lunedì 18 giugno 2018

La Stampa TuttoLibri 16.6.18
Il “j’accuse” di Pareto dall’Italia dell’800: la Casta è al servizio solo di se stessa
Una feroce analisi dell’era Crispi nelle lettere che l’economista scrisse per una rivista anarchica americana dalla cialtroneria della classe politica, alle trappole dell’ignoranza e del populismo, alla fede liberale
di Ugo Magri


Il fascino delle lettere a «Liberty» è che parlano di grandi cose. Raccontano il mondo come è ma anche, in filigrana, come potrebbe progredire. Riconoscono alla mente umana la capacità di emanciparsi dai falsi miti, di smascherare gli orpelli del potere e, con l’aiuto della ragione, di plasmare forme di libertà che non si adagiano sul presente. Insomma, trattano della Politica maiuscola, quella capace di suscitare passioni perfino negli spiriti più refrattari, meno inclini a farsi trascinare nell’arena. E certamente Vilfredo Pareto, l’autore di queste lettere, era il massimo del disincanto, quanto di più lontano si potesse concepire dai modelli utopico-rivoluzionari: semmai un impasto liberale e conservatore, un economista che in seguito avrebbe applicato il metodo sperimentale alle dinamiche sociali. Insomma: una mente distaccata, lucida, razionale.
Eppure nei reportage di Pareto sull’Italia crispina fine Ottocento, destinati a una rivista anarchica di Boston e raccolti per la prima volta in volume da Alberto Mingardi (L’ignoranza e il malgoverno - Lettere a “Liberty”), si coglie una vibrazione emotiva, si percepiscono idealità profonde. «Mi occupo delle sofferenze del popolo e dell’oppressione praticata dalla borghesia perché si tratta di fatti reali», annota il futuro padre della scienza politica. Rivendica, senza pose eroiche, «la forza e il coraggio di rimanere a schiena dritta quando gli altri si inginocchiano» davanti al «crescente potere dei governi». Individua nell’istruzione delle masse la vera e unica via dell’emancipazione: «Ogni giorno in più mi persuado che quasi tutti i mali della società hanno per ragione l’ignoranza», «solo attraverso l’educazione e l’insegnamento riusciremo un giorno a migliorare questo stato di cose». Quanto di più lontano da lui è l’idea che le classi oppresse possano spezzare la proprie catene ribellandosi. Il suo pessimismo, al riguardo, è totale, definitivo: «Se il potere passasse nelle mani delle masse, esse non ne farebbero uso migliore; al contrario, dacché esse sono ancora più ignoranti e brutali della borghesia, la loro oppressione sarebbe peggiore. Di conseguenza il rimedio, a mio avviso, non sta in un cambiamento del padrone, per quanto possa rappresentare forse», concede agli interlocutori d’oltreoceano, «una transizione necessaria; per come la vedo io, l’unico modo di diminuire la somma totale della sofferenza nel Paese è di sottrarre l’individuo quanto più possibile al potere del governo».
Giustamente Mingardi, nel presentare le lettere di Pareto, si sofferma sui loro destinatari, in quanto di anarchici si trattava, e in un periodo storico in cui la sola parola bastava a suscitare allarme nei poteri costituiti. In questo caso, però, l’anarchismo della rivista Liberty non prevedeva le bombe, ogni ricorso alla violenza era bandito. La lotta veniva propugnata sotto forma di resistenza passiva a uno Stato sempre più invadente che, diversamente dai liberali alla Pareto, Benjamin R.Tucker e gli altri eretici di Boston non volevano semplicemente limitare, ma abolire del tutto lasciando gli individui pienamente padroni del loro destino. Se si vuole, un liberalismo all’ennesima potenza, con influenze spenceriane, echi di Max Stirner, richiami a Bakunin e suggestioni religiose che, nel Nuovo Mondo, a quel tempo non mancavano mai.
L’attualità delle lettere sta nella critica, oggi diremmo, della casta politica. Eterna. Immutabile. Auto-indulgente. Profittatrice. Le élites nazionali al servizio esclusivo di se stesse. Pareto ne mette a nudo i falsi propositi: «E’ sempre molto difficile determinare con precisione in che misura un politico ha sacrificato gli interessi del suo Paese ai propri: spesse volte egli arriva a credere che sta agendo per il bene del suo Paese nello stesso momento in cui avvantaggia delle circostanze per accrescere le proprie fortune o il proprio potere». E ancora: «In tutte le classi dirigenti noi troviamo persone che onestamente credono che i loro principi e il dominio della loro classe siano nell’interesse generale. Ma questa circostanza non giustifica in nessun modo tale regola: dobbiamo solo concluderne che è necessario essere molto indulgenti con gli uomini rimanendo inesorabili circa i principi». Chiosa Mingardi, guardando al presente: «Con l’eccezione di un breve intervallo nel secondo dopoguerra, la classe dirigente italiana ha fatto di corruzione e cialtroneria il suo tratto saliente. Per coloro che si disperano ad ogni campagna elettorale, vedendo deteriorare la qualità del discorso pubblico e immiserirsi il ceto politico, è quasi un pensiero confortante».