lunedì 25 giugno 2018

l’espresso 24.6.18
Prima pagina
Partigiani
La nostra società va in decadenza se vengono meno la solidarietà e la giustizia sociale
Un cammino di civiltà
di Aboubakar Soumahoro


Caro direttore, osservando quanto stiamo vivendo, a partire dai luoghi delle contraddizioni sociali, mentre scrivo queste poche righe, mi viene in mente quanto diceva Aimé Césaire: «Una civiltà che si dimostri incapace di risolvere i problemi che produce il suo stesso funzionamento è una civiltà in decadenza». Ma cosa vuol dire che una civiltà è in decadenza? Ho ripetuto e sono convinto che la nostra civiltà, intesa come società nelle sue varie articolazioni, è in decadenza quando si sostiene che l’essere “umano” sia un problema, quando vengono chiusi i porti agli esseri umani, mentre invece, le navi da guerra circolano liberamente e indisturbate. La nostra civiltà è in decadenza quando si pensa di risolvere i temi della giustizia sociale, i bisogni degli esclusi e delle escluse attraverso le politiche di austerità, o quando vengono colpiti con leggi repressive, con tagli allo Stato sociale o con la ghettizzazione, coloro i quali decidono di lottare. Quando si utilizza contro chi lotta un linguaggio incendiario e barbaro, perché privo di capacità di argomentazione, o quando si privano lavoratori, precari, disoccupati, studenti e pensionati della possibilità di uscire da questa condizione di impoverimento di massa con l’esplosione delle disuguaglianze sociali e la precarietà esistenziale che ci affliggono. Penso che per uscire da questa situazione non si possa prescindere da processi che definisco di «ricomposizione meticcia». Perché non si può parlare di giustizia sociale se non si parla di antisessismo, di antirazzismo e di antifascismo. Perché la solidarietà è la carne viva della nostra società, che non vuol dire “buonismo”. Solidarietà vuol dire coniugare umanità e giustizia sociale insieme, a partire dai bisogni delle persone in quanto esseri umani e non merce di scambio. Una solidarietà quindi che veda camminare insieme gomito a gomito braccianti e rider, lavoratori del pubblico e quelli del privato, disoccupati e precari, perché accomunati dal bisogno di un uguale salario per un uguale lavoro. Ciò indipendentemente dal colore della pelle e dalla provenienza geografica. Perché il bisogno di un lavoro e di un giusto salario, il diritto all’abitare, alla pensione, a costruirsi un presente e un futuro dignitoso, non possono essere negati a nessuno. Si tratta di bisogni di donne e uomini, che siano gay, lesbiche o meno, che richiedono risposte concrete senza alcuna strumentalizzazione né da parte di coloro i quali ci hanno portato in questo calvario né da chi ci governa oggi. La campagna di banalizzazione e disumanizzazione, con progetti di schedature etniche o guerra a chi salva vite umane, deinendoli taxi del mare, con l’utilizzo di un linguaggio incendiario è sintomo di una decadenza che la nostra umanità non può accettare, culturalmente e socialmente. C’è bisogno di un’umanità aperta che sappia partire dai luoghi delle contraddizioni sociali e culturali. Vale a dire insieme agli “invisibili e sfruttati” sistematicamente e continuamente impoveriti dalle politiche di austerità e dai tagli al welfare e ai servizi sociali, o dalle diverse forme di oppressione che vivono sulla propria pelle. So bene che è una strada impervia e diicile, sono più che consapevole che è lunga la lotta per afermare i nostri diritti, ma siamo in cammino e non abbiamo nessuna intenzione di fermarci.

Aboubakar Soumahoro è un sindacalista della Usb che difende i diritti dei braccianti. È italoivoriano, laureato in sociologia e ha 38 anni. La sua immagine, insieme a quella del ministro dell’Interno Matteo Salvini era sulla copertina dello scorso numero dell’Espresso