Il manifesto 26.6.18
Giallo-verdi (o forse rosso-bruni?)
Si
fa crescere irrazionalmente la rabbia «del popolo» contro il capro
espiatorio di turno, anziché, razionalmente, contro le vere cause del
malessere sociale e un sistema economico che produce ingiustizie e
disuguaglianze, guerre e migrazioni di massa
di Alberto Leiss
Mi
è capitato in questo spazio, a proposito del «mondo nuovo» annunciato
da Grillo e dal «Governo del cambiamento», di affermare l’esigenza di
una battaglia linguistica senza quartiere. Il linguaggio che si adopera è
già un «fare» politica gravido di conseguenze: tutta la migliore
filosofia contemporanea indica il potere performativo delle parole e la
loro capacità di interagire con la nostra psicologia e i suoi fondamenti
inconsci (Lacan non diceva che l’inconscio «è strutturato come un
linguaggio»?).
Sulla Repubblica di ieri Marco Belpoliti scrive in
termini molto preoccupati della «neolingua» di Salvini: gli slittamenti
semantici (i migranti «in crociera» nel Mediterraneo, per i quali «è
finita la pacchia», e altre amenità terribili pronunciate – ormai
canonicamente – «da ministro e da papà») sono operati ogni giorno
«attraverso il continuo riferimento allo scontro.
Di più: Salvini
ha bisogno di individuare un capro espiatorio per l’insoddisfazione, il
malcontento e il risentimento che covano nel paese». E ancora: «Produrre
il nemico è il solo modo che Salvini ha per esistere politicamente. Non
ha idee, non ha visione per il futuro, non ha progetti, se non quello
di aumentare il proprio potere». Un fenomeno di opportunismo politico
che insiste sulle parole, le strumentalizza «come fa con le persone.
Irresponsabile e falsario, è un pericolo per tutti».
Per Letizia
Paolozzi (I Rom, Salvini e le Eumenidi, su Alfabeta2) il ministro
potrebbe anche essere personalmente «un pezzo di pane, ma i problemi
invece di risolverli li infiamma. Ci soffia sopra. E se i bubboni (per
Salvini la lista comprende oltre ai Rom, Sinti, gli immigrati, la
massaggiatrici orientali sulle spiagge, i venditori di pareo fino al
«fritto misto» delle coppie gay) si sono ingranditi, non ha intenzione
di curarli».
Il risultato è una continua riproduzione di rabbia, e
la rabbia «sorta di danza narcisistica – scrive ancora Paolozzi –
espressione e paradigma adatto alla mascolinità, non si scioglie
miracolosamente».
Si fa crescere irrazionalmente la rabbia «del
popolo» contro il capro espiatorio di turno, anziché, razionalmente,
contro le vere cause del malessere sociale e un sistema economico che
produce ingiustizie e disuguaglianze, guerre e migrazioni di massa. E
cresce pericolosamente anche la nostra rabbia (la mia per esempio)
contro lo stesso Salvini. È proprio «il lato oscuro della forza» che
viene evocato.
È poi leggermente inquietante che si tratti di una
fenomenologia con l’aspetto di un movimento internazionale,
probabilmente sostenuto da «poteri forti».
Dopo le visite italiane
dell’ideologo del trumpismo Steve Bannon, è stata la volta del russo
Alexander Dugin, dipinto dai media quale “Rasputin” di Putin. In due
interviste all’ Huffington Post e alla Repubblica questo singolare
filosofo e ideologo (seguace di Heidegger e di Julius Evola, fondatore
con Limonov, da cui poi si è separato, di un partito
«nazionalbolscevico») tesse l’elogio del governo giallo-verde italiano
quale «primo passo storico verso l’affermazione irreversibile del
populismo. Una nuova identità che guarda con fiducia alla Russia». Dugin
rifiuta le etichette di «fascismo» e respinge l’accusa di farsi
portatore di una ideologia «rosso-bruna»: la giustizia sociale va
coniugata alla tradizione e alle identità popolari, contro le «élite»
liberali. Ma quando lo fa evocando la tradizione imperiale russa e la
metafisica heideggeriana del Dasein (l’esserci), non si sa bene se
sorridere o ripensare a quel pittore fallito un po’ ridicolo che
arringava il «popolo» nelle birrerie di Monaco degli anni ’30.