sabato 30 giugno 2018

La Stampa TuttoLibri 30.6.18
“Artisti, tornate a pensare in grande al Mondo serve un nuovo Rinascimento” Dall’amore per la letteratura alle ideologie moderne, gli scritti del premio Nobel sul potere della bellezza “Le mode, i soldi e il politicamente corretto sono trappole: per creare davvero bisogna essere in fuga”
di Leonardo Martinelli


Gao Xingjian è nato in Cina nel 1940; vive a Parigi dal 1988, con cittadinanza francese. Nel 2000 è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura. Artista poliedrico, è scrittore, pittore,
drammaturgo e critico letterario, oltre che traduttore e regista teatrale e cinematografico. Tra i
suoi libri editi in Italia, ricordiamo «Una canna da pesca per mio nonno», «Per un’altra estetica», «La montagna dell’anima», «Il libro di un uomo solo» (tutti editi da Rizzoli), «Teatro» (Ets) e «Letteratura e ideologia» (con Claudio Magris, Bompiani).

Gira e rigira fra le mani l’edizione italiana di Per un nuovo Rinascimento. Gao Xingjian, nel suo appartamento a Parigi, osserva il libro, pubblicato dalla Nave di Teseo, con un bel sorriso: «Sono così contento di lanciare un appello così in quella che fu la patria del Rinascimento». Minuto e gentile, l’immagine del saggio cinese, Gao Xingjian ha 78 anni. Romanziere (vinse nel 2000 il Nobel per la letteratura, allora una plateale sorpresa), ma anche drammaturgo (le ultime pièce le ha scritte direttamente in francese: vive a Parigi in esilio dal 1988), regista cinematografico, pittore. E saggista, come con il nuovo testo, dove invita gli artisti a lasciarsi dietro il dogma della modernità, l’assillo delle proprie identità e le ideologie politiche di ogni sorta, per abbandonarsi a un nuovo Rinascimento in nome della bellezza. Il libro è una raccolta di discorsi e di «lectio magistralis» che Gao Xingjian ha tenuto nei posti più lontani, in tutto il mondo, anche in Italia. Ammette di averli scritti originariamente in cinese, lingua materna e del suo pensiero, per indagare il rapporto della letteratura con la libertà, l’ideologia, l’identità. «Liberiamoci dal banale utilitarismo – scrive -, non pensiamo all’arte e alla letteratura come a un’arma, né come a uno strumento o una merce».
Ma quando arriverà questo nuovo Rinascimento?
«Può nascere anche nell’immediato. Basta ritornare a creare arte senza alcun interesse: né politico, né economico. L’artista deve esprimersi liberamente».
Pensava al Rinascimento italiano, scrivendo i testi dei discorsi e delle lezioni, che compongono il suo nuovo saggio?
«Certo. Solo così si capisce come dall’arte contemporanea ormai la bellezza sia bandita. Prevalgono le mode o il design. Non una bellezza pura, è sparita la sensazione del bello. Non ci sono vere circostanze esistenziali e umane, i sentimenti e la loro complessità o l’angoscia. Ma solo piccole idee, rappresentate da una moda o dal design. È molto triste».
Per lei politica e propaganda sono le peggiori nemiche dell’arte. Eppure a lungo la letteratura doveva essere impegnata o non era…
«Significa imporre il principio del politicamente corretto all’arte. Ogni partito e ogni periodo storico hanno il loro. L’arte diventa propaganda e perde la sua profondità, il giudizio estetico, la conoscenza dell’umanità».
In quel modo, però, si dava vita a delle utopie, che erano pure rassicuranti, non trova?
«L’utopia comunista è la più importante del ventesimo secolo. Cos’ha portato? La dittatura totale. E dal marxismo non ne siamo ancora usciti, neppure dal nazionalismo o dal liberalismo. Sono contro gli -ismi. Con un -ismo si crea un sistema di pensiero: tutto è spiegato da un apparato prestabilito e predefinito. Ma la realtà è più complessa».
E dire che lei, autore cinese fuggito dalla Cina comunista, sarebbe stato un «letterato impegnato» ideale. Non ne ha mai avuta la tentazione?
«Rapidamente ci sono molti scrittori in esilio che diventano “dissidenti”. E fanno un’altra politica, opposta a quella da cui sono fuggiti, ma che rientra ancora una volta nel politicamente corretto. Io rifiutai subito quell’approccio».
In «Per un nuovo Rinascimento» invita a superare la logica della dialettica hegeliana. Perché?
«Altrimenti si resta bloccati in una dualità, che impoverisce, dove ci sono il giusto e lo sbagliato, il bene e il male. Nero e bianco, rivoluzionario e reazionario. Hegel ha segnato il pensiero contemporaneo, tanto più che Marx l’ha assunto come base della sua filosofia, nella “negazione della negazione”. Si motiva la società con la rivoluzione, che fa tabula rasa di tutto quello che è venuto prima. Ma è una visione troppo riduttiva».
Nel suo testo scrive anche del vantaggio di essere uno scrittore in fuga…
«Serve a salvarsi, in tutti i sensi, non solo fisico. L’identità non è l’origine di un individuo ma solo una nozione ideologica e politica, imposta. Si può essere francesi, italiani o cinesi, ma nel profondo si è prima di tutto uomini. Non è l’identità che conta. È la tua vita ad avere un’importanza capitale. Penso a Dante. Anche lui fu un esule».
Conosce la Divina Commedia?
«Iniziai a leggerla in Cina, a 18 anni, all’università, nella traduzione in cinese. Da anni la tengo accanto al letto e la rileggo di continuo. È lì assieme ad altri testi, come la Bibbia o Shakespeare».
Nell’edizione italiana di «Per un nuovo Rinascimento» sono inseriti alcuni dei suoi quadri: anche nella pittura cerca di superare gli schemi dominanti?
«Quando mi chiedono se sono figurativo o astratto, rispondo che me ne frego di queste distinzioni. Tra i due esiste un vasto campo da esplorare. Mi piace evocare sogni con immagini sfocate e oniriche. Cerco di trovare un’espressione del subconscio».
Lei dipinge con l’inchiostro di china. Lo mai fatto con i colori?
«Sì, ma smisi dopo un viaggio in Italia. Fu uno dei primi che potei fare all’estero, dopo la morte di Mao, con un gruppo di artisti cinesi. Andai ad ammirare tutti i capolavori dell’arte italiana. Capii che con le mie pitture all’olio e figurative non sarei andato da nessuna parte. Cambiai genere».
Durante la rivoluzione culturale finì in rieducazione per cinque anni nella campagna. Riusciva a dipingere? O a scrivere?
«Solo scrivere, nascondendomi. Ne venne fuori un lungo romanzo proprio sulla rivoluzione culturale. Poi mi richiamarono a Pechino. E io andai nella piazza Tienanmen, in occasione delle proteste contro la politica di Mao, nel 1976, pochi mesi prima che morisse. Scattai delle foto. Dopo, rientrando a casa, mi resi conto che mi seguivano. Ebbi paura e bruciai quel manoscritto, che tenevo gelosamente con me. Ci misi una settimana. Lo facevo di notte, foglio per foglio, per non generare troppo fumo. Perché i vicini non capissero».
Piangeva mentre bruciava la sua opera?
«No, avevo troppa paura, non c’era il tempo di piangere».
Lei non è più ritornato in Cina: ha nostalgia?
«A me andò via subito, all’inizio dell’esilio. Ho sofferto troppo, per me la Cina è solo un incubo. E lì ancora oggi le mie opere e il mio nome sono censurati. Poi, il mondo è immenso e la mia vita è qui a Parigi. Ho troppe cose da fare: non ho il tempo neanche di avere nostalgia».