La Stampa TuttoLibri 16.6.18
Il “j’accuse” di Pareto dall’Italia dell’800: la Casta è al servizio solo di se stessa
Una
feroce analisi dell’era Crispi nelle lettere che l’economista scrisse
per una rivista anarchica americana dalla cialtroneria della classe
politica, alle trappole dell’ignoranza e del populismo, alla fede
liberale
di Ugo Magri
Il fascino delle lettere a
«Liberty» è che parlano di grandi cose. Raccontano il mondo come è ma
anche, in filigrana, come potrebbe progredire. Riconoscono alla mente
umana la capacità di emanciparsi dai falsi miti, di smascherare gli
orpelli del potere e, con l’aiuto della ragione, di plasmare forme di
libertà che non si adagiano sul presente. Insomma, trattano della
Politica maiuscola, quella capace di suscitare passioni perfino negli
spiriti più refrattari, meno inclini a farsi trascinare nell’arena. E
certamente Vilfredo Pareto, l’autore di queste lettere, era il massimo
del disincanto, quanto di più lontano si potesse concepire dai modelli
utopico-rivoluzionari: semmai un impasto liberale e conservatore, un
economista che in seguito avrebbe applicato il metodo sperimentale alle
dinamiche sociali. Insomma: una mente distaccata, lucida, razionale.
Eppure
nei reportage di Pareto sull’Italia crispina fine Ottocento, destinati a
una rivista anarchica di Boston e raccolti per la prima volta in volume
da Alberto Mingardi (L’ignoranza e il malgoverno - Lettere a
“Liberty”), si coglie una vibrazione emotiva, si percepiscono idealità
profonde. «Mi occupo delle sofferenze del popolo e dell’oppressione
praticata dalla borghesia perché si tratta di fatti reali», annota il
futuro padre della scienza politica. Rivendica, senza pose eroiche, «la
forza e il coraggio di rimanere a schiena dritta quando gli altri si
inginocchiano» davanti al «crescente potere dei governi». Individua
nell’istruzione delle masse la vera e unica via dell’emancipazione:
«Ogni giorno in più mi persuado che quasi tutti i mali della società
hanno per ragione l’ignoranza», «solo attraverso l’educazione e
l’insegnamento riusciremo un giorno a migliorare questo stato di cose».
Quanto di più lontano da lui è l’idea che le classi oppresse possano
spezzare la proprie catene ribellandosi. Il suo pessimismo, al riguardo,
è totale, definitivo: «Se il potere passasse nelle mani delle masse,
esse non ne farebbero uso migliore; al contrario, dacché esse sono
ancora più ignoranti e brutali della borghesia, la loro oppressione
sarebbe peggiore. Di conseguenza il rimedio, a mio avviso, non sta in un
cambiamento del padrone, per quanto possa rappresentare forse», concede
agli interlocutori d’oltreoceano, «una transizione necessaria; per come
la vedo io, l’unico modo di diminuire la somma totale della sofferenza
nel Paese è di sottrarre l’individuo quanto più possibile al potere del
governo».
Giustamente Mingardi, nel presentare le lettere di
Pareto, si sofferma sui loro destinatari, in quanto di anarchici si
trattava, e in un periodo storico in cui la sola parola bastava a
suscitare allarme nei poteri costituiti. In questo caso, però,
l’anarchismo della rivista Liberty non prevedeva le bombe, ogni ricorso
alla violenza era bandito. La lotta veniva propugnata sotto forma di
resistenza passiva a uno Stato sempre più invadente che, diversamente
dai liberali alla Pareto, Benjamin R.Tucker e gli altri eretici di
Boston non volevano semplicemente limitare, ma abolire del tutto
lasciando gli individui pienamente padroni del loro destino. Se si
vuole, un liberalismo all’ennesima potenza, con influenze spenceriane,
echi di Max Stirner, richiami a Bakunin e suggestioni religiose che, nel
Nuovo Mondo, a quel tempo non mancavano mai.
L’attualità delle
lettere sta nella critica, oggi diremmo, della casta politica. Eterna.
Immutabile. Auto-indulgente. Profittatrice. Le élites nazionali al
servizio esclusivo di se stesse. Pareto ne mette a nudo i falsi
propositi: «E’ sempre molto difficile determinare con precisione in che
misura un politico ha sacrificato gli interessi del suo Paese ai propri:
spesse volte egli arriva a credere che sta agendo per il bene del suo
Paese nello stesso momento in cui avvantaggia delle circostanze per
accrescere le proprie fortune o il proprio potere». E ancora: «In tutte
le classi dirigenti noi troviamo persone che onestamente credono che i
loro principi e il dominio della loro classe siano nell’interesse
generale. Ma questa circostanza non giustifica in nessun modo tale
regola: dobbiamo solo concluderne che è necessario essere molto
indulgenti con gli uomini rimanendo inesorabili circa i principi».
Chiosa Mingardi, guardando al presente: «Con l’eccezione di un breve
intervallo nel secondo dopoguerra, la classe dirigente italiana ha fatto
di corruzione e cialtroneria il suo tratto saliente. Per coloro che si
disperano ad ogni campagna elettorale, vedendo deteriorare la qualità
del discorso pubblico e immiserirsi il ceto politico, è quasi un
pensiero confortante».