l’espresso 24.6.18
Prima pagina
Partigiani
La nostra società va in decadenza se vengono meno la solidarietà e la giustizia sociale
Un cammino di civiltà
di Aboubakar Soumahoro
Caro
direttore, osservando quanto stiamo vivendo, a partire dai luoghi delle
contraddizioni sociali, mentre scrivo queste poche righe, mi viene in
mente quanto diceva Aimé Césaire: «Una civiltà che si dimostri incapace
di risolvere i problemi che produce il suo stesso funzionamento è una
civiltà in decadenza». Ma cosa vuol dire che una civiltà è in decadenza?
Ho ripetuto e sono convinto che la nostra civiltà, intesa come società
nelle sue varie articolazioni, è in decadenza quando si sostiene che
l’essere “umano” sia un problema, quando vengono chiusi i porti agli
esseri umani, mentre invece, le navi da guerra circolano liberamente e
indisturbate. La nostra civiltà è in decadenza quando si pensa di
risolvere i temi della giustizia sociale, i bisogni degli esclusi e
delle escluse attraverso le politiche di austerità, o quando vengono
colpiti con leggi repressive, con tagli allo Stato sociale o con la
ghettizzazione, coloro i quali decidono di lottare. Quando si utilizza
contro chi lotta un linguaggio incendiario e barbaro, perché privo di
capacità di argomentazione, o quando si privano lavoratori, precari,
disoccupati, studenti e pensionati della possibilità di uscire da questa
condizione di impoverimento di massa con l’esplosione delle
disuguaglianze sociali e la precarietà esistenziale che ci affliggono.
Penso che per uscire da questa situazione non si possa prescindere da
processi che definisco di «ricomposizione meticcia». Perché non si può
parlare di giustizia sociale se non si parla di antisessismo, di
antirazzismo e di antifascismo. Perché la solidarietà è la carne viva
della nostra società, che non vuol dire “buonismo”. Solidarietà vuol
dire coniugare umanità e giustizia sociale insieme, a partire dai
bisogni delle persone in quanto esseri umani e non merce di scambio. Una
solidarietà quindi che veda camminare insieme gomito a gomito
braccianti e rider, lavoratori del pubblico e quelli del privato,
disoccupati e precari, perché accomunati dal bisogno di un uguale
salario per un uguale lavoro. Ciò indipendentemente dal colore della
pelle e dalla provenienza geografica. Perché il bisogno di un lavoro e
di un giusto salario, il diritto all’abitare, alla pensione, a
costruirsi un presente e un futuro dignitoso, non possono essere negati a
nessuno. Si tratta di bisogni di donne e uomini, che siano gay,
lesbiche o meno, che richiedono risposte concrete senza alcuna
strumentalizzazione né da parte di coloro i quali ci hanno portato in
questo calvario né da chi ci governa oggi. La campagna di banalizzazione
e disumanizzazione, con progetti di schedature etniche o guerra a chi
salva vite umane, deinendoli taxi del mare, con l’utilizzo di un
linguaggio incendiario è sintomo di una decadenza che la nostra umanità
non può accettare, culturalmente e socialmente. C’è bisogno di
un’umanità aperta che sappia partire dai luoghi delle contraddizioni
sociali e culturali. Vale a dire insieme agli “invisibili e sfruttati”
sistematicamente e continuamente impoveriti dalle politiche di austerità
e dai tagli al welfare e ai servizi sociali, o dalle diverse forme di
oppressione che vivono sulla propria pelle. So bene che è una strada
impervia e diicile, sono più che consapevole che è lunga la lotta per
afermare i nostri diritti, ma siamo in cammino e non abbiamo nessuna
intenzione di fermarci.
Aboubakar Soumahoro è un
sindacalista della Usb che difende i diritti dei braccianti. È
italoivoriano, laureato in sociologia e ha 38 anni. La sua immagine,
insieme a quella del ministro dell’Interno Matteo Salvini era sulla
copertina dello scorso numero dell’Espresso