lunedì 18 giugno 2018

La Stampa TuttoLibri 16.6.18
Non si muore di troppo dolore: i greci ce lo insegnano da 3mila anni
Dopo la scomparsa della moglie un uomo perde la forza di andare avanti e occuparsi del figlioletto ma una studentessa, innamorata dei poeti antichi, gli fa dimenticare “il mare color del vino”
di Andrea Marcolongo

Saresti la stessa persona se non assaporassi l’Antichità? Quel sapore di patina?», chiede al protagonista la ragazza bionda che gli dorme accanto. Christophe Ono-dit-Biot ha il talento di rispondere a questa domanda nel suo nuovo libro, Credere al meraviglioso, dopo il successo mondiale di Immersione. In un’Europa atterrita dalla paura di smarrire le sue origini e intossicata dalla nostalgia, in cui si sfornano valanghe di saggi per convincere qualcuno (forse solo se stessi) che il classico sia utile e dunque da salvare, Ono-dit-Biot ha la sfrontatezza di usare l’immaginazione e di scrivere invece un romanzo. Proprio come un tempo lontano fece Omero, il francese ha intuito ciò che serve oggi: uno sguardo nuovo e uno stile un po’ da pirata per sfidare l’amnesia collettiva con «ossigeno narrativo». Calvino gli avrebbe dato ragione.
Ecco dunque la storia di un uomo, un giornalista originario della Normandia poco più che quarantenne, che ha perduto la moglie spagnola che tanto amava e che gli ha lasciato un figlio cui badare, identico a lei - «il grande tuffo» ha fatto Paz, scegliendo di morire nell’acqua. Ora spetta a lui riemergere da quel mare color del vino e che si chiama dolore, disperazione, alcool, forse vecchiaia. Di certo, da quella patina che la vita, con il suo scorrere, lascia intorno agli occhi di tutti noi che mortali siamo, non dei. Dall’Italia, «in tutto il suo splendore sofisticato e barbaro», inizia il lungo viaggio del protagonista alla ricerca del ricordo di lei e della sua presenza nell’assenza. Tra i caffè ristretti della costiera amalfitana dove cerca di aggiustare la statua di una sirena che lui e Paz avevano acquistato insieme in quei giorni felici in cui facevano l’amore sulle maioliche del pavimento per rinfrescare i loro corpi dopo l’orgasmo - statua maldestramente arrivata a Parigi rotta e che adesso bisogna ricomporre perché è per lui symbolon di lei, ceramica che gli antichi spezzavano e si scambiavano per legare per sempre due esseri umani, prova eterna del loro perfetto incastro. Per poi arrivare tristemente a capire che «non ero Orfeo, e nemmeno Orfeo, comunque, era riuscito a riprendersi Euridice. Per il semplice motivo che i morti sono morti. Non li si riprende.»
Arriva una sera di canicola estiva, dietro a una libreria che scintilla di giallo e di rosso, le copertine delle edizioni classiche Budé, e arrivano anche le pillole acquistate comodamente su Internet per farla finita - atarassia via eBay. Fino a che non suona alla porta una ragazza bionda, studentessa di architettura e figlia di un ricchissimo armatore greco, caviglie sottili, occhi azzurri: si chiama Nana. È con lei, correndo in Vespa per Parigi, tra Pisco Sour (il vero nettare degli dei) e folli attentati di chi ha smarrito un dio, con un catalogo di tatuaggi al posto dell’omerico catalogo delle navi, che il protagonista inizia la sua risurrezione: perché Orfeo non è morto, sono tremila anni che i Greci ci insegnano che di troppo dolore non si muore, mai. E che ciò che salva è la luce, come quella di Teshima, l’isola del Giappone dove una nuova, antica Alba si leverà sulla vita del protagonista e di suo figlio.
Ono-dit-Biot (che ha tradotto tutti i passi in greco e in latino presenti nel libro) nell’antico si getta con l’agilità, e forse con il dolore, del magico Tuffatore dipinto sulla tomba di Paestum, nudo e con un occhio aperto, chiaro. Il risultato di questa immersione è un romanzo unico, sublime nel senso etimologico del termine, sotto la superficie dell’acqua, della banalità delle cose e del nostro tempo arrogante. Perché «delle volte, è bello credere al meraviglioso» - leggendo il suo romanzo s’intuisce che ne abbiamo tutti un bisogno disperato.