”. Almeno, per ora.
Queste tendenze, peraltro annunciate dalle elezioni politiche del 4 marzo, alle consultazioni amministrative di domenica scorsa sono divenute evidenti. Esplicite. La “zona rossa”, definita dalle regioni del Centro Nord: non c’è più. Il Paese della Sinistra e la Sinistra dei paesi: hanno perso colore e fondamenti. Dei 12 comuni maggiori dove il Centro-sinistra era al governo — oggi ne rimangono 5. Di questi, un solo capoluogo di Regione: Ancona. In Emilia Romagna, in Toscana, in Umbria: ha perso in tutti i capoluoghi. Massa, Pisa, Siena, Terni. La terra di “Centronia”, come l’ha definita Giuseppe De Rita, oggi non c’è più. Si è confusa in mezzo a un Paese che non presenta più una mappa dai confini e dai colori distinti, ma si è tinto, prevalentemente, di azzurro. Meglio: di blu. Perché la coalizione Lega-forzista si è imposta un po’ dovunque. Da Nord a Sud, passando (appunto) per il Centro. La differenza, in questo caso, l’ha fatta la Lega.
Che ha sfruttato un clima d’opinione pervaso dall’insicurezza. Un sentimento animato dal ri-sentimento. Verso “gli altri”. D’altronde, per settimane abbiamo (in)seguito il viaggio dei disperati imbarcati sull’Aquarius. Quasi fosse l’avanguardia di un’invasione barbarica di proporzioni bibliche. E da settimane, anzi, da mesi, l’unica figura, l’unico leader capace di occupare la scena mediatica è Matteo Salvini.
L’unico in grado di suscitare reazioni ed emozioni. Non importa di che segno. Così siamo diventati tutti leghisti. Oppure anti-leghisti. Schierati. Pro o contro Salvini. E ciò significa che oggi il leghismo, la Lega, e il suo Capo determinano l’unica vera frattura politica che attraversa la società. Che scava sul territorio. Il Centro-sinistra, se vogliamo cercarne le tracce, presenta una distribuzione del voto sparsa e sperduta. Con una densità maggiore (ma sempre ridotta) nel Nord Ovest e nel Sud. In particolare — come ha osservato Marco Valbruzzi dell’Istituto Cattaneo — nella fascia costiera dell’Adriatico.
La differenza maggiore, rispetto alla mappa geopolitica disegnata dal voto del 4 marzo, è prodotta dallo spazio ridotto del M5s.
Primo partito alle elezioni politiche ma pressoché residuale, comunque “periferico”, in questa consultazione. Come sempre, alle elezioni amministrative. Per le ragioni già spiegate anche in questa analisi. In primo luogo, la limitata presenza sul territorio. I suoi elettori, in questa occasione, si sono nascosti nella zona grigia del non-voto. Oppure, quando il ballottaggio opponeva candidati del Centro-destra e, soprattutto, della Lega a quelli del Centro-sinistra e del Pd, hanno votato per gli alleati di governo.
Per “mimetismo solidale”… Il ruolo della Lega è apparso importante soprattutto nelle zone tradizionalmente di (Centro) Sinistra. Nel Centro Nord. Dove si è consumata la crisi del Pd. Meglio: del PdR. Il Partito di Renzi. La trasformazione del Pd in partito personale ne ha, infatti, accelerato l’erosione. Alla base. Difficile oggi ri-conoscere il Centro-sinistra. Nella società. Nel territorio. Incontrare militanti, luoghi di aggregazione.
“Imbattersi” (non saprei come dire diversamente) in iniziative.
Manifesti. D’altronde, la campagna si svolge, perlopiù, in rete. Ma, per il Pd, ciò significa perdere la propria strada. La propria storia. Significa perdersi… Lasciare spazio ad altri soggetti politici, divenuti visibili nei luoghi presidiati, un tempo, dai partiti di Centro-sinistra.
Quando ancora erano partiti di “massa”. Cioè: partiti… Così è difficile indicare una soluzione alla crisi del Pd e del Centro-sinistra. “Riproporre” il partito che “sta sul territorio”, nei luoghi di vita e di lavoro: è scontato. Quasi banale. E al tempo stesso “improponibile”, visto il cambiamento che ha coinvolto il rapporto fra politica e società, fra partiti e territorio, negli ultimi venticinque anni.
Dopo la discesa in campo del Cavaliere. Ma per i partiti di Centro-sinistra è diverso. La partecipazione è nella loro storia e nella loro identità. Come dimostra la mobilitazione che si osserva ogni volta in occasione delle primarie.
Per questo il Pd, se si riduce a partito “mediale” e “personale”, lontano dalla società e dal territorio, perde (con)senso. E perde alle elezioni. Nazionali.
Tanto più, amministrative.
Corriere 26.6.18
Caccia ai responsabili nella Toscana perduta «Ormai il renzismo qui è una zavorra»
Le accuse dei candidati e il nodo della sicurezza
di Monica Guerzoni
SIENA Quando la pioggia è finita e i turisti in bilico sulle travi di legno schivano il fango di una piazza del Campo già pronta per il Palio, il nuovo sindaco taglia l’ombra della Torre del Mangia e fa il suo ingresso nel Palazzo Pubblico. Si chiama Luigi De Mossi e ha la faccia incredula di chi mai, nella vita, aveva sognato di rottamare 73 anni di storia della sinistra italiana: «Salvini? Stanotte mi ha persino risposto al telefono, era contento...».
Gli eredi del dalemismo
Dopo Arezzo, Grosseto e Pistoia, il centrodestra a guida leghista strappa agli eredi del dalemismo, del bersanismo e del renzismo anche gli ultimi trofei. Cade Pisa, dove la torre si inchina al vincitore. Cadono Massa, Imola e Terni, dove anche gli operai delle acciaierie hanno votato nel nome di Salvini. Il filo rosso che, dal dopoguerra, legava assieme i campanili della Toscana e dell’Emilia-Romagna, può dirsi definitivamente spezzato. Le roccaforti ex Pci, Pds, Ds, Pd non esistono più, la cartina dell’Italia politica non segnala regioni rosse e il futuro, per i dem annichiliti, è la (flebile) speranza di tenere Firenze nel 2019 e la Toscana nel 2020 e di non perdere, quando sarà, anche Prato e Lucca. «Salvini è stato bravo a interpretare il malcontento, ma le responsabilità dei dirigenti del Pd sono indiscutibili — sospira angosciata Rosy Bindi, per decenni una colonna della sinistra toscana — La ripartenza è possibile solo se il partito si scioglie in un nuovo centrosinistra». Anni di risse tra fratelli coltelli hanno azzerato ogni rendita di posizione, rendendo contendibili feudi inespugnabili. Un pezzo dopo l’altro il Pd ha visto sgretolarsi la sua montagna di consensi, ha smarrito la sua gente e aperto la strada al cambiamento. «Una svolta che aspettavamo da anni — spiega sull’uscio della sua bottega l’antiquario Francesco Codenotti — Il Paese è al disastro, le regole dell’Europa ci stanno riportando al medioevo».
La questione dell’uomo forte
Per questo i senesi hanno scelto l’uomo forte? «E chi sarebbe, Salvini? Ma suvvia... Qui a Siena gli uomini forti sono altri, i banchieri e massoni». In piazza del Campo, di fronte al ristorante La Mossa, due amici parlano del terremoto elettorale. «Renzi è bruciato, al prossimo giro lui e la Boschi restano fuori dal Parlamento». E il compare: «Pure l’altro Matteo deve stare attento... Se non fa qualcosina, lo si manda a casa pure lui».
Bruno Valentini ci è appena tornato, a casa. Il sindaco uscente si è portato via l’ultimo scatolone a notte fonda, stremato dalla «crudele logica del ballottaggio» e dall’eterna sfida tra renziani e antirenziani: «Un risultato simile non me lo aspettavo, dopo aver rimesso a posto i cocci di una città uscita malissimo dallo scandalo Monte dei Paschi». A Siena politica e affari vanno da sempre a braccetto. A Siena nel 2012 Renzi aveva chiuso la campagna delle primarie, impugnando la bandiera bianco-nera come un vessillo della rottamazione: contro Bersani, contro D’Alema e i «capitani coraggiosi di Telecom», contro l’ex sindaco Franco Ceccuzzi: «Una parte del gruppo dirigente deve andare a casa per quello che ha fatto e questa città lo sa bene».
L’apparentamento last minute
Cinque anni e spiccioli dopo, a nulla è servito l’apparentamento last minute (favorito da Veltroni) con la lista «nemica» di Pierluigi Piccini, anzi i cittadini lo hanno vissuto come un accordo di potere. Di chi è la colpa? «Dell’afasia del Pd — geme Valentini, un tempo renziano vicino a Lotti — Il punto di rottura è stato il referendum, Renzi non si è ritirato e il nostro popolo si è sentito tradito». E adesso? «Il renzismo è una zavorra». E Salvini? «Non sarà il migliore, ma la gente lo vede come uno che ha le palle». Con buona pace di chi ancora crede negli ideali di sinistra, a cominciare dall’accoglienza.
Marco Filippeschi, ex segretario regionale per dieci anni sindaco di Pisa, ha percepito sulla sua pelle crescere l’onda della paura e la voglia di sicurezza. «Si sentiva in città dire “mandiamo via gli immigrati e chi ce li ha portati, cioè la sinistra”. La megarissa per la droga tra nord africani e nigeriani alla vigilia del ballottaggio, in un clima da coprifuoco, ha lasciato segni profondi. Il resto lo ha fatto una gestione del potere subita da molti come arrogante, prova ne siano le liste elettorali delle politiche inzeppate in Toscana di paracadutati da altre regioni, come Pinotti, Giachetti e Padoan per il Pd e come Speranza per Leu. Ma il presidente della Toscana, Enrico Rossi, non sente il peso della sconfitta: «Rivolgetevi al Pd, non a me. La sinistra, invece di criticarmi, dovrebbe trattarmi come un’icona».
Il manifesto 26.6.18
Un nuovo cammino a sinistra
La disfatta del Pd. L’elettorato di centrosinistra è frastornato. Dopo la batosta del referendum costituzionale (gli attuali governanti in quella vicenda posero le prime basi dell’alleanza e del contratto), il Pd ha compiuto errori madornali, non affrontando una discussione di fondo, non scegliendo un percorso, e lasciando a bagnomaria un reggente che quando parla non si sa a nome di chi. Purtroppo, la crisi del Pd è contagiosa. Il suo fragoroso smottamento, verso la Lega, verso i 5Stelle e verso l’astensionismo, coinvolge anche le forze alla sua sinistra, che o si uniscono in modo strumentale o si dividono in modo autolesionistico
di Norma Rangeri
Abituati alle frane di un paese che si sbriciola, restiamo invece quasi stupiti quando la frana assume i connotati di un cedimento del territorio dal punto di vista sociale e politico. Come accade da alcuni anni ad ogni appuntamento elettorale. Quando la montagna smotta o il fiume allaga, ogni cosa finisce per essere travolta, i campi incolti come i terreni ben coltivati. La disfatta del Pd in Emilia Romagna e in Toscana, due regioni amministrate meglio di tante altre, dimostra che la valanga fascistoide non ha trovato argini in grado di contenerla. Città dove il Pci-Pds-Ds-Pd era al governo da 70 anni (Imola e Siena), o da 20 come Terni, hanno scelto di cambiare.
Nulla di drammatico di per sé, perché il problema non è sbaraccare le vecchie, ossificate nomenklature. Il problema è che il cambiamento premia una Vandea. Presente e diffusa in tutto il paese. Su quali basi noi oggi assistiamo alla crescita di un partito che, dal 4 per cento del 2013, nel 2018 quadruplica? E che i sondaggi danno in costante salita? Sicuramente sulla base di fortissime tensioni sociali. Ma anche sull’odio (quel che si è scatenato contro Saviano è barbarie), sulla paura, sul livore, sull’intolleranza.
Ha fatto la sua parte la mancanza di governo di alcune questioni, come il lavoro e la sicurezza sociale, ovvero gli argini politico-culturali da sempre appannaggio della sinistra: queste vie maestre della convivenza civile e della tutela sociale non sono state difese. Anzi, è accaduto il contrario. Come dimenticare la battaglia durissima condotta da Renzi contro i sindacati, oppure la beffa del contratto a tutele crescenti, o l’affidamento dell’accoglienza al sistema malato delle cooperative (l’imprenditore campano dei centri per i migranti con la Ferrari), come la retorica renziana di «aiutiamoli a casa loro», o la brutalità del ministro Minniti che «risolveva il problema» ricacciando i migranti nell’inferno libico? Tutto questo ha desertificato il terreno del consenso, favorendo la scia salviniana, tirandogli la volata.
La persona anziana che si sente spaesata e insicura nel quartiere, quelli che temono «i neri» che rubano il lavoro (come se gli autoctoni fossero disposti a vendere pareo sulle spiagge), quelli che pensano ai diritti di se stessi e dei propri simili e se ne fregano del resto, quelli che temono la violenza (vergognosamente manipolata e usata dalla propaganda mediatica), non vogliono ascoltare, non vogliono discutere e confrontarsi: chiedono risposte immediate, semplici, rassicuranti e si offrono a chi le propone. Senza però riflettere sul fatto che le soluzioni delle destre xenofobe non danno una risposta che guarda avanti, ma giocano tutto in difesa e alzano muri: contro gli immigrati, contro l’Europa, contro i pericoli esterni (magari armando ogni singolo cittadino che vuole autodifendersi).
L’elettorato di centrosinistra è frastornato. Dopo la batosta del referendum costituzionale (gli attuali governanti in quella vicenda posero le prime basi dell’alleanza e del contratto), il Pd ha compiuto errori madornali, non affrontando una discussione di fondo, non scegliendo un percorso, e lasciando a bagnomaria un reggente che quando parla non si sa a nome di chi.
Purtroppo, la crisi del Pd è contagiosa. Il suo fragoroso smottamento, verso la Lega, verso i 5Stelle e verso l’astensionismo, coinvolge anche le forze alla sua sinistra, che o si uniscono in modo strumentale o si dividono in modo autolesionistico.
La sinistra che non si riconosce nel Pd, non ha bisogno di un leader solitario. Ha urgenza di mettersi insieme, di qualcuno capace di prendere per mano questo mondo disorientato. Un compito che, in questa fase, non può essere assolto dal presidente Grasso, perché si tratta di riavviare tanto una riflessione teorica quanto un riassetto politico. Ora c’è bisogno di persone giovani, donne e uomini impegnati sul territorio, politicamente rodati. Ci sono, ma purtroppo concentrati a costruirsi ciascuno il suo partitino.
Nel tentativo di incontrare chi, dentro e fuori del partito democratico lavora per una svolta vera, ieri Zingaretti, il presidente del Lazio, una delle regioni che più e meglio ha retto all’arrembaggio della destra, ha invitato il Pd a considerare chiuso un ciclo storico e ad abbandonare «personalismi e settarismi», i due mali endemici della sinistra. Nel Lazio si è rivelata un’idea vincente. Naturalmente al netto di un’astensione-monstre.
Per ritrovare una luce in fondo al tunnel bisogna allenare i muscoli a una ripida e lunga salita, evitando di cadere nella trappola «molti nemici, molto onore», cioè regalando i 5Stelle alla Lega, considerandoli alla stessa stregua. Per due semplici ragioni. Perché, come rivelano i flussi elettorali, secondo l’istituto Cattaneo, in alcune città il voto pentastellato è andato al candidato leghista (nelle città toscane), mentre altrove è andato al centrosinistra (nelle città del Sud come Brindisi e Teramo). E perché significherebbe dire che oggi in Italia il 70% dei cittadini è di destra, mentre il nostro è sempre stato un paese spaccato a metà, con una larga fetta di opinione pubblica che si tira fuori, che si astiene.
Nel municipio di Roma dove ha vinto Caudo, ex assessore ai tempi di Marino (una macchia orribile, tra le varie per il Pd), erano chiamati al voto più di 160mila elettori, come a Imola o a Terni, ed è andata al seggio una risicata minoranza, l’80% è rimasto a casa. Non per scelta, per disperazione. Ma se non vogliamo farci sommergere dall’onda, è da queste piccole vittorie che si può ripartire. Dimostrano, nonostante tutto, nonostante la Vandea montante, che c’è ancora vita a sinistra.
Il manifesto 26.6.18
Toscana, la sinistra è liquefatta, sconfitta netta e diffusa
Deserto Rosso. La Lega e il centrodestra dilagano a Massa, Pisa e Siena. Nessuna formula ha aiutato il Partito Democratico a evitare la débâcle. E tra un anno ci sono le Europee. Il governatore Rossi: «Ora un partito nuovo oltre il Pd e LeU»
di Riccardo Chiari
FIRENZE Per la Toscana la rottura della linea Gotica ad opera della destra a trazione leghista chiude un’epoca lunga decenni. Con il paradosso che negli ultimi quattro anni soltanto Lucca, considerata sempre l’«isola bianca» della regione, ha visto affermarsi un centrosinistra che invece ha perso di volta in volta Livorno e Carrara per mano del M5S, e Arezzo, Grosseto e Pistoia, e ora Siena, Pisa e Massa, per mano del tripartito Lega-Fi-Fdi. Oltre a Lucca nelle mani del Pd e dei suoi alleati restano solo Firenze e Prato, dove si voterà il prossimo anno. Mentre nel 2020 toccherà alla Regione, per la quale la Lega trionfante pensa già di candidare la giovane, telegenica e rampante sindaca di Cascina, Susanna Ceccardi.
DI POCA CONSOLAZIONE per i democrat la conferma nella popolosa Campi Bisenzio, alle porte di Firenze. Mentre Pietrasanta resta al centrodestra, e a Pescia l’uscente Oreste Giurlani, ostracizzato dal Pd per il suo coinvolgimento in una inchiesta per peculato, viene ugualmente riconfermato sindaco dai suoi concittadini.
CON UNA AFFLUENZA al voto che non ha superato mai il 60% e in alcuni casi è scesa al di sotto del 50%, nessuna formula ha aiutato il Pd a superare gli avversari. A Massa la coalizione «bersaniana» con Mdp, Si e liste civiche ha portato comunque alla sconfitta il ricandidato sindaco Alessandro Volpi, abbandonato da un gruppo di centristi dem e superato nettamente da Francesco Persiani, che alla guida di una lista civica appoggiata da Lega, Fdi e Fi è arrivato al 56,7%.
A PISA NEMMENO gli apparentamenti con due liste civiche «moderate», caldeggiati dalla dirigenza toscana del partito, e l’impronta securitaria che ha contraddistinto l’amministrazione Filippeschi, sono servite a far eleggere Andrea Serfogli, sconfitto dal nuovo sindaco Michele Conti che ha preso il 52,2%. Infine Siena, dove il ricandidato sindaco Valentini si era apparentato con l’alleato-rivale Pierluigi Piccini, ex sindaco Pds-Ds in grado al primo turno di prendere il 21%. Ma neanche questo è servito per tornare in Palazzo Pubblico, dove è entrato l’avvocato Luigi De Mossi, alla testa di una lista civica con l’appoggio di Lega &c, con il 50,8%.
«SOSTANZIALMENTE una disfatta – tira le somme il presidente toscano Enrico Rossi di Leu – la sinistra si è sciolta e va ricomposta. Deve riunificarsi. Sarà necessario un lungo cammino in cui, armata di umiltà, dovrà ascoltare e mettersi a disposizione dei lavoratori, dei giovani e dei ceti popolari. Per questo bisogna andare oltre, oltre il Pd e oltre Leu, per costruire un partito nuovo della sinistra e del lavoro che si ispiri agli ideali del socialismo, e ai principi della dottrina sociale cristiana».
AL QUARTIER GENERALE toscano del Pd, retto da un direttorio con al suo interno tutte le componenti del partito, il portavoce Marco Recati ha guardato in faccia la realtà: «Una sconfitta così netta e diffusa ha una responsabilità collettiva. Occorre una svolta profonda nelle politiche locali, regionali e nella gestione del partito, ripartendo per davvero dai territori e dagli iscritti. Per questo proponiamo di tenere il 14 luglio prossimo l’assemblea regionale per capire a fondo cosa non ha funzionato nella nostra proposta politica, ed entro l’autunno il congresso toscano».
È INTERVENUTO anche Dario Nardella, sindaco di Firenze che ha provato a vedere il bicchiere non del tutto vuoto: «Si perde dove i partiti e le coalizioni sono divise, dove i candidati arrivano all’ultimo momento, e dove non si danno risposte quotidiane concrete ai cittadini. Registro invece una vittoria in tutti i comuni dell’area fiorentina, questo significa che il modello-Firenze può e deve funzionare. Qui per noi non cambia niente, continueremo a lavorare sempre di più stando in mezzo alla gente, affrontando i problemi dei cittadini come stiamo facendo, senza prestare il fianco a divisioni polemiche o fratture. Queste cose i cittadini non le sopportano più, e spero che questa volta non diano la colpa della sconfitta a Matteo Renzi».
RENZI non ha preso parte ad alcuna iniziativa pre-elettorale, lasciando il palcoscenico dei comizi finali a Maurizio Martina, Paolo Gentiloni e Walter Veltroni.
Il Fatto 26.6.18
“Un disastro”. Lo choc nell’ex Toscana rossa. E tra un anno si vota in Regione e a Firenze
Tre a zero - Cadono Siena, Pisa e Massa: tutti e tre i capoluoghi vanno verso destra
di Davide Vecchi
Un disastro. È lapidario Enrico Rossi sull’esito dei ballottaggi per il Pd. Lui guida la Regione Toscana, quella un tempo rossa e oggi un po’ di tutti. E tra un anno qui si vota per le regionali e per il Comune di Firenze, dove il sindaco Dario Nardella, difficilmente potrà tentare la riconferma e infatti scalpita per avere un posto in lista alle prossime Europee. “Ce la giocheremo ma è un disastro”, dice Rossi.
Ieri son caduti feudi pesanti: Siena, Pisa, Massa. In tutti i tre ballottaggi i candidati di centrosinistra sono usciti sconfitti. E il bilancio finale di questa tornata amministrativa vede i dem alla guida di appena 3 su 11 capoluoghi. Il risultato della città del Palio è forse il più sorprendente. Qui dove il Pci e i suoi eredi non hanno mai perso nella storia repubblicana, oggi diventa sindaco un uomo che non solo è sempre stato distante anni luce dalla sinistra ma dalla politica in genere: l’avvocato Luigi De Mossi che con uno scarto di appena 400 voti ha sconfitto il primo cittadino uscente, Bruno Valentini, espressione stanca di un Pd inesistente.
De Mossi ha corso con una lista civica e ha fatto campagna elettorale senza mai lasciare la toga e soprattutto senza legarsi o affidarsi ad alcun partito politico. Fino al 4 marzo. Quando si sono definiti gli schieramenti. La sconfitta delle urne ha spinto Matteo Renzi ad accettare (per mancanza di alternative) Valentini come proprio candidato, così il centrodestra ha deciso di appoggiare De Mossi. Al primo turno Valentini è uscito in vantaggio e pochi avrebbero scommesso su una sua sconfitta. Poi, nelle ultime due settimane, è successo l’incredibile.
Il sindaco uscente ha stretto un accordo con un altro candidato sconfitto da De Mossi e soprattutto già primo cittadino di Siena fino al 2001, negli anni d’oro di Mps: Pierluigi Piccini. L’accoppiata non è piaciuta. E soprattutto non è piaciuto il tentativo fatto dal duo di far passare De Mossi come amico di Giuseppe Mussari, indicato come responsabile principale del disastro del Monte dei Paschi, seppur finora assolto nei procedimenti giudiziari: ne manca solamente uno, a Milano. Alle accuse De Mossi ha potuto rispondere limitandosi a una risata: da oltre venti anni, infatti, è uno dei pochi avvocati della città a cui chi ha avuto problemi con la banca poteva rivolgersi.
E poi bastava guardare l’accoppiata sinistra: Piccini nel 2001, lasciato il Comune, è stato nominato a capo di Mps Francia, incarico dorato che ha ricoperto fino al 2015; mentre Valentini è stato eletto nel 2013 e, a dire di Matteo Renzi, gli inviò un sms per chiedergli come procedere per le nomine in Fondazione. Certo è che, archiviato il centrosinistra, ora Siena è nelle mani del centrodestra. De Mossi garantisce di no, che non si lascerà imporre gli uomini, e sottolinea la scelta di “non aver fatto apparentamenti così da poter dialogare con tutti”, ma è indubbio che l’oggi ministro dell’Interno e segretario della Lega, Matteo Salvini, ha dato un contributo importante alla sua vittoria quindi la presenza del Carroccio ci sarà e sarà massiccia.
A Pisa, invece, a vincere è stato un uomo espressione del centrodestra: Michele Conti che ha battuto col 52,29% il candidato di centrosinistra, Andrea Serfogli, fermo al 47,7%. Ed è lo stesso Conti a rivendicare la sua appartenenza: “Non è la vittoria della Lega ma di tutto il centrodestra. Salvini ci ha dato una mano, ma è la vittoria di tante persone che in questi anni hanno sfidato il granitico Pd”.
Anche a Massa si festeggia e colpisce più la sconfitta del Pd che la compagine dei vincitori. Qui alla guida del Comune arriva Francesco Persiani che espugna il municipio conquistando il 56,62% delle preferenze lasciando il sindaco uscente del Pd, Alessandro Volpi, al 43,38%. Gli occhi ora sono puntati alle prossime regionali e a Palazzo Vecchio.
Il manifesto 26.6.18
A Terni piovono pietre sulla sinistra scomparsa
Amministrative 2018. Vittoria clamorosa della Lega con Leonardo Latini in tutti i quartieri e ceti sociali. La città umbra come Youngstown in Ohio. Per il centrosinistra addio a Spoleto e Umbertide
di Marco Venanzi
TERNI A Terni la sfida del ballottaggio si è conclusa con la vittoria netta (63,42% dei votanti) del leghista Leonardo Latini sostenuto, oltre che dal suo partito, da tutto il Centrodestra. Thomas De Luca e il M5s (che si è fermato al 36,58%) escono sconfitti dopo quattro anni di dura opposizione alla giunta di sinistra di Leopoldo Di Girolamo, rappresentando pienamente a livello locale l’andamento nazionale che ha visto la Lega divorare non soltanto i compagni di viaggio del Centrodestra ma anche il movimento grillino.
GLI SCIENZIATI della politica umbri si arrovelleranno a lungo sui dati dell’affluenza, sulle preferenze, sui voti dei partiti e dei singoli: a caldo possiamo dire che il Centrodestra e la Lega hanno conseguito una vittoria netta e diffusa in tutti i quartieri e in tutti gruppi sociali cittadini. La Lega nazionale ha dilagato tra i ceti popolari candidando volti vecchi e nuovi. Da questo punto di vista l’aspetto che colpisce è il consigliere più votato tra tutti i candidati (sia di destra sia di sinistra): Emanuele Fiorini (1.018 preferenze), un quarantenne ex operaio delle Acciaierie dell’Ast eletto tra le file della Lega. Possiamo dire che a Terni – che resta nonostante la crisi e la deindustrializzazione un polo industriale di livello europeo e una città a forte caratterizzazione operaia – un appartenente ai mondi operai, un lavoratore è ancora una volta presente in Consiglio comunale.
L’OSSIMORO È che sia stata la Lega, e non il Pd o un’altra forza di sinistra, a eleggere un lavoratore. È evidente che non essere più riusciti a parlare ai ceti popolari ternani ha portato al disastro della sinistra. La Lega ha intercettato le aspettative di cittadini prostrati dalla crisi, precarizzati dal Jobs act, disoccupati per la chiusura delle imprese che hanno delocalizzato o fallito, impauriti da un mondo che sembra ormai incomprensibile. I leghisti hanno interpretato in chiave nazionale parole che un tempo erano della sinistra e si sono proposti come difensori del popolo sia sui social network sia in modi più tradizionali (incontri con i cittadini promossi in ogni angolo della città ai quali ha partecipato sempre molta gente).
COLPISCE il sostanziale silenzio del Pd ternano e umbro: tranne qualche coraggioso dirigente locale non ci sono stati in questi giorni commenti significativi su quanto sta avvenendo a livello locale e nazionale. Anche il resto della sinistra non è riuscita a esprimere valutazioni mentre il mondo liberale è stato cannibalizzato dalla Lega e silenziato. Gli unici sul piede di guerra sono i cattolici democratici, i preti e il mondo legato alla Caritas che, pur attaccando Salvini sui temi dell’immigrazione, del razzismo e della visione culturale generale della società, storicamente a Terni sono una minoranza e non riescono a incidere sulla vita politica.
IL MOVIMENTO sindacale è spaccato con la Cisl, da un lato, che giudicherà l’amministrazione dai fatti e la Cgil, dall’altro lato, che sta combattendo una battaglia politica culturale a difesa degli ultimi, dei diritti e della Costituzione. L’impressione è che da parte della sinistra non ci sia più capacità di reazione. Oltre a Terni il centrosinistra ha perso anche Spoleto e Umbertide ed è all’opposizione ormai da anni a Perugia: l’Umbria rossa non esiste più.
TERNI ASSOMIGLIA a Youngstown, la città statunitense in Ohio, una delle grandi protagoniste della rivoluzione industriale mondiale e luogo simbolo dello sviluppo economico americano che insieme a Cleveland, Detroit, Flint, e Buffalo costituiscono oggi la Rust Belt da decenni in crisi economica, sociale e demografica. Negli anni Ottanta del Novecento a Youngstown la deindustrializzazione è stata repentina. La Rust Belt, del resto, un tempo il cuore pulsante del movimento operaio, progressista e democratico americano, è ormai un’area marginale caratterizzata da impoverimento e discriminazione: qui la gente che nel 2008 ha votato per Obama, nel 2017 ha scelto Trump che si è presentato come il paladino della causa dei disoccupati statunitensi contro un mondo globalizzato incomprensibile.
È CORRETTO comparare realtà urbane così lontane? Sta di fatto che da domenica a Terni per dirla con Ken Loach «piovono pietre».
Il manifesto 26.6.18
«Era nell’aria, nelle ex roccaforti partito arrogante e sordo da anni»
Sindacato e Fu Triangolo Rosso. I segretari Cgil della Toscana, di Terni e di Imola: 'Le cause? Arroganza, supponenza, mancato ascolto dei cittadini'
di Massimo Franchi
Il sismografo della Cgil funziona ancora. Il terremoto dei ballottaggi nell’ex triangolo rosso Romagna – Toscana – Umbria era ampiamente atteso da chi guida il sindacato sul territorio. «Si sentiva nell’aria», «di rosso ormai c’è rimasto molto poco», «è il proseguimento dei risultati degli ultimi anni».
Le differenze territoriali e di contesto svaniscono davanti al tratto comune di chi governava: «Arroganza, supponenza», «lontananza dai cittadini», «poco interesse per il lavoro e le disuguaglianze» sono le caratteristiche delle amministrazioni Pd nelle roccaforti espugnate di Pisa, Massa, Siena, Terni e Imola.
E l’accusa che gli iscritti Cgil siano ormai in larga parte elettori del M5s – una ricerca interna parlava del 33 cento rispetto, la stessa percentuale nazionale – è smentita dai fatti: Imola a parte, le città del triangolo sono passate tutte al centrodestra. «Purtroppo la regione va tutta da una parte e se una volta Lucca era la perla bianca, oggi – escluso il giglio magico renziano attorno Firenze – è l’unica provincia rimasta al centrosinistra», osserva Dalida Angelini, segretaria regionale dal 2015.
«Da noi ha pesato tantissimo la cattiva amministrazione e già alle politiche la destra si era presa tutti i collegi uninominali», ricorda Attilio Romanelli, segretario della camera del lavoro di Terni. «La sensazione di abbandono tra lavoratori e pensionati era fortissima, la cosa sconvolgente è che la sinistra non abbia saputo cogliere quanto fossero scontenti i cittadini», sottolinea Mirella Collina, neo segretaria a Imola dove la Cgil ha 22mila iscritti nel circondario che proprio in vista delle elezioni ha organizzato «un confronto fra tutti i candidati sindaci: nelle risposte non si percepivano più tanto differenze fra quanto diceva la candidata civica del Pd e quella del M5s» che poi ha vinto.
A Terni il consigliere più votato è un ex dipendente delle acciaierie che si è presentato con la Lega. «Emanuele Fiorini si è preso la buonauscita nel 2014 e si è candidato alla Regione. Non è mai stato un delegato anche se sembra sia stato iscritto alla Fim Cisl. Portare lui come esempio del passaggio alle Lega degli operai è fuorviante», spiega Romanelli. «Nelle elezioni Rsu la partecipazione è molto più alta che a politiche e amministrative e noi come Cgil aumentiamo i consensi». «Fra i nostri iscritti il sentimento prevalente è il sentirsi lontani e non rappresentati dalla politica: chi vota Lega è una esigua minoranza, la maggior parte non vota più», analizza Angelini.
In questo quadro desolante la mancanza di un’amministrazione di sinistra per i segretari Cgil del territorio non è percepita come «un problema». «Se, con tutte le nostre difficoltà, riusciamo a tenere è grazie alla grande autonomia che abbiamo dimostrato in questi anni», spiega Angelini. «In prospettiva l’opposizione a livello governativo da parte del Pd sarà la difesa del Jobs act e quindi da paradossalmente sarà di destra». Esattamente l’opposto di quello che servirebbe: «Una rifondazione di un’idea di sinistra che parta dalla lotta al razzismo e dai temi del lavoro e della lotta alle diseguaglianze».
La Stampa 26.6.18
La vita non è sacra
di Stefano Feltri
Tutti da giovani abbiamo pensato che quelli prima di noi ci avessero lasciato un mondo schifoso. Poi c’è chi è cresciuto e chi no, ed è restato a vent’anni e ha continuato a dire che gli avevano rubato il futuro, o roba del genere. Qualcuno ha saggiamente ricordato ai ragazzi impegnati con la maturità, i ragazzi del ’99, che i loro coetanei di cento anni prima furono spediti sul Carso o sul Piave ad ammazzare e a essere ammazzati. A proposito di furto del futuro. Avevano quattordici anni quando nel 1913 Giovanni Papini (un gigante, tuttavia) scrisse sulla Lacerba che «la vita non è sacra». Molti la pensavano così, e si andò al macello. Invece Nausicaa accolse Ulisse, un misero naufrago, perché «vengon tutti da Zeus, gli ospiti e i poveri». Era un naufrago Ulisse, lo era Perseo, lo erano Romolo e Remo, salvati perché la vita è sacra. E dal naufragio nascono le nostre civiltà. Ma tutto questo è inutile, è elitario, buonista, e non c’è un naufrago solo, ce ne sono centinaia ogni giorno. È un’emergenza e davanti all’emergenza si cede all’eccezione. Due navi hanno aspettato per giorni con il loro carico di naufraghi, 230 sulla Lifeline, una nave di una organizzazione non governativa ancora al largo, e 108 sulla Maersk, un cargo danese attraccato ieri notte. Al di là della raggelante disputa politica continentale, la storia della Maersk è abnorme: viaggiava per le sue rotte commerciali, si è imbattuta in questi poveracci, li ha salvati ma poi nessuno voleva che li sbarcasse. Soltanto per dire ai ragazzi del ’99 che gli è toccata in sorte un’altra epoca - una delle tante - in cui la vita non è più sacra.
Repubblica 26.6.18
La volontaria della SeeFuchs “Abbiamo ubbidito agli ordini e visto sparire 120 migranti”
di Caterina Pasolini
ROMA «Ho ancora gli incubi e i sensi di colpa per quella notte. Quando 120 persone su un gommone sono probabilmente morte annegate avendo la salvezza vicina, dopo aver attraversato deserti e violenze. C’era infatti una nave mercantile che pur sapendo non si è mossa, c’eravamo noi della SeeFuchs, ma il coordinamento della capitaneria italiana a Roma non ci ha dato ordine di andare in soccorso. E noi abbiamo ubbidito, sbagliando. La mattina dopo un giubbotto galleggiante era l’unica cosa rimasta in mare».
Giulia Bertoni, 25 anni di Cesena è dottoranda alla Columbia University. Dopo esperienze tra i migranti nell’inferno di Calais, col fidanzato Peter dal 15 giugno era sulla piccola nave della ong tedesca Sea Eye addetta a ricerca e salvataggio dei migranti tra Libia e Malta. Tredici volontari, studenti, medici in pensione.
Cosa è accaduto?
«La notte del 18 ero di vedetta, turni di quattro ore sul ponte della barca, al radar a controllare il mare sempre più mosso. Il nostro segnale Ais ( Sistema automatico di tracciamento) non funzionava, nessuno poteva identificare la nostra posizione. Ad un tratto abbiamo sentito sul canale delle emergenze la conversazione fra un aereo che segnalava a 11 miglia un gommone con 120 persone e una nave mercantile vicina disponibile ad aiutare. Dopo vari scambi in realtà nessuno si è mosso in soccorso di quei disperati al buio con le onde che crescevano. Allora abbiamo deciso di chiamare il coordinamento a Roma».
Cosa vi hanno risposto?
«In sintesi: non ci riguarda chiamate la capitaneria libica. E noi, per rispettare il codice di condotta che obbliga a non superare 24 miglia dalla Libia a meno che non ci sia un ordine, ci siamo allontanati, non abbiamo soccorso il gommone in difficoltà».
Non avete chiamato i libici?
«Il capitano non ha voluto. Non so perché».
E i migranti?
«Quella notte la Lifeline, più grande di noi che ci occupiamo di primo soccorso, era molto lontana. La mattina è arrivata in zona e abbiamo pattugliato le acque dove avrebbe dovuto essere il gommone, rimanendo nei limiti. Di quelle persone nessun segno. Morte probabilmente, annegate mentre noi, e tutti stavano fermi. Della guardia costiera libica mai visto traccia».
Si sente colpevole?
«Io, noi, avremmo dovuto disubbidire al capitano, al direttore della ong che ci ha ordinato di allontanarci. Ci dovrebbero arrestare per aver ubbidito, per averli lasciati morire. Se volete arrestarci, arrestateci per questo. È come se dei pompieri si fermassero al semaforo di fonte ad una casa in fiamme. Se fossimo stati dei privati, la legge del mare ci avrebbe obbligato a soccorrere».
E a chi vi dice che fate il gioco di trafficanti?
«Risponderei che è falso, che questa menzogna costa vite ogni giorno. Da quando hanno fermato le navi delle ong, che si muovono su direttive delle capitanerie, le barche dalla Libia continuano a partire e i migranti a morire. La soluzione non è bloccare le navi delle ong, deve essere una soluzione politica»
L’Europa è razzista?
«Sono sicura che se ci fossero stati 100 tedeschi o italiani a bordo nessuno avrebbe dato o accettato questi ordini. E invece quel gommone è stato lasciato affondare. Con a bordo 120 persone che sono annegate e che vorrei ricordare».
Il manifesto 26.6.18
Neocolonialismo e «crisi dei migranti»
In un paese in cui circa la metà della popolazione vive in povertà, è aumentata la massa di coloro che cercano di entrare negli Stati uniti. Da qui il Muro lungo il confine col Messico, iniziato dal presidente democratico Bill Clinton quando nel 1994 è entrato in vigore il Nafta, proseguito dal repubblicano George W. Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vorrebbe ora completare su tutti i 3000 km di confine
di Manlio Dinucci
Dagli Stati uniti all’Europa, la «crisi dei migranti» suscita accese polemiche interne e internazionali sulle politiche da adottare riguardo ai flussi migratori. Ovunque però essi vengono rappresentati secondo un cliché che capovolge la realtà: quello dei «paesi ricchi» che sarebbero costretti a subire la crescente pressione migratoria dai «paesi poveri».
Si nasconde la causa di fondo: il sistema economico che nel mondo permette a una ristretta minoranza di accumulare ricchezza a spese della crescente maggioranza, impoverendola e provocando così l’emigrazione forzata. Riguardo ai flussi migratori verso gli Stati uniti, è attualissimo ed emblematico il caso del Messico.
La sua produzione agricola è crollata quando, con il Nafta (l’accordo nordamericano di «libero» commercio), Usa e Canada hanno inondato il mercato messicano con prodotti agricoli a basso prezzo grazie alle proprie sovvenzioni statali.
Milioni di contadini sono rimasti senza lavoro, ingrossando il bacino di manodopera reclutata nelle maquiladoras: migliaia di stabilimenti industriali lungo la linea di confine in territorio messicano, posseduti o controllati per lo più da società statunitensi, nei quali i salari sono molto bassi e i diritti sindacali inesistenti.
In un paese in cui circa la metà della popolazione vive in povertà, è aumentata la massa di coloro che cercano di entrare negli Stati uniti. Da qui il Muro lungo il confine col Messico, iniziato dal presidente democratico Bill Clinton quando nel 1994 è entrato in vigore il Nafta, proseguito dal repubblicano George W. Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vorrebbe ora completare su tutti i 3000 km di confine.
Riguardo ai flussi migratori verso l’Europa, è emblematico il caso dell’Africa. Essa è ricchissima di materie prime: oro, platino, diamanti, uranio, coltan, rame, petrolio, gas naturale, legname pregiato, cacao, caffè e molte altre. Queste risorse, sfruttate dal vecchio colonialismo europeo con metodi di tipo schiavistico, vengono oggi sfruttate dal neocolonialismo europeo facendo leva su élite africane al potere, manodopera locale a basso costo e controllo dei mercati interni e internazionali. Oltre cento compagnie quotate alla Borsa di Londra, britanniche e altre, sfruttano in 37 paesi dell’Africa subsahariana risorse minerarie del valore di oltre 1000 miliardi di dollari.
La Francia controlla il sistema monetario di 14 ex colonie africane attraverso il Franco CFA (in origine acronimo di «Colonie Francesi d’Africa», riciclato in «Comunità Finanziaria Africana»): per mantenere la parità con l’euro, i 14 paesi africani devono versare al Tesoro francese metà delle loro riserve valutarie.
Lo Stato libico, che voleva creare una moneta africana autonoma, è stato demolito con la guerra nel 2011. In Costa d’Avorio (area CFA), società francesi controllano il grosso della commercializzazione del cacao, di cui il paese è primo produttore mondiale: ai piccoli coltivatori resta appena il 5% del valore del prodotto finale, tanto che la maggior parte vive in povertà. Questi sono solo alcuni esempi dello sfruttamento neocoloniale del continente. L’Africa, presentata come dipendente dall’aiuto estero, fornisce all’estero un pagamento netto annuo di circa 58 miliardi di dollari. Le conseguenze sociali sono devastanti.
Nell’Africa subsahariana, la cui popolazione supera il miliardo ed è composta per il 60% da bambini e giovani di età compresa tra 0 e 24 anni, circa i due terzi degli abitanti vivono in povertà e, tra questi, circa il 40% – cioè 400 milioni – in condizioni di povertà estrema. La «crisi dei migranti» è in realtà la crisi di un sistema economico e sociale insostenibile.
Il Fatto 26.6.18
“Altro che blocco navale, servono le quote per i migranti economici”
La giornalista mette in guardia sulla linea dura nello stop agli sbarchi: “Se nel braccio di ferro muoiono 300 persone, che si fa?”
di Stefano Feltri
Milena Gabanelli, un anno fa lei suggeriva la provocazione di sbarcare i profughi anche a Nizza e Malta per costringere gli altri Paesi Ue a farsi carico dell’emergenza. Salvini sembra averla presa in parola.
Io suggerivo una cosa molto diversa, ovvero alle Ong stesse di fare un gesto dimostrativo per rimettere la questione sul tavolo di Bruxelles, in un periodo in cui in Sicilia ci sono stati fino a 8000 sbarchi in tre giorni, nella totale indifferenza dell’Europa. Nell’ultimo anno i numeri sono completamente cambiati e Salvini ha chiuso i porti all’Aquarius il giorno delle amministrative.
Cosa pensa del nuovo governo spagnolo che ha accolto la Aquarius?
È un governo di sinistra, e non poteva non fare questo gesto a sette giorni dal suo insediamento, se non altro per dare un segnale di cambiamento rispetto a Rajoy. Salvini ha fatto un azzardo e gli è andata bene. E infatti Sánchez nell’intervista di domenica a El País dichiara che l’Italia è egoista, antieuropea e deve essere punita. Mette le mani avanti …forse non intende accettare altri sbarchi.
La linea di Salvini sembra la seguente: navi militari Ue contro gli scafisti vicino alle coste europee e niente Ong vicino alla Libia, così da dividere in due il Mediterraneo. La parte dove gli scafisti rischiano l’arresto e quella dove rischiano di far affondare le navi con i propri “clienti” senza soccorsi.
È difficile giustificare l’invio di 20 navi visto l’esiguo numero di arrivi; si rischia invece di sfasciare quello che è stato faticosamente costruito con la Libia per il controllo della costa e delle frontiere interne. È lì che bisogna mettere finanziamenti per stabilizzare il fenomeno e tagliare le gambe ai trafficanti. Da quattro giorni c’è un mercantile al largo di Pozzallo con 110 migranti, e non sono autorizzati a sbarcare. Quel mercantile sta perdendo migliaia di dollari al giorno, ed è probabile che la compagnia abbia comunicato al suo comandante: “Quando vedi un gommone girati dall’altra parte”. Inoltre la nostra guardia costiera non coordinerà più i soccorsi a ridosso delle acque costiere libiche. Sono fenomeni epocali da maneggiare con cura: devi fermare le navi alla prima violazione del codice di condotta, senza prendere delle decisioni che non sai dove ti portano. Se nel braccio di ferro, muoiono 300 persone, che fai? I rischi si corrono quando la situazione è fuori controlllo, oggi non lo è.
Il governo sembra intenzionato a fare tagli lineari alla spesa per l’accoglienza, così da ridurre i famosi 35 euro al giorno che lo Stato rimborsa per la gestione di ogni migrante. È d’accordo?
Il tema non sono i 35 euro, ma come vengono spesi i 3,5 miliardi (diventati 5 perché sono fuori dal patto di stabilità). Potremmo utilizzare spazi pubblici invece di pagare affitti ai privati, e mettere in piedi un piano di accoglienza con personale dedicato, per accorciare i tempi di identificazione e creare i presupposti per una vera integrazione. Potremmo anche farci dare più soldi da Bruxelles, a fronte di un progetto strutturato. Se invece l’idea è quella di lasciare le cose come stanno e ridurre semplicemente la spesa, ci troveremo i parcheggi pieni di mendicanti.
L’Italia continua a chiedere i ricollocamenti dei richiedenti asilo ma non avvengono e ci alleiamo con i Paesi, come quelli del gruppo di Visegrád, che si oppongono.
È un’alleanza difficile da capire: noi abbiamo interesse alla ricollocazione, mentre il gruppo di Visegrád no. L’Austria schiera i carri armati al confine per fare i respingimenti verso l’Italia, eppure Salvini si allea con l’Austria. Più che a pensare a come risolvere la questione credo che abbia in testa le elezioni europee, e questa alleanza serve a capitalizzare sentimenti antieuropei che mirano a far saltare la struttura sovranazionale. Un gigantesco gioco di specchi.
La crisi politica che rischia di far cadere il governo tedesco è innescata dalla richiesta del ministro dell’Interno Seehofer di poter respingere in Italia e Grecia chi è sbarcato in Italia e Grecia ed è richiedente asilo. Dobbiamo essere il campo d’accoglienza di tutta Europa?
Credo che nessuno sappia come andrà a finire. Francia e Germania hanno responsabilità enormi, ma seguire l’Ungheria, dove è stata abolita di fatto la libertà di stampa, non credo sia conveniente per l’Italia sul piano della democrazia. Il tema sono gli accordi di Dublino da rivedere: su questo dobbiamo dare battaglia.
Si parla di costruire hotspot nei Paesi di partenza dei migranti o in quelli di transito. La convince l’idea? Ci sarebbero problemi di sicurezza per chi gestisce l’hotspot, per esempio in Libia, e chi non riesce a partire per vie legali proverebbe comunque la via del barcone.
Costruire centri in zone “sicure” nei Paesi d’origine mi convince di più che nei Paesi di transito, come la Libia, ma vale anche per Egitto e Tunisia, proprio per queste ragioni.
Ha ancora senso pensare che ricostruire la sovranità della Libia sia la via più rapida a creare un “tappo” che impedisca le partenze ?
Penso di si, non tanto per creare “un tappo”, ma perché dalla stabilizzazione della Libia abbiamo solo da guadagnare.
Alla strategia dell’ex ministro Minniti sono mancati due aspetti pur annunciati: assicurarsi il rispetto dei diritti umani nei Paesi partner, come la Libia, e creare una via d’accesso legale all’Italia a fronte del blocco di quella illegale. Che consigli darebbe a Salvini su questo?
Credo che sarebbe più proficuo per Salvini continuare nell’operazione iniziata dal suo predecessore. Con tutte le criticità del caso, stava dando risultati e mi sembra l’alternativa più pragmatica. Stabilizzare la Libia permette anche alle agenzie internazionali di esercitare un controllo, oggi impossibile perché è un terreno pericoloso, tant’è che stanno tutte in Tunisia.
I Cinque Stelle sembrano sospesi tra la tentazione di inseguire Salvini e quella di presentarsi come il bilanciamento moderato nella maggioranza. Che consigli darebbe a Di Maio e soci?
Reimpostare il piano di accoglienza, battersi sugli accordi di Dublino, introdurre il tema delle quote per i migranti economici, in modo che possano partire in sicurezza, e regolarizzare chi è già sul nostro territorio. È più utile, e meno costoso. Noi abbiamo bisogno di mano d’opera, anche stagionale, ed oggi è quasi tutta clandestina e sottopagata, con il rischio di dumping sociale. Insomma, cercare di “spegnere” un’emergenza strumentalizzata in chiave antieuropeista, e fare squadra a Bruxelles, in modo meno ipocrita, sullo sviluppo dell’Africa. Alla Turchia abbiamo già versato 3 miliardi e altri 3 li metteremo cash al prossimo vertice. Sull’Africa l’Europa ha messo 240 milioni. L’Italia ne ha versati 50, la Germania 80 e la Francia 9, solo “nove”. Finora in Africa abbiamo sostenuto classi dirigenti corrotte. L’Europa intera diventerà una polveriera se non si capisce in fretta che lo sviluppo del continente africano è l’unica strada percorribile.
Repubblica 26.6.18
Il futuro sul confine
di Nadia Urbinati
Saranno le frontiere a decidere il futuro dell’Europa, come sempre. Come quando le frontiere tra gli Stati del Vecchio continente erano oggetto di contenzioso, luoghi di attraversamento di eserciti, trincee di guerra. Fino alla Seconda guerra mondiale, le frontiere interne erano il problema. Da allora, la volontà di Unione e i numerosi trattati che l’hanno concretizzata hanno risolto il problema della pace tra gli Stati, creando uno spazio comune di norme, cultura e scambi. Oggi, il problema che grava sui popoli europei viene dalle frontiere verso l’esterno, soprattutto l’Africa e il Medio Oriente, terre dalle quali per ragioni di guerre civili e povertà radicale gli esseri umani scappano per cercare legittimamente di sopravvivere. L’immigrazione è avvertita come un problema perché ad essa non si intravede una possibile soluzione: i dannati della Terra si muoveranno comunque, e né i deserti né gli oceani li fermeranno. La loro impossibilità di vita è il problema da risolvere. Ma per comprendere questo occorre, almeno, che il continente europeo si consideri come un’unione di intenti, che sappia e voglia affrontare il problema dell’esternalità come un soggetto politico.
I confini europei sono un problema prima di tutto perché non sono a tutti gli effetti confini di un’Unione europea. E la strada percorribile non è quella degli accordi bilaterali, dettata da ragioni nazionaliste e anti- europeiste. All’origine dell’empasse di oggi, infatti, c’è proprio la non esistenza di un governo politico europeo. Un problema che si aggiunge a quello dei gommoni costruiti per affondare nelle acque internazionali del Mediterraneo. Le frontiere sono tali in relazione a un attore politico che le riconosca e le governi; e sono la condizione a partire dalle quali l’Europa può essere in grado di intraprendere politiche internazionali e di cooperazione economica con i continenti e i Paesi terzi. Il fatto è che, in questo momento, sono i singoli Stati gli attori protagonisti; l’Ue non ha leader ed è come sbriciolata.
La premonizione di questa frantumazione è che al problema dei confini verso l’esterno si aggiungeranno molto presto e prevedibilmente i problemi causati dai confini interni, quelli tra i Paesi europei. Il nazionalismo montante ovunque, anche nel Nord Europa, è un segno preoccupante di questa situazione radicale. Paradossale. Poiché più i governi e le opinioni nazionali si orienteranno verso il nazionalismo, più l’inimicizia fra gli Stati si farà intrattabile. Il nazionalista Salvini non ha nell’Austria nazionalista un alleato, ma un nemico. E il paradosso è che Salvini non può chiedere e pretendere solidarietà dagli altri Paesi europei, se essi sono come il suo governo interessati solo all’interesse dei propri connazionali. Siccome l’interesse dei nazionalisti è autistico e autarchico non può che incontrare porte chiuse e ostilità. Orbán sarebbe nemico di Salvini se l’Ungheria confinasse con l’Italia; e Le Pen sarebbe non meno nemica di Salvini se governasse al posto di Macron. Tra nazionalisti non ci può essere cooperazione. Ecco l’ossimoro in cui si arrovella il Vecchio continente: i governi e i partiti nazionalisti dicono di volere un’Europa a loro immagine e somiglianza ma non possono averla perché il nazionalismo che predicano e praticano è respingente. È un cul- de- sac irrisolvibile. Il non avere costruito una politica comune delle frontiere europee e verso i continenti e i Paesi terzi, è stata una scelta non solo poco saggia ma sbagliata; quel che è più grave è che si tratta di un errore impossibile da rimediare con gli attuali protagonisti dei summit europei. Con un Salvini o un Orbán o un Kurz ( e con il nazionalismo montante in Germania e nel Nord Europa) non ci sono le condizioni per una politica comune sulle frontiere: questa è la ragione della gravità del momento.
Il Fatto 26.6.18
Roberti: “La scorta all’ex pm Ingroia non andava tolta”
Minacce - L’ex capo della Procura antimafia avverte: “Le sentenze di morte pronunciate da Cosa Nostra restano valide. E anche Saviano va protetto”
di Gianni Barbacetto
Franco Roberti di scorte se ne intende, per averle avute, quand’era magistrato a Napoli e poi procuratore nazionale antimafia a Roma. “La scorta ad Antonio Ingroia io non l’avrei tolta”, dice. “E quella a Roberto Saviano non penso debba neppure essere messa in discussione”.
Ma invece ad Antonio Ingroia è stato sospeso il servizio di tutela, dopo 27 anni di indagini antimafia e di minacce pesanti da parte di Cosa nostra. E proprio due settimane dopo la sentenza di condanna al processo per la trattativa Stato-mafia, che era nato sul suo impulso iniziale.
Io vorrei fare un discorso generale, astraendomi dai casi concreti: la valutazione se dare o no una scorta deve essere sempre fatta sulla base di criteri oggettivi, valutando se una persona è in pericolo, per le sue attività passate o per quelle che fa nel presente. Un altro criterio oggettivo è quello delle forze che si hanno a disposizione per fornire le tutele. Comunque sia, dev’essere sempre una valutazione squisitamente tecnica.
La scorta a Ingroia è stata tolta quando ministro dell’Interno era Marco Minniti, con il governo di Paolo Gentiloni. La situazione poi non è cambiata con l’arrivo al Viminale del nuovo ministro, Matteo Salvini.
Non è compito del ministro decidere a chi dare o togliere la protezione. La scelta, ripeto, dev’essere puramente tecnica e viene presa dal capo della polizia e dai prefetti, l’organismo che le valuta è l’Ucis, l’ufficio centrale interforze per la sicurezza personale. Io sono stato consulente del ministro Minniti e so che la decisione è stata delle strutture del ministero.
Ma è mai possibile che il ministro non dia un impulso politico alle scelte burocratiche del suo ministero?
Non lo dà e non lo deve dare, guai se le valutazioni politiche entrano in decisioni così delicate. Sarebbe un’interferenza. Io non avrei revocato la tutela a Ingroia, conoscendo il suo lavoro in tanti anni da magistrato e anche il suo impegno presente come avvocato difensore in processi antimafia. So che le sentenze di morte pronunciate dalla mafia non sono mai revocate. E gli avrei mantenuto una protezione efficace, non una tutela nominale come quella che gli hanno assegnato ora. Ma evidentemente le strutture tecniche hanno deciso diversamente. Se fossi stato ancora un magistrato antimafia in attività sarei intervenuto a dire la mia, ma quando è successo ero già in pensione, consulente del ministro Minniti, ma non su questa materia. Così ho rispettato la decisione del comitato. Non so se poi chi ha sollevato il caso abbia fatto bene a Ingroia: temo lo abbia sovraesposto.
Il ministro Salvini ha criticato duramente le prese di posizione di Saviano, concludendo che avrebbe valutato se davvero lo scrittore avesse bisogno di una scorta. Non le sembra una minaccia o una rappresaglia?
Ognuno è responsabile delle proprie dichiarazioni, specie se le fa a raffica ogni giorno e su tutti i temi dello scibile umano. Non mi metto a commentare le dichiarazioni di Salvini. Credo che chi non ha competenza su questo argomento dovrebbe evitare di parlarne.
Lei ora è diventato assessore della giunta di Enzo De Luca alla Regione Campania. Qualcuno l’ha criticata per questa scelta, visto il personaggio De Luca, le sue dichiarazioni, il suo stile politico, le inchieste in cui è stato coinvolto.
Avevo messo nel conto le polemiche. Ma io ho dedicato tutta la mia vita al servizio delle istituzioni. Ho fatto il magistrato a Napoli e poi il procuratore nazionale antimafia. Sono stato messo in pensione, anticipatamente, per decreto del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Avendo ancora energie, ho pensato di poter mettere ancora a disposizione le mie competenze rendendomi utile in altre istituzioni. Così ho accettato di diventare assessore alla sicurezza e alle politiche della legalità della Regione Campania. Io lavoro per l’istituzione Regione, non per De Luca. Lui risponde di quello che dice e che fa, io rispondo di quello che dico e che faccio io.
Il manifesto 26.6.18
Anche in Slovenia avanza la destra populista
Europa. Oggi al voto per il rinnovo del parlamento. In testa ai sondaggi il partito di destra anti-migranti Sds guidato da Janez Jansa
di Carlo Lania
La piccola Slovenia si prepara a rafforzare il fronte dei populisti europei. Con poco più di due milioni di abitanti, un’economia che può vantare un segno positivo anche grazie ai fondi ricevuti da Bruxelles, questo Stato dell’Europa centrale entrato 14 anni fa a far parte dell’Unione europea si reca oggi alle urne per eleggere il nuovo parlamento e tutto lascia pensare che anche a Lubiana, come già in altre capitali europee, si registrerà un trionfo di formazioni antimigranti e antieuropee.
I sondaggi danno infatti in testa il Partito democratico sloveno (Sds) di Janez Jansa, leader della formazione di destra e nuovo possibile premier, sempre che trovi qualcuno disposto ad allearsi con lui. Se le previsioni della vigilia saranno confermate, l’Sds potrà contare tra il 22,9% e il 26,1% dei voti, percentuali raggiunte soprattutto soffiando in campagna elettorale sulla paura che il paese possa trovarsi a dover fare i conti con una nuova crisi dei migranti, anche se certamente non uguale a quella del 2015, quando la Slovenia venne attraversata da centinaia di migliaia di profughi diretti a nord. Seconda, dopo l’Sds, sarebbe Lms, lista civica accreditata del 13% mentre i socialdemocratici di Sd otterrebbero il 12% e l’8% andrebbe all’altro partito di destra Nuova Slovenia (Nsi). Il partito dei pensionati Desus e Levica (Sinistra unita) sarebbero invece al 7%. Un vero tracollo, infine, aspetterebbe l’Smc del premier uscente Miro Cerar, al quale uno degli ultimi sondaggi attribuiva il 4,7%.
Giovedì pomeriggio una piccola folla di circa 3.000 persone si è raccolta a Lubiana nella centralissima piazza della Repubblica davanti alla sede del parlamento, rispondendo all’invito dell’associazione della società civile Danes je nov dan, in sloveno «oggi è un novo giorno». In questo stesso luogo nel 1991 venne proclamata l’indipendenza della Slovenia dalla Jugoslavia, ma il clima prevalente tre giorni fa tra i manifestanti era soprattutto di forte preoccupazione per il futuro. «Senza paura, senza xenofobia, diritti per tutti» era scritto sui cartelli, mentre tra gli slogan più gridati c’era un chiarissimo «Contro la politica dell’odio». «La vittoria dell’Sds è scontata», commentava Darjan, attivista di Levica arrivato nella capitale da Nuova Gorica. «La gente vuole solo una cosa: che non entrino più migranti nel paese e questo anche se non esiste una vera emergenza».
A far paura ai manifestanti sono le promesse fatte agli elettori da Jansa: stop alle quote di richiedenti asilo dell’Unione europea (la Slovenia ne ha accolti 335 da Italia e Grecia su 567), maggiori controlli alle frontiere, compresa quella con l’Italia e, come ha annunciato in televisione il deputato Branco Grims, alleanza con i paesi del gruppo Visegrad e cancellazione dei finanziamenti pubblici oggi destinati alle ong. Un programma molto simile a quello del premier ungherese Viktor Orbán, non a caso amico personale di Jansa al punto da averlo sostenuto a maggio durante un’iniziativa pubblica dell’Sds. Dove il campione magiaro delle politiche anti-migranti non ha deluso: «Una vittoria dell’Sds e di Jansa garantirebbe la sopravvivenza del popolo sloveno», ha detto ripetendo gli stessi argomenti che ad aprile gli hanno garantito il successo il patria.
Oggi in Slovenia si trovano circa 400 migranti, per lo più collocati in due centri situati alla periferia e nel centro di Lubiana. Secondo il segretario di Stato del ministero degli Interni Bostjan Sefic, inoltre, nel paese ne entrerebbero circa 50 al giorno. Non proprio una vera emergenza, tanto più se si pensa che tra i problemi che il futuro governo dovrà affrontare ci sarebbero anche una riforma delle pensioni dovuta all’invecchiamento della popolazione e una riorganizzazione del servizio sanitario. Argomenti di certo più seri e importanti di un’improbabile invasione di migranti, ma altrettanto sicuramente meno in grado di far guadagnare voti.
Il manifesto 26.6.18
La destra stringe la morsa sulla Turchia
Elezioni. Erdogan rieletto al primo turno. I Lupi grigi garantiscono la maggioranza in parlamento. L’Hdp supera lo sbarramento, Chp tradito dal flusso di voti agli alleati. Osce: Voto iniquo
di Dimitri Bettoni
ISTANBUL Eccola la nuova Turchia di Erdogan, dove ogni filo del comando è collegato alla volontà di un uomo. Uno Stato che ha perduto ogni carattere democratico, a parte lo show delle urne e una società civile straordinariamente resistente ad anni di vessazioni, inganni e persecuzioni.
Le opposizioni fino all’ultimo hanno creduto nel cambiamento, ma ha vinto la baldanza del Rèis Erdogan che, a spoglio ancora in corso, dichiara vittoria e ottiene altri cinque anni di governo con poteri ineguagliati e senza altri appuntamenti elettorali a intralciargli la strada.
Domenica aprono i seggi e già a metà giornata si rincorrono voci preoccupanti. Da Suruç, provincia di Urfa, dove alcuni osservatori sono scacciati e la polizia ferma degli uomini che in auto trasportano sacchi di schede elettorali. Da Erzurum, dove il rappresentante regionale dell’Iyi parti viene ucciso a colpi di arma da fuoco. Da Agri, Batman, Diyarbakir e Sirnak nel sudest, dove numerosi osservatori internazionali italiani, svedesi, francesi sono arrestati e accusati di interferire con le elezioni. Le autorità dichiarano di avere tutto sotto controllo, le opposizioni di mantenere la calma e non abbandonare i seggi per alcun motivo.
Alle 17 chiudono le urne e le prime proiezioni lanciate dall’agenzia di Stato Anadolu, che annuncia il conteggio al posto delle istituzioni, danno Erdogan oltre il 60%. Nessuno tra le opposizioni ci crede, si sa che Anadolu è il braccio mediatico del governo. Pur con colpevole ritardo, la piattaforma Adil Seçim (Giuste Elezioni) gestita dalle opposizioni pubblica altre cifre: Erdogan al 44% e Ince dietro sì, ma lì a tallonarlo. Così si va al ballottaggio.
Cala la sera. Il popolo dell’Akp già festeggia nelle strade dopo che esponenti del governo, Anadolu e di conseguenza tutte le tv annunciano la vittoria del Rèis. I sostenitori delle opposizioni si aggrappano al filo di speranza del conteggio ancora in corso presso il Consiglio elettorale supremo (Ysk), la cui sede di Ankara è stata circondata dalle forze dell’ordine. Il tempo passa, le percentuali riferite da Anadolu si abbassano, ma Erdogan è vincente sia per la presidenza che in parlamento.
I numeri di Adil Seçim invece crescono fino a congiungersi a quelle del megafono del governo. Arriva la conferma dello Ysk, la partita è chiusa. Erdogan vince la presidenza al primo turno con il 52%, Ince supera di poco il 30%, Demirtas è terzo con l’8% nonostante una campagna condotta dietro le sbarre, la Aksener raccoglie un deludente 7%, Karamollaoglu e Perinçek nemmeno l’1%.
Ma è il parlamento il colpo del ko. L’alleanza stretta dall’Akp con il lupi grigi dell’Mhp porta a casa il 53% e la maggioranza assoluta: 343 parlamentari su 600. Tra le opposizioni, l’Hdp ottiene uno straordinario l’11,7% e aumenta i parlamentari rispetto a novembre 2015.
Ma i restanti partiti d’opposizione deludono. Il Chp paga il travaso di preferenze verso gli alleati e si attesa al 22%. Fallisce soprattutto l’Iyi di Meral Aksener, che con il 10% accede al parlamento, ma non sottrae consenso all’Mhp. Il partito Saaded, la presunta alternativa islamista a Erdogan, non ha neanche un deputato.
Quello dell’Mhp è il dato più sorprendente. Un partito scosso dalla scissione dell’Iyi è riuscito non solo a incrementare i propri parlamentari, ma soprattutto diventa l’ago della bilancia della maggioranza e ipoteca un’enome forza contrattuale nei confronti di Erdogan. Mhp e Iyi, pur rivali, portano a casa insieme il 21% delle preferenze, il doppio rispetto a quando nel 2015 correvano sotto un’unica sigla.
Com’è possibile? L’Akp ha vinto, ma ha perso un 7% di consensi ed è plausibile un travaso di scontenti che però non hanno tradito. L’Hdp si è rafforzato in tutto il paese anche grazie ai voti disgiunti arrivati dal Chp, ma si è indebolito proprio nella roccaforte del sudest dove, pare incredibile, hanno guadagnano consensi i lupi grigi.
In questo arcano destinato agli analisti risiede un pezzo di mistero di queste elezioni. Nel frattempo Ince aspetta le 12 di ieri per gettare la spugna: nella conferenza stampa dichiara: «Sì, hanno rubato voti, ma non abbastanza per spiegare questa sconfitta. Ora viviamo in un regime e dobbiamo tutti misurarci con esso».
Una spiegazione più chiara arriva dalla conferenza stampa dell’Osce ad Ankara, in cui denuncia elezioni svolte senza condizioni di eguaglianza, in un contesto legale di libertà di espressione ristrette, dove risorse di Stato sono state usate in favore del partito di governo, dove sono stati apportati cambiamenti legislativi last minute che hanno rimosso garanzie importanti, dove i media hanno favorito il governo, gli osservatori sono stati talvolta bloccati, i seggi del sudest sono stati spostati senza giustificazioni soddisfacenti, viziate dallo stato di emergenza in vigore. Forse questo basta a giustificare la vittoria di Erdogan.
Il manifesto 26.6.18
Il ruggito turbo-nazionalista del Sultano
Patria e religione. Il consenso a Erdogan non viene meno, mentre cresce quello al'ultradestra dell'Mhp, i Lupi Grigi. Al presidente poteri quasi assoluti in un paese sempre più diviso dove il nazionalismo diventa lo strumento di gestione e mantenimento del potere
di Alberto Negri
«Voglio sentire il vostro ruggito per un governo forte», aveva urlato alla folla di Istanbul nell’ultimo comizio sulle rive del Bosforo, innescando l’orgoglio popolare e il turbo-nazionalismo.
Per capire la popolarità di Recep Tayyip Erdogan, presidente con pieni poteri, capo quasi assoluto della Turchia, noi giornalisti (e forse pure i sondaggisti) dovremmo frequentare meno la brillante e intellettuale borghesia di Istanbul e un po’ di più la Turchia profonda: una considerazione che mi veniva alla vigilia del voto conversando qui a Istanbul con Ferzan Ozpetek, il regista di Napoli Velata e di altri film eccellenti, quasi tutti ispirati alla tradizione italiana, come lui stesso sottolinea con orgoglio.
Dal 2002 il partito islamico Akp ha vinto 12 elezioni e comunque in un decennio i turchi hanno raddoppiato il loro reddito medio pro capite: per quanto il concorrente più serio di Erdogan, Muharrem Ince del partito repubblicano Chp, abbia rivitalizzato l’opposizione con comizi oceanici, da quasi una generazione i turchi sono inclini a dare più fiducia a Erdogan che a chiunque altro.
E ancora di più – soprattutto dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016 – una maggioranza è disposta anche a passare sopra a centinaia di migliaia di arresti di gulenisti e non, perché il Reìs assicura continuità e il proseguimento di un sogno di modernizzazione ed emancipazione economica e sociale delle fasce più tradizionali della popolazione che i secolaristi non sanno assolutamente rappresentare alle masse turche.
Non è il confortevole cosmopolitismo borghese che vince in Turchia ma un forte e talora esasperato nazionalismo. Anzi un turbo-nazionalismo, come dimostra l’alleanza elettorale vincente forgiata da Erdogan e dall’Akp, partito islamico e tradizionalista, con la formazione di ultra-destra Mhp, i famosi Lupi Grigi fondati dal colonnello Arsplan Turkes negli Sessanta e Settanta, il cui esponente più noto da noi fu Ali Agca, l’attentatore di Papa Woytila.
Oggi in Turchia festeggiano il Rèis Erdogan, Develet Bahceli, capo dell’Mhp, e i curdi di Diyarbakir che hanno accolto con entusiasmo l’ingresso in parlamento del partito Hdp, il cui leader Selahattin Demirtas per altro è ancora in carcere.
Il dato forse più inatteso e interessante di queste elezioni è stata proprio l’affermazione alle urne dell’Mhp, il Partito del movimento ultranazionalista, ferocemente anti-curdo, euroscettico, guidato da Bahceli. Alla vigilia era dato a meno del 6-8% e sembrava che Erdogan fosse la sua àncora di salvezza per sopravvivere: superando l’11% ha invece regalato all’Akp la maggioranza in parlamento.
È questo il partito dei Lupi Grigi, esponenti di quel Derin Devlet, lo «Stato Profondo», che storicamente sa come nuotare e manovrare nelle acque più torbide della politica turca: sono i Lupi Grigi gli eredi dell’alleanza negli anni Settanta e Ottanta con la Cia, erano loro i membri delle reti clandestine anti-comuniste Stay Behind (Gladio) della Nato.
Ultranazionalisti ma con una componente religiosa: il fondatore dell’Mhp, il colonnello Alparslan Turkes, affermava che «il nazionalismo rappresentava la politica del suo partito e l’Islam la sua anima». Un movimento fedele a una visione turco-centrica delle relazioni internazionali, favorevole al ripristino della pena di morte, promessa che ogni tanto Erdogan rinnova sollevando i brividi dell’opposizione e dell’Europa.
Il turbo-nazionalismo, ancora più della religione, è diventato così il vero carburante elettorale di Erdogan che prima ancora di convocare queste elezioni anticipate ha scatenato l’offensiva contro i curdi nell’enclave siriana di Afrin e ha poi fatto leva sul nazionalismo per oscurare i cattivi risultati dell’economia.
Ora per il Sultano si profila un mandato di cinque anni con poteri quasi assoluti, ma in un Paese sempre spaccato a metà, diviso tra religiosi e laici, tra nazionalisti e curdi, con un’economia che batte in testa e una lira vulnerabile sui mercati. Per questo si attende da Erdogan un governo forse meno strettamente legato alla cerchia del clan Akp e con qualche elemento più presentabile sulla scena internazionale per guadagnare credibilità sui mercati.
Cosa farà in politica estera? L’avvicinamento alla Russia e i rapporti con l’Iran per il momento non sembrano in discussione. Il vero nodo è il rapporto con Stati uniti e Nato, di cui la Turchia è un membro storico: la recente consegna ad Ankara del primo caccia F-35, che per altro resta negli hangar americani, è un segnale di distensione come pure le operazioni militari congiunte con gli Usa nel Nord della Siria. Ma il fatto che l’imam Fethullah Gülen, ritenuto l’ispiratore del fallito golpe, resti in esilio negli Stati uniti costituisce un motivo di tensione latente.
Quanto all’Europa resta importante: Erdogan è il guardiano ben pagato di tre milioni di profughi siriani, quasi il 50% dell’export turco va in Europa mentre il 70% del debito delle imprese è contratto con banche europee. Ma l’Europa come approdo politico appare sempre meno attraente, soprattutto questa Unione sempre più litigiosa e disunita.
Il Fatto 26.6.18
Super Erdogan, ma i curdi festeggiano lo stesso
Dopo il voto - L’Hdp passa da 59 a 67 seggi anche se il leader Demirtas ha fatto campagna dal carcere
di Roberta Zunini
Anche le condizioni climatiche sono dalla sua parte: il giorno dopo la vittoria, il vento in aumento fa salire sempre più in alto nel cielo sopra il Bosforo il volto di Erdogan stampato su giganteschi stendardi, assicurati agli ultimi piani dei grattacieli con fili invisibili . Il Sultano ora sembra anche in grado di volare e sorvegliare dall’empireo ogni mossa dei comuni mortali turchi che si sono precipitati in massa alle urne, per incoronarlo definitivamente.
Dopo aver battuto al primo turno gli avversari alle presidenziali e ottenuto la maggioranza assoluta dei voti in parlamento grazie alla alleanza pre elettorale del suo partito della Giustizia e Sviluppo, Akp, con i nazionalisti eredi dei Lupi grigi, il reis non avrà più contrappesi a bloccarne le decisioni. Da ieri infatti la Turchia non è più una repubblica parlamentare, bensì presidenziale ed Erdogan avrà ufficialmente nelle proprie mani la maggior parte dei poteri derivanti dal cambiamento della Costituzione, sancito lo scorso anno via referendum. Guardando la mappa del voto, la marea (l’affluenza ha superato l’80 per cento) gialla, il colore dell’Akp, ha travolto non solo l’Anatolia profonda – dove c’è lo zoccolo duro dei suoi fedeli – rurale e da sempre povera, bensì anche le grandi città, a partire da Istanbul, città natale del ‘presidentissimo’ dove venne eletto sindaco vent’anni fa, iniziando la propria carriera.
Eppure le previsioni, almeno per le città, sembravano di segno opposto. Ha avuto dunque ragione Erdogan ad ascoltare l’alleato nazionalista, il vecchio e controverso Devlet Bahceli, nel volere anticipare le consultazioni di un anno e mezzo. La drammatica svalutazione della lira turca , l’inflazione ormai a due cifre e la nascita di un nuovo partito (l’Iyi) in seguito alla fuoriuscita di parte dei nazionalisti guidati da Meral Aksener, ha preoccupato sia Erdogan sia Bahceli, convincendoli a cambiare la legge elettorale per unire le forze e sconfiggere l’opposizione, partito repubblicano in testa. Tra l’uomo forte e il rivale laico e amante della scienza come il professore di fisica Muharrem Ince, i turchi hanno scelto il primo anche perché la crisi economica non è ancora drammatica.
Ma Erdogan è stato riconfermato solo per due punti percentuali, che gli hanno permesso di superare il 50%. Significa che il paese è diviso a metà tra gli ‘erdoganiani’ più i nazionalisti del MHP e una metà frammentata che non è riuscita a coalizzarsi a favore del repubblicano Chp.
A ben guardare anche se quest’ultimo ha perso voti rispetto alle precedenti legislative, il candidato scelto per sfidare il Sultano, il professor Ince ha ottenuto un buon risultato che ha mitigato la perdita di voti del partito e dimostrato che l’opposizione è ricomparsa all’orizzonte. Peccato che da ora servirà ancora a meno visto che non ci sarà più la figura del primo ministro. L’unico dato positivo per i detrattori di Erdogan è la tenuta del partito filo-curdo Hdp che è riuscito a rimanere in Parlamento superando la soglia di sbarramento del 10%.
Rispetto alle precedenti elezioni hanno ottenuto più seggi: da 59 a 67. Per questo i curdi hanno festeggiato comunque.
“Essere stato costretto a fare campagna in condizioni di detenzione è stata la più grande delle ingiustizie. Mente gli altri candidati hanno potuto fare 100 comizi, io ho potuto inviare 100 tweet”. Lo ha scritto su Twitter, Selahattin Demirtas, il candidato curdo alla presidenza, che ha ottenuto l’8,4%.
La Stampa 26.6.18
La patente delle saudite che copre i diritti negati
di Rolla Scolari
Ultime al mondo, le donne saudite da poche ore possono fare una delle azioni più banali e comuni al mondo senza rischiare prigione e oltraggio sociale: guidare un’automobile. Dopo mesi di preparazione, il regno ultraconservatore ha dato il via a quella che è stata presentata come una epocale apertura, una rivoluzione gentilmente concessa da Mohammad bin Salman. Il giovane principe ereditario Mbs per meglio fare intendere quale sia la via del nuovo cambiamento nel Paese ha fatto incarcerare poche settimane prima del crollo del divieto le principali attiviste che per decenni hanno lottato per sedersi dietro al volante.
Le riforme cosmetiche
Nei mesi passati, l’erede al trono su cui oggi siede l’anziano padre, re Salman, ha introdotto alcune concessioni – molto cosmetiche e poco di sostanza - in un mondo in cui la donna è pesantemente discriminata: le saudite possono ora andare a vedere allo stadio una partita di pallone, andare al cinema, dove fino a poco tempo fa non andavano neppure gli uomini, visto che non esistevano proprio sale di proiezione. Risultati più di peso erano arrivati nel 2015, quando le donne avevano potuto presentarsi alle elezioni locali, ed essere elette al Consiglio consultivo.
È innegabile come la fine del divieto di guida in Arabia Saudita sia una vittoria massiccia per le donne del regno, che porta conseguenze di peso: la possibilità di muoversi in maniera indipendente consente di andare a lavorare autonomamente. E gli impatti economici – quelli che cerca il giovane principe Mbs, che ha come obiettivo sganciare il regno dalla dipendenza del greggio – non tarderanno a farsi sentire.
Se le donne possono però da oggi mettersi al volante, restano troppe le attività vietate alle saudite in una società retta da leggi religiose ultraconservatrici, in cui la discriminazione è burocratizzata. Come nella quasi totalità dei Paesi islamici una donna eredita la metà della somma data ai fratelli maschi. In Arabia Saudita, la testimonianza di una donna non vale quella di un uomo davanti a un giudice. Se da oggi una saudita può guidare, non è detto che abbia a disposizione i soldi per comprarsi la macchina, visto che non può aprire da sola un conto in banca senza il consenso del suo «tutore» maschio.
E se riesce a comprarsi una macchina, può andare con quella all’aeroporto a prendere un parente, ma non può partire per i fatti suoi, perché per viaggiare e procurarsi un passaporto le serve il permesso di un parente maschio: un padre, un fratello, un marito, un cugino. Non è un caso che l’Arabia Saudita sia al 141esimo posto su 144 Paesi (dopo ci sono solo Siria, Pakistan e Yemen) sul Global Gender Gap Report del World Economic Forum del 2016. Anche dopo la conquista del volante, l’Arabia Saudita resta un Paese in cui essere donna è difficile.
Sport, ma niente palestra
Dai Giochi di Londra nel 2012, le saudite possono gareggiare alle Olimpiadi. Eppure, ottenere la licenza per aprire una palestra per donne è un problema, anche se nello sport al femminile la situazione sta migliorando. Il solito parente maschio ha l’ultima parola sul matrimonio (e sul divorzio) di una donna, sulla possibilità di una donna di aprire alcune attività commerciali o avere un lavoro, persino sulle operazioni mediche di routine.
Se da oggi le saudite possono uscire di casa a bordo della loro automobile, non potranno ancora andare a cena in un luogo pubblico con un amico maschio, che non sia una parente. E nei ristoranti e nei caffè di tutto il regno possono sedersi soltanto in zone dedicate alle famiglie. Aperto dallo stesso principe Mbs il dibattito sull’obbligo di coprire il capo, per la donna resta comunque il divieto di indossare ciò che vuole: l’abaya, un lungo abito informe nero, è il dress code ufficiale.
il manifesto 26.6.18
L’esame di maturità e il dibattito sull’eguaglianza scolastica in Cina
La scuola in Cina. Il gaokao è sempre stato ed è tutt’ora la bestia nera degli studenti cinesi: dal gaokao dipende la tua vita, si dice in Cina, e non è del tutto sbagliato. L’esame, in verità, ha subito e sta subendo una serie di riforme significative a partire dal secondo decennio del XXI secolo anche in termini di contenuti, tuttavia, almeno per ora, esso mantiene intatto il suo potenziale: le famiglie sostengono i figli con ogni sorta di attività integrativa pur di facilitarne il successo finale e la tensione di ragazzi e genitori è davvero palpabile. Ma è davvero un sistema "meritocratico" e "egualitario" quello cinese?
di Stefania Stafutti
Professore ordinario Lingua e Letteratura cinese Università di Torino
Si sono conclusi una decina di giorni fa in Cina gli esami di gaokao, assimilabili in qualche misura agli esami di stato alla fine delle superiori in Italia, ma con una capacità estrema di determinare il destino dei giovani che li sostengono, nonostante una serie di interventi del legislatore stiano cercando di mitigarne l’impatto.
Il gaokao è sempre stato ed è tutt’ora la bestia nera degli studenti cinesi: dal gaokao dipende la tua vita, si dice in Cina, e non è del tutto sbagliato. L’esame, in verità, ha subito e sta subendo una serie di riforme significative a partire dal secondo decennio del XXI secolo anche in termini di contenuti, tuttavia, almeno per ora, esso mantiene intatto il suo potenziale: le famiglie sostengono i figli con ogni sorta di attività integrativa pur di facilitarne il successo finale e la tensione di ragazzi e genitori è davvero palpabile.
Le strade intorno alle scuole in cui si svolgono gli esami vengono chiuse, eventuali attività rumorose vengono interrotte e sulle vie compaiono i cartelli: “Fate silenzio. È in corso l’esame di gaokao». Dal voto finale di questo esame dipende la possibilità di accedere ai migliori atenei del paese e quindi di assicurarsi un lavoro di prestigio, con buona remunerazione, assai probabilmente nelle aree più ricche e vivaci del paese. Per loro esplicita ammissione, gli studenti considerano il successivo percorso di studi all’università una sorta di passeggiata, rispetto agli anni che si sono lasciati alle spalle. Quest’anno, l’esame coinvolge complessivamente 9.750.000 ragazzi di età compresa tra i 17 e i 18 anni, 350.000 in più rispetto all’anno precedente.
E poi? La scelta degli Atenei dipende, appunto dall’esito di questo esame, cui si applicano una serie di correttivi che tengono parzialmente in conto la provenienza da aree svantaggiate degli studenti.
Ma sono davvero i migliori coloro che accedono alle Università migliori?
Il tema è di forte attualità in Cina, dove il livello di istruzione garantito in città come Pechino e Shanghai non è in alcuna misura paragonabile a quello offerto in aree più povere del paese. Questo elemento di diseguaglianza è amplificato dalla decisione assunta dal Governo già alla metà degli anni Novanta, quando nacquero le cosiddette “Università di alta formazione” del progetto 211 e poi del progetto 985, scelte tra le oltre 2200 Università cinesi (senza calcolare i circa 300 atenei dedicati alla formazione permanente e alla istruzione per gli adulti, che quindi assolvono un compito diverso da quello di norma primario nelle università).
Intorno al 1995, il governo si pose l’obiettivo di creare atenei competitivi a livello globale, capaci di diventare istituzioni leader nella ricerca e di attrarre studenti stranieri. Con questo obiettivo, in occasione del centesimo anniversario dell’Università di Pechino, nel maggio 1998, l’allora segretario del PCC Jiang Zemin lanciò il progetto 985 (il cui nome deriva appunto dalla data: 98/5), ovvero un piano di sostegno per le Università di super-eccellenza – all’inizio soltanto 9 – che dovevano costituire la punta di diamante del sistema nazionale di alta formazione e presso le quali veniva allocata una parte ingentissima delle risorse per la formazione e la ricerca.
Il progetto era già stato preceduto, nel 1995, da un altro piano analogo, lanciato dal Ministero della Pubblica Istruzione, il cosiddetto “Progetto 211”, che coinvolgeva 116 università, circa il 6% degli atenei del paese. Qui il “numero magico 211” fa riferimento a uno slogan del periodo che può essere così tradotto: “Per affrontare il 21esimo secolo, creiamo 100 scuole di eccellenza”, (面向21世纪,办好100所高校). Solo questo progetto, dal 1996 al 2000, assorbì 2miliardi e 200 milioni di dollari.
E qui veniamo al punto. Superata la fase dell’entusiasmo nazionale (e nazionalista) derivante dal fatto che la presenza della Cina e dei suoi atenei nell’ambito della comunità scientifica e delle pubblicazioni accademiche di prestigio internazionale subì effettivamente un balzo straordinario, si profilò all’orizzonte e divenne sempre più sensibile la questione della “eguaglianza” tra i cittadini cinesi per quanto atteneva al diritto di accesso alla formazione di eccellenza.
Il 2 febbraio 2015, una puntata di “Finanza ed economia: l’opinione di Lang”(Caijing Lang yan), famosissimo e atteso appuntamento fisso della televisione via cavo di Canton, rilanciò senza mezzi termini la questione, suscitando un certo scalpore.
L’anchorman era Larry H.P. Lang, ovvero Lang Xiagping in Cina popolare, un sino-taiwanese nativo di Taiwan, già brillantissimo docente di finanza ed economia presso l’Università cinese di Hong Kong (da sempre piuttosto vicina al Governo di Pechino) e ora professore emerito di quell’ateneo, intellettuale legato alla Cina continentale e interessante teorico del “Comunismo scientifico” di Marx, contro il “minimal-statismo” del pensiero liberal capitalista dominante, ma in ogni caso croce e delizia del governo di Pechino, per la sua abitudine di non mandarle a dire a nessuno.
Numeri alla mano, Lang dimostrò la profonda iniquità dei progetti 221 e 985. Di seguito, alcuni dei dati incontrovertibili che egli espose sulla base di documenti pubblici e universalmente noti: nel 2015, gli Atenei del gruppo 985 assorbivano il 52,7% del bilancio dello stato per l’alta formazione. Il loro numero complessivo, dal lancio del progetto, era passato da 9 a 39, di cui 8 a Pechino e 4 a Shanghai; vale a dire che il 31% di tali atenei stava e sta nelle due città principali del paese.
Queste istituzioni sono del tutto assenti in ben 13 provincie, alcune con popolazione studentesca molto alta, come lo Henan, lo Hebei, il Shandong, il Jiangxi. Lang argomenta che, se da un lato è normale che le grandi città ospitino un gran numero di queste istituzioni, costituisce invece un problema il fatto che gli studenti che frequentano le 14 scuole di eccellenza siano per il 36,8 % studenti locali, ovvero provenienti dalle stesse Pechino e Shanghai.
Nel prestigiosissimo Politecnico della capitale, Qinghua, il 25% degli studenti sono di Pechino (posseggono cioè hukou di Pechino, ovvero una residenza piena e non temporanea, la sola che consente un completo e privilegiato accesso a tutti i servizi della città, incluso il welfare), a Tongji – importante ateneo di Shanghai- , il 40% degli iscritti ha hukou di Shanghai; a Fudan, una delle vecchie e prestigiose università della “Parigi d’Oriente” il 49% degli allievi è di Shanghai, alla Zhejiang University, ad Hangzhou, altra università di eccellenza, il 61% degli studenti ha hukou nella stessa provincia del Zhejiang, e via dicendo.
Le risorse, però, non vengono dai governi provinciali o delle Aree Metropolitane Speciali di Pechino e Shanghai, ma vengono dal governo centrale. In altre parole sono le aree già privilegiate del paese ad avvantaggiarsene: è vero che da qui arriva anche molta parte del gettito fiscale, ma, in questo modo, la corresponsione delle imposte finisce per somigliare a un giro di cassa. Nel Henan, per esempio, una delle provincie a popolazione studentesca più elevata di tutto il paese, con un numero complessivo di oltre 100.000.000 di abitanti, solo lo 0,7 della popolazione studentesca ha accesso agli istituti di eccellenza. A Shanghai la percentuale sale al 4,57.
Non va meglio per le scuole del Progetto 211. Esse sono presenti in ogni provincia, ma, facendo lo stesso calcolo di proporzione tra abitanti e numero di istituzioni di tipo 211 presenti, scopriamo che nello Henan, dove la sola Università di Zhengzhou rientra nel progetto 211, il rapporto per milione di abitanti è del 0,01%, mentre a Pechino sale all’ 1,83%.
Se poi guardiamo alla “provenienza di classe” degli studenti, le diseguaglianze si fanno ancora più evidenti. Una ricerca svolta da Li Yunshan, dell’Istituto per l’Educazione dell’Università di Pechino, ha monitorato la presenza degli studenti provenienti dalle campagne nelle università di eccellenza della capitale dal 1978 al 2011. Fino al 1998, il 30% degli studenti dell’Università di Pechino aveva hukou di campagna, dal 2000 al 2011 la percentuale è scesa al 10%; a Qinghua, le cose vanno un pochino meglio, con una percentuale intorno al 17%. Ma degli studenti che ogni anno si accingono a superare il famigerato gaokao, oltre il 60% ha hukou di campagna.
Il governo sta cercando di correre ai ripari: già nel 2015, al culmine del dibattito sulla reale eguaglianza dei cittadini nell’ambito del diritto di accesso all’istruzione, venne lanciato il piano cosiddetto shuang yi liu, una sorta di “doppio binario” delle istituzioni di primo livello, diventato operativo a partire dal 2017, con la pubblicazione dell’elenco degli atenei coinvolti nel progetto. In sostanza, si è creato una sorta di apparentamento tra le cosiddette Università di eccellenza a livello statale (istituzioni “di tipo A”) e le Università di eccellenza a livello provinciale (istituzioni “di tipo B”, e se le lettere dell’alfabeto hanno un senso…).
Formalmente, anche le seconde sono istituzioni di eccellenza, ma la loro offerta formativa è più vincolata alle esigenze del territorio e sono principalmente finanziate a livello locale. La novità sostanziale sta nell’innalzamento complessivo del numero degli Atenei ritenuti di eccellenza e quindi ammessi a un assai più cospicuo finanziamento statale. Rimane il fatto che provincie più ricche possono finanziare di più e meglio…
Un vecchio adagio cinese recita: “Se ho dieci anni a disposizione pianto un albero, se ne ho cento educo un uomo”. Ma come avviene per gli alberi, anche gli uomini si educano meglio se il terreno è più ricco.
Corriere 26.6.18
Demografia
Tra Confucio e gli aborti forzati, la Cina del figlio unico
Mei Fong, Pulitzer nel 2007, indaga e riflette per l’editore Carbonio sulle politiche di contenimento delle nascite nella Repubblica Popolare
di Paolo Salom
L’idea di dominare la Natura. Di forgiarla secondo le proprie necessità. Di piegarla quando ci minaccia. In Cina l’uomo interagisce con l’ambiente da millenni. Prova a interpretarne le forze (teoria del Fengshui, molto nota anche in Occidente); a ingabbiarlo in manufatti monumentali (dalla Grande muraglia alla Diga delle tre gole); a dominarlo persino nell’Aldilà (l’Esercito di terracotta a guardia della tomba del Primo imperatore, Qin Shihuangdi).
Tratto paradigmatico di un afflato che da sempre permea questa millenaria società è la capacità di organizzare la forza lavoro: centinaia di migliaia di esseri umani coordinati e dedicati al compito del momento. Ecco perché negli Anni 80 dello scorso secolo l’iniziativa di legge che, nella Repubblica Popolare, ha imposto alle famiglie di mettere al mondo un solo figlio è apparsa, ai più, come un insulto all’idea stessa del progresso secondo la tradizione orientale (Confucio e la teoria di società armoniosa basata sulla discendenza). Certo, il governo di allora — o meglio i dirigenti del Partito comunista — scelse di porre un freno all’incremento della popolazione (paradossalmente, un nuovo intervento sulle leggi della natura) sulla scorta di una «buona intenzione»: non vanificare la crescita della ricchezza nazionale, beneficio delle riforme e dell’apertura voluta da Deng Xiaoping, con l’eccessivo aumento delle bocche da sfamare. Iniziativa peraltro lodata dagli esperti di tutto il mondo.
Ora, la giornalista e studiosa sino-malese Mei Fong, cittadina americana e premio Pulitzer 2007, prova, nel saggio Figlio unico. Passato e presente di un esperimento estremo (Carbonio Editore), a scavare in un processo che è stato anche violento e doloroso. Non tanto e non solo per la rottura con una tradizione sentita come parte integrante della propria cultura, ma anche perché, pur di non superare le «quote» stabilite per la natalità locale, molti capi villaggio e dirigenti di partito di provincia hanno obbligato migliaia di donne ad abortire, contro la loro volontà e in fase avanzata della gravidanza. Per Mei Fong, la politica del figlio unico è stata più che altro «un fallimento»: «Le limitazioni imposte da questo piano demografico — scrive — hanno contribuito ben poco al progresso sul piano economico». Addirittura, starebbero mettendo «a repentaglio il suo sviluppo futuro». Perché? Perché la Cina sta invecchiando troppo e troppo in fretta, mentre la manodopera, in particolare quella specializzata, è già in declino numerico. Per non parlare degli squilibri di genere dovuti alla preferenza per un erede maschio: «Troppi uomini, troppo anziani».
Cifre e fatti presentati da Mei Fong sono drammatici. Tuttavia, la strada tracciata dalla Repubblica Popolare non può essere considerata, in questo campo, un fallimento totale. La crescita e la contrazione della popolazione umana — al momento ci sono oltre sette miliardi di anime sulla Terra — sono fenomeni ancora largamente indipendenti. Ma, come spesso ripeteva nei suoi scritti Giovanni Sartori, «non possiamo crescere all’infinito, perché le risorse del pianeta non sono infinite». Le proiezioni indicano che nel 2100 la Cina avrà 500 milioni di abitanti, un terzo rispetto a oggi. Forse non sarà poi un male.
Il manifesto 26.6.18
Jamileh Kadivar, la forza politica delle iraniane
Festival Taobuk . Esponente del movimento d’opposizione Onda verde, oggi alle 17 sarà ospite (in dialogo con Farian Sabahi) a Taormina, Palazzo Ciompoli, per discutere della rivoluzione del 1979
di Farian Sabahi
«Quando è scoppiata la rivoluzione avevo quattordici anni, partecipai alle proteste ma non votai nel referendum che sancì l’istituzione della Repubblica islamica. Non misi la scheda nell’urna, ma partecipai come osservatrice in un seggio elettorale». Esordisce con questo ricordo Jamileh Kadivar, ospite del Taobuk di Taormina per discutere della Rivoluzione del 1979 e del potere politico delle donne. Esponente del movimento d’opposizione Onda verde che nel 2009 dovette soccombere ai brogli e alla repressione, aveva militato a fianco di Mehdi Karrubi, ancora agli arresti domiciliari come Mir Hossein Musavi e Zahra Rahnavard. Jamileh è stata consulente per le questioni mediatiche di Khatami, membro nella giunta municipale di Teheran e deputata. Suo fratello è l’hojatolleslam Mohsen Kadivar (allievo del Grande Ayatollah Montazeri) e il marito è Ataollah Mohajerani (già ministro della Cultura con il presidente Khatami eletto nel 1997): una famiglia impegnata sul fronte riformatore.
Quanto sono importanti le questioni di genere in Iran?
Avevano una valenza politica nella monarchia e ancor più oggi nella Repubblica islamica a causa delle pressioni occidentali e del velo obbligatorio, diventato simbolo politico: difenderlo è un modo per dire no alle interferenze straniere.
Quanto potere politico hanno le iraniane?
Ne hanno più oggi che al tempo dello scià, perché il potere politico è la capacità di accedere, influenzare, controllare, cambiare e creare nuovi discorsi politici. Il potere non è limitato alla semplice presenza nelle istituzioni, che non sono la sola fonte di potere, ma si estende alla società civile.
Lei è laureata in Scienze politiche e ha insegnato all’Università di Teheran, dove due matricole su tre sono donne. Come giudica il modo in cui la stampa occidentale scrive delle iraniane?
Utilizzando i dati forniti dai gruppi d’opposizione e da gente che abita fuori dal paese e non ha informazioni aggiornate, passa l’immagine di vittime inermi di un sistema teocratico che non fa che opprimerle. Questo stereotipo è in parte dovuto al velo obbligatorio, e in parte alla volontà di ignorare i progressi compiuti dal 1979 ad oggi.
Quali tasselli mancano al lettore occidentale per comprendere «l’universo femminile» iraniano?
La propaganda contro l’Iran omette il fatto che in questi quattro decenni le iraniane hanno migliorato le proprie condizioni di vita da sole, senza aiuti stranieri. Oggi le iraniane sono presenti in molteplici settori, anche in politica. Gli ostacoli sono tanti, ma non hanno perso la speranza nel futuro. E non è stato l’Ayatollah Khomeini a relegare le donne al ruolo di casalinghe, tant’è che dichiarò: «Le signore hanno il diritto di interferire in politica, è loro dovere e responsabilità». Detto questo, l’accesso delle donne all’arena politica ha portato allo scontro tra due diverse fazioni: per i tradizionalisti la donna è solo moglie e madre; i riformisti non colgono invece alcuna contraddizione tra il ruolo in famiglia e le attività sociopolitiche, portano a esempio le prime musulmane che combatterono a fianco del profeta Maometto, e ricordano che le iraniane hanno partecipato alla Rivoluzione del 1979 e dato il loro contributo nella guerra scatenata da Saddam Hussein nel 1980. Come in altri casi, con gli uomini al fronte, le donne furono costrette ad assumere ruoli in diversi ambiti.
L’Iran è al 177esimo posto nel report delle Nazioni Unite «Women in Politics»: le deputate sono soltanto 17 (su 290)…
Il potere politico non sta solo nelle istituzioni ma anche nella società civile, tant’è che le donne sono sempre presenti nelle dimostrazioni di protesta. Poco alla volta la presenza femminile nelle istituzioni è diventata la norma. Era stato Khatami a infrangere il tabù, scegliendo cinque donne consulenti. Nel 2009 Ahmadinejad aveva optato per tre ministre. L’attuale presidente Rohani ha due vice presidenti, un’assistente e una donna ambasciatore. Nei prossimi tre anni un terzo delle posizioni manageriali dell’esecutivo dovrà essere occupato al femminile. Le quote rose sono una forma di discriminazione positiva che può funzionare.
Il Fatto 26.6.18
Il Bergman ripudiato
“Ciò non accadrebbe qui”. Troppo Usa per essere vero
Noir anti-comunista . Gli attori di “Ciò non accadrebbe qui” sono esuli dal baltico rifugiati in Svezia
di Anna Maria Pasetti
Nessuno è perfetto, neppure Ingmar Bergman. Ma da genio creativo quale era ne nutriva l’umana consapevolezza. L’incidente di percorso è datato 1950 e s’intitola Ciò non accadrebbe qui, traduzione letterale dello svedese Sånt händer inte här, opera mai uscita fuori dai confini svedesi e danesi. Il motivo? Il grande regista fece di tutto per ostacolarne la diffusione perché quel film Bergman lo odiava.
A portarlo stasera nel Belpaese in premiere mondiale è il festival Il Cinema Ritrovato in corso a Bologna in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita dell’artista svedese. A concederne la copia è la Svensk Filmindustri – che lo produsse – e la Ingmar Bergman Foundation: una “concessione” speciale perché entrambi sono ben consapevoli di quanto il regista si adoperò affinché il film sparisse dalla circolazione e dalla sua coscienza, disconoscendolo fin dai primi giorni di riprese.
Ma il compianto co-direttore artistico del festival – il finlandese Peter von Bagh deceduto nel 2014 – teneva molto a quest’opera sapientemente celata ed evitata persino dalle più complete retrospettive dedicate a Bergman: dunque eccola in cartellone a Bologna nella luminosità di una digitalizzazione del 2017.
In sostanza si tratta di una spy story a tinte noir, anzi nerissime, pregna dell’assorbimento da parte del cineasta di un genere impreziosito sia dai francesi che dagli americani. Ed è proprio sulla “questione americana” che si è sviluppato il malessere di Bergman nei confronti del film nato su commissione, da lui né ideato né sceneggiato: Ciò non accadrebbe qui è un testo “a tema”, ed è smaccatamente anti-comunista, quasi di ispirazione maccartista.
Lontanissimo da influenze sull’efferata caccia alle streghe rosse, il regista si accorse subito di essersi intrappolato in un progetto che non sentiva proprio, al di là dell’aggravante che Ingmar Bergman può considerarsi fra quegli immensi autori non a proprio agio nel cinema di genere, per quanto le etichette vadano sempre usate con cautela in questi contesti.
Il film si ambienta a Stoccolma e mette al centro una coppia dalla relazione tormentata: lui viaggia segretamente, lei lavora da chimico forense e ha un amante poliziotto. Con loro interagisce una comunità compatta (molto bergmaniana) che si capisce essere costituita da profughi fuggiti da un Paese sotto dittatura ora rifugiata in Svezia. Nello sviluppo della narrazione si comprende che anche la protagonista e suo marito provengono da questa nazione “maledetta”, indicata nel film con l’immaginario territorio della Liquidatzia, nome fittizio a designare l’Unione Sovietica. Si tratta di individui sofferenti e contraddittori, alla ricerca di una nuova identità ma profondamente segnati da un’appartenenza culturale difficilmente estirpabile. Su volere del regista, gli stessi attori della “comunità” erano esuli da zone del baltico rifugiati in Svezia e a tal riguardo il commento di Bergman raccolto nel suo libro di memorie Immagini, è illuminante su quanto poco aderisse al film: “Conobbi gli attori baltici esuli che dovevano partecipare al film. Fu uno shock. All’improvviso capii che genere di film avremmo dovuto fare. Tra gli attori scoprii una tale ricchezza di storie ed esperienze di vita che l’intreccio malamente sviluppato di Sånt händer inte här mi sembrava quasi osceno”.
Un intreccio thriller e appunto di spionaggio che, ponendosi dal punto di vista della protagonista femminile e del suo amante svedese, metteva in cattiva luce il di lei marito che di fatto era diventato una spia comunista e quindi andava punito: in lui, tormentato e ambiguo, si concentra forse il massimo grado di presenza bergmaniana dell’intera opera. Complessivamente, dunque, è difficile dar torto al grande Ingmar per aver rifiutato questo suo infausto tassello dalla filmografia, sebbene essa rappresentasse solo il suo nono film a partire dall’esordio nel 1945 con Crisi.
Non mancano comunque momenti riusciti, a partire dalla scena iniziale che punta lo guardo su un cielo di nubi ammassate e inquietanti (splendida la fotografia di Gunnar Fischer) per continuare nella scena più bella dell’intera opera con la comunità nascosta nelle quinte di un cinema il cui grande schermo sta proiettando un cartoon di Paperino: un contrasto visivo e sonoro fortissimo e degno di uno statement politico scevro di retorica qualunquista.
In attesa dell’inedito Ciò non accadrebbe qui, i festeggiamenti per Bergman sono iniziati ieri sera in Piazza Maggiore con la proiezione della copia restaurata della suo capolavoro più iconico, Il settimo sigillo (1956), preceduta dal bel documentario dell’amica e discepola Margarethe von Trotta, Searching for Ingmar Bergman, che arriva direttamente dalla premiere mondiale tenutasi a Cannes lo scorso maggio.
La Stampa 26.6.18
Le grandi scimmie possono davvero usare il linguaggio nello stesso modo degli uomini?
Il 20 giugno la Gorilla Foundation ha annunciato la morte della gorilla Koko , diventata famosa in tutto il mondo per la sua capacità di usare il linguaggio americano dei segni per le persone sordomute per parlare con gli uomini
di Paolo Magliocco
qui
Corriere 26.6.18
Lo storico francese Yann Le Bohec, in un saggio pubblicato da Carocci, critica l’immagine ideologizzata del gladiatore ribelle, enfatizzata anche dal cinema. Non era un eroe della democrazia ma trasformò degli sbandati in veri guerrieri
spartaco fuori daL mitO
di Paolo Mieli
Non aspirava ad abolire la schiavitù
voleva solo tornare libero in tracia
Tutta colpa degli storici marxisti e di qualche regista americano se abbiamo di Spartaco un’immagine «completamente falsata». È questa la tesi di Yann Le Bohec, autore del saggio Spartaco, signore della guerra che sta per essere pubblicato da Carocci dopo una «navigazione tra gli scogli delle fonti e della bibliografia» che l’autore ironicamente si augura sia avvenuta correttamente, consentendo alla nave di subire soltanto «qualche danno superficiale». Le Bohec ha passato in rassegna l’intera letteratura sullo schiavo ribelle e mostra un particolare apprezzamento per Spartaco. Le armi e l’uomo di Aldo Schiavone (Einaudi), da lui definito «l’ultimo grande libro» su quella rivolta. Grande attenzione è stata data anche ad altri testi che considera di un certo valore: Il guerriero, l’oplita, il legionario di Giovanni Brizzi (il Mulino); Schiavi in Italia. Gli strumenti pensanti dei Romani fra tarda Repubblica e medio Impero di Andrea Carandini (Carocci); Esercito e società nella tarda Repubblica romana di Emilio Gabba (La Nuova Italia); Spartaco. Analisi di un mito di Antonio Guarino (Liguori).
Per il resto, denuncia l’autore, troppe indulgenze nei confronti del mito del «precursore della lotta di classe» e di tutto quel che quasi duemila anni dopo avrebbe teorizzato Karl Marx. «Concediamo pure agli sceneggiatori il diritto all’inesattezza», scrive Le Bohec, «dopotutto il cinema si fonda sulla finzione, non sulla scienza». E qui, ad ogni evidenza, l’autore non ce l’ha solo con l’«ottimo film, completamente inattendibile da un punto di vista storico», uscito nel 1960, Spartacus di Stanley Kubrick tratto dal romanzo di Howard Fast (in cui il ribelle veniva raccontato come un «protocomunista»), sceneggiato da Dalton Trumbo: film che il grande pubblico ricorda per la parte principale affidata a Kirk Douglas. Le Bohec è critico anche nei confronti della serie televisiva che per tre stagioni (2010-13) ha riproposto la storia leggendaria della rivolta che spaventò Roma tra il 73 e il 71 a.C. (trentanove episodi che, a suo avviso, si sono distinti solo per aver fatto «largamente uso di scene di sesso e di sangue» ed esser stati caratterizzati «da un linguaggio molto crudo»).
Più sottili sono stati, a suo avviso, i romanzieri che si sono cimentati con questa vicenda. Nel 1938, poco prima di Buio a mezzogiorno, Arthur Koestler scrisse I gladiatori, che rievocava la storia del combattente tracio che nel 73 a.C. capeggiò la rivolta degli schiavi contro Roma. I centomila rivoltosi — ne I gladiatori — dopo una guerra assai feroce fondano una loro Repubblica da cui sono bandite gerarchie e ingiustizia. Ma un gruppo di ribelli capeggiati da Criso il Gallo vuole continuare a saccheggiare e stuprare; ne deriverà una guerra civile tra schiavi che porterà alla rovina il movimento rivoluzionario; Spartaco sarà costretto a crocifiggere alcuni dei suoi seguaci della prima ora e finirà lui stesso crocefisso dai romani. Una vicenda che ha sempre ispirato le fantasie del romanticismo rivoluzionario, ma che Koestler presentò come una metafora del potere in conflitto con la giustizia, della carica di violenza che è insita nell’utopia, della rivoluzione che inesorabilmente è destinata ad autodistruggersi. Ma anche qui scarsa verosimiglianza storica.
Purtroppo, mette in chiaro Le Bohec, i testi antichi che fanno esplicito riferimento a questa vicenda sono pochi («per l’essenziale, cinque autori in tutto»), brevi («una decina di pagine ciascuno»), non sempre si sovrappongono, e così non è facile metterli a confronto. Anzi, «quasi a complicare il nostro lavoro», talvolta si contraddicono. Di conseguenza, «a volte chi li utilizza deve proporre il verosimile in mancanza del vero» che «è il peggior metodo storico possibile»; ma «è anche l’unico, a meno di proporre ipotesi multiple e lasciare che a scegliere sia il lettore».
Il bersaglio esplicito di Le Bohec sono gli storici che — sostiene — dovrebbero «costruire le proprie argomentazioni sui testi e non sulle illusioni». Il libro offre un’ampia panoramica di studi sul capo della rivolta compiuti con grande scrupolo nei Paesi ex comunisti. Naturalmente, scrive le Bohec, «è logico che gli autori dell’Europa dell’Est, tutti marxisti prima della caduta del Muro di Berlino, si siano interessati in modo particolare a questo ribelle, fino a trasformarlo in un mito». Molti testi «scritti in questo spirito» sono stati pubblicati — soprattutto, ma non solo — in russo, in polacco, in rumeno, in ceco e in tedesco (nell’ex Germania orientale). In tal modo e «in perfetta buona fede» questi storici hanno spostato l’attenzione verso «una problematica che oggi appare del tutto secondaria», lasciando da parte, nella migliore delle ipotesi, «o addirittura occultando», nella peggiore, questioni ben più importanti. Per loro contava solo che si trattasse di «un caso esemplare di lotta di classe nell’antichità». A dire il vero oggi, ironizza Le Bohec, «nessuno si domanda più se Spartaco sia stato un precomunista, un protocomunista, un comunista perfetto o non sia stato affatto un comunista»; e discutere «per stabilire se abbia condotto o meno una lotta di classe, ormai interessa solo a qualche nostalgico di questa ideologia». In generale «non ci si preoccupa più di stabilire in che modo gli eventi si accordino con il catechismo e il credo marxisti».
Ma non c’è solo questo. Si è scritto, ad esempio che Spartaco era stato un soldato romano, che aveva disertato, poi era stato preso e condannato alla gladiatura. Ma dove sono le prove di questa ricostruzione storica? E «anche se fosse stato davvero un soldato — cosa che resta ancora da dimostrare — questo tracio certamente non ebbe accesso alle unità combattenti, né alle legioni, né ai gradi superiori». Essendo tracio, e non romano, «avrebbe al massimo potuto essere un ufficiale subalterno nei ranghi degli alleati, i socii». «Al massimo!», sottolinea Le Bohec. Per quanto riguarda la tattica e la strategia, quindi, «Spartaco non superava il livello di un odierno sottufficiale che presti servizio in una caserma di provincia». I gladiatori, poi, non avrebbero potuto sconfiggere i legionari per varie ragioni: prima di tutto «erano addestrati unicamente per il combattimento individuale»; in secondo luogo, «le loro armi erano destinate esclusivamente allo spettacolo e non alla guerra»; infine «praticavano una scherma diversa da quella in uso sul campo di battaglia». È facile farsi un’idea di ciò che un reziario, con la sua rete e il suo tridente, avrebbe potuto fare contro un fante pesante: «assolutamente niente».
Spartaco — per quel che se ne sa — nacque intorno al 93 a.C. in un popolo seminomade della Tracia. Vittima di una razzia, è stato condotto a Roma dove ha tentato di rivendicare la sua condizione di uomo libero, ma un tribunale ingiusto non ha accolto la sua domanda, sicché è stato venduto al proprietario di una scuola di gladiatori di Capua. Lì ha provocato una rivolta. È divenuto quindi un capobanda e ha condotto i suoi compagni sul Vesuvio. Il propretore Glabro non è riuscito a sconfiggerlo e neanche il pretore Varinio, i consoli Lentulo e Gellio. In pochissimo tempo ha saputo reclutare numerosi combattenti e la banda si è trasformata in una compagnia, poi in un vero esercito.
Per «garantire la sopravvivenza ai suoi uomini, per trovare rinforzi e perché era la regola delle guerre antiche, ha saccheggiato la Campania e poi la Lucania».
Bisogna «mettere da parte le utopie del XIX e del XX secolo». Gli schiavi «non si battevano per stabilire la giustizia sulla terra, né la libertà per tutti, ma semplicemente per sfuggire alla propria condizione». Non erano «colmi di bontà», ma esperti delle «crudeltà che contraddistinguevano tutti i conflitti dell’epoca: rapine, violenze, incendi, stragi». E Spartaco «non si comportava né come un missionario della democrazia né come un difensore della libertà». Probabilmente voleva soltanto ritornare in Tracia e «non aspirava ad altro che alla sua liberazione»; poiché «non poteva ottenerla da solo, ha sfruttato questo esercito di schiavi che si era costituito secondo le circostanze» (ma su questo punto molti storici ancora oggi non concordano e, pur non facendone un precursore della lotta di classe, attribuiscono al tracio disegni più ambiziosi).
Poi ha condotto i suoi «compagni di sventura» verso nord, per «fuggire attraverso i passi alpini», saccheggiando durante questo transito il Piceno. Avendo fallito in questo disegno, è tornato a sud, «saccheggiando di nuovo lo sventurato Piceno», con la speranza di prendere il mare per abbandonare l’Italia. Ma questa volta Roma gli ha mandato contro Crasso con un esercito adeguato «per quantità e qualità». Dopo essersi divincolato, Spartaco si è diretto verso l’estremo sud della penisola, «senza trovare le imbarcazioni di cui aveva bisogno». A questo punto non gli restava che cadere con le armi in pugno, provocando il maggior danno possibile ai suoi nemici. Spartaco «è morto da comandante di guerra», conclude Le Bohec.
C’è da notare in tutta questa vicenda una incredibile mancanza di disegno strategico. Anche se fossero riusciti ad andarsene dall’Italia, dove avrebbe trovato rifugio quella gran quantità di uomini? E, soprattutto che cosa resta della rivolta degli schiavi? Gli schiavi, risponde l’autore di questo libro, «non avevano un progetto così unitario come è stato affermato, tranne che su un punto»: nessuno di loro «pensò mai all’abolizione della schiavitù». D’altronde, scrive Le Bohec, anche ai giorni nostri i migliori difensori della schiavitù sono proprio coloro che la subiscono. Ciò era a tal punto evidente duemila anni fa che «gli autori antichi non menzionano mai un simile progetto». Mai, neanche una volta. Anzi, si spingono anche oltre, «descrivendo la vita e, a volte, la morte dei “buoni schiavi” sacrificatisi per il padrone».
Gli scrittori antichi, tutti, «dimostrano chiaramente che l’obiettivo di Spartaco e dei suoi non era quello che gli è stato attribuito». Ma, ironizza Le Bohec, «sarebbe stato necessario leggerli». Contrariamente a quanto hanno pensato gli storici del XX secolo, scrive Le Bohec, «alcuni personaggi hanno giocato un ruolo importante per i loro contemporanei»; erano quelli che, un tempo, gli accademici chiamavano con ironia e disprezzo i «grandi uomini». E Spartaco «anche se non fu un uomo grandissimo, va annoverato fra questi grandi uomini che fanno la storia e non la subiscono».
Scrive lo storico che l’esercito romano del I secolo a.C. era divenuto il migliore del mondo, che Spartaco ebbe il coraggio di attaccarlo, ma mai avrebbe potuto sconfiggerlo ed era naturalmente destinato a perdere la «battaglia decisiva». Nonostante questo «ha compiuto l’impresa di trasformare in veri soldati uomini che non erano nati per questo mestiere e per più di due anni ha saputo e potuto tenere a bada le legioni». Nel contempo ha fatto venire alla luce «che lo Stato romano e la società di cui esso era espressione conoscevano uno straordinario dinamismo». E, secondo Le Bohec, la «crisi descritta con gusto dagli storici» fu in realtà una «crisi di crescita». In quel mondo «gli schiavi occupavano un posto certamente molto scomodo» e «i gladiatori, in particolare, vivevano continuamente nell’orrore». Attenzione, però: le loro condizioni erano in realtà «assai diversificate». E «gli schiavi dalle mani pulite non si lamentavano troppo», anzi «pensavano probabilmente che il sistema nel quale vivevano non fosse per loro il peggiore possibile». Ma se le cose stavano in questo modo, resta un mistero su quale fosse il punto d’approdo di quella grandissima quantità di rivoltosi. Talché si ha l’impressione che nuovi studi dovranno dare una risposta — quantomeno in via ipotetica — a questa non irrilevante domanda.