Il Fatto 30.6.18
Almirante & C. Le strade che indicano l’oblio
di Salvatore Settis
“I
parafulmini devono essere saldamente infissi nel terreno. Anche le idee
più astratte e più speculative devono essere ancorate nella realtà,
nella materia delle cose. Che dire allora dell’idea di Europa?”. Con
queste parole si apre una pagina specialmente intensa del saggio Una
certa idea di Europa di George Steiner (2004).
Steiner definisce
la sua idea di Europa, per opposizione all’America, secondo cinque
parametri, esposti con grande forza metaforica. Per citarne uno solo,
l’Europa di Steiner è un luogo di memoria dominato dalla sovranità del
ricordo. Perciò non ci sono né 5th Avenue come a New York né F Street
come a Washington. Le nostre strade sono intitolate a personaggi
storici, “prova di una fortissima volontà di ricordare”.
Non sono
passati vent’anni, ed è già ora di chiederci se è ancora così. Se i nomi
delle strade servono a ricordare, o non piuttosto a dimenticare. Che
cosa, infatti, dovrebbe ricordarci l’iniziativa di intitolare a Giorgio
Almirante una via di Roma? Non ripercorriamo, per carità di patria, la
delibera del Consiglio comunale, la prima reazione del sindaco (“l’aula è
sovrana”), seguita da un veloce dietrofront, le dichiarazioni del
ministro dell’Interno “Ci sono via Marx, via Togliatti e via
Stalingrado, non vedo quale sarebbe il problema – la storia non si
processa ma si ricorda”. Chiediamoci: che cosa ricorderebbe una “via
Almirante” agli smemorati consiglieri che dicono di averla votata perché
non sapevano chi Almirante mai fosse? Per loro, i nomi delle strade
servono per ricordare, o per legittimare l’oblio?
“Quale sarebbe
il problema”? dice il baldanzoso ministro. Rispondiamo con le parole
dello stesso Almirante, scelte fra tante, troppe, del tutto simili: “Il
razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo
che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il
razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie
vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e
confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere
quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto
alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo
determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte
d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e
ingannatore. Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli
ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e
confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure
il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di
spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a
passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre
l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”. La
citazione (15.3.1942) è dalla famigerata rivista La difesa della razza,
di cui Giorgio Almirante fu segretario di redazione. Dietro ogni sillaba
ci sono famiglie distrutte, ebrei deportati, case e patrimoni
saccheggiati, vecchi e bambini in carri bestiame, camere a gas, delitti
infami. In nome della “purezza” del “sangue italiano”. Se Salvini “non
vede il problema”, sarà perché gli consta che Almirante si è pentito
della sua complicità con gli assassini? Da parte di un Ministro
dell’Interno, sarebbe il minimo.
Steiner non poteva immaginare
nulla di questo, scrivendo la pagina da cui siamo partiti. Ma non poteva
trovare metafora più adatta dei parafulmini che “devono essere
saldamente infissi nel terreno”. Oggi più che mai abbiamo bisogno di
parafulmini, perché oggi più di ieri si addensano sulle nostre teste
nubi nerissime, e i fulmini del razzismo tornano a imperversare. Forse
ci sono già addosso, e non ce ne siamo accorti abbastanza. I fulmini,
dico, non del passato che abbiamo ereditato dal fascismo, ma del futuro
che ci minaccia. “Il gioco dei meticci e degli ebrei” era il bersaglio
della Difesa della razza, e delle leggi razziali di cui ricorre
quest’anno l’80° anniversario. La purezza della “razza italiana”, “della
carne e dei muscoli” secondo Almirante, doveva essere l’ideale supremo.
Ma se c’è un vanto che gli italiani dovrebbero rivendicare, è di essere
meticci quanto nessun altro. Greci, romani, etruschi, italici, fenici,
ebrei nell’antichità. Longobardi, arabi, catalani, francesi, slavi,
albanesi nel medioevo. Turchi, spagnoli, austriaci, tedeschi, e altri
ancora da allora in poi. È da questo straordinario, intrecciatissimo
meticciato che nasce la civiltà italiana come la conosciamo. Per non
dire di un altro e sempre vivo meticciato, il continuo innesto di
migranti italiani in tutta Europa e in ogni altro continente. Perciò la
lotta contro il “meticcio” è un progetto funesto e suicida.
Secondo
la propaganda di cui Almirante fu paladino, gli ebrei vorrebbero
astutamente “dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e
riuscire a passare per tali”. A parole forsennate come queste, il MEIS
(Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah) aperto da pochi mesi a
Ferrara offre una risposta forte e pacata. La mostra di prefigurazione
con cui ha aperto (catalogo Electa) ha un titolo eloquente: Ebrei, una
storia italiana. I primi mille anni. Per ricordare agli italiani (anche a
quelli che delle leggi razziali non sanno nulla) che una comunità
ebraica esiste sul suolo italiano da oltre duemila anni. E ricordarlo
con la piana efficacia degli oggetti d’uso comune, dei poveri resti di
esseri umani come noi. Oggetti, nomi di umili donne e uomini che
percorsero le strade della Roma imperiale, e i cui discendenti abitano
fino a oggi la stessa città. Poche volte, come al MEIS, l’archeologia ha
saputo dimostrare la silenziosa potenza di quella che potremmo chiamare
la memoria delle cose.
Memoria e oblio sono, entrambi, attori
centrali del grande dramma della storia. Sta a noi scegliere. Sta a noi
sapere, o ignorare, che la cultura e le tradizioni ebraiche sono una
componente essenziale della storia nazionale italiana, e non una volgare
furbizia di infiltrati. Che l’Italia, anzi, ha una responsabilità
speciale nel coltivare la memoria della storia ebraica: perché da Roma
partirono, con Tito e con Adriano, eserciti che distrussero Gerusalemme e
il Tempio (nulla lo ricorda con tanta arte e tanta violenza come l’arco
di Tito). Nell’Europa multiculturale che si va formando (e che nessun
respingimento potrà fermare), inveire contro i meticci o celebrare chi
lo ha fatto 80 anni fa è prova di dannosa cecità. Lo è anche quando
venga cinicamente sbandierata per i micro-calcoli di una politica da
quattro soldi, pronta a tutto pur di raccattare voti, alleanze, consensi
effimeri.