La Stampa TuttoLibri 16.6.18
Non si muore di troppo dolore: i greci ce lo insegnano da 3mila anni
Dopo
la scomparsa della moglie un uomo perde la forza di andare avanti e
occuparsi del figlioletto ma una studentessa, innamorata dei poeti
antichi, gli fa dimenticare “il mare color del vino”
di Andrea Marcolongo
Saresti
la stessa persona se non assaporassi l’Antichità? Quel sapore di
patina?», chiede al protagonista la ragazza bionda che gli dorme
accanto. Christophe Ono-dit-Biot ha il talento di rispondere a questa
domanda nel suo nuovo libro, Credere al meraviglioso, dopo il successo
mondiale di Immersione. In un’Europa atterrita dalla paura di smarrire
le sue origini e intossicata dalla nostalgia, in cui si sfornano
valanghe di saggi per convincere qualcuno (forse solo se stessi) che il
classico sia utile e dunque da salvare, Ono-dit-Biot ha la sfrontatezza
di usare l’immaginazione e di scrivere invece un romanzo. Proprio come
un tempo lontano fece Omero, il francese ha intuito ciò che serve oggi:
uno sguardo nuovo e uno stile un po’ da pirata per sfidare l’amnesia
collettiva con «ossigeno narrativo». Calvino gli avrebbe dato ragione.
Ecco
dunque la storia di un uomo, un giornalista originario della Normandia
poco più che quarantenne, che ha perduto la moglie spagnola che tanto
amava e che gli ha lasciato un figlio cui badare, identico a lei - «il
grande tuffo» ha fatto Paz, scegliendo di morire nell’acqua. Ora spetta a
lui riemergere da quel mare color del vino e che si chiama dolore,
disperazione, alcool, forse vecchiaia. Di certo, da quella patina che la
vita, con il suo scorrere, lascia intorno agli occhi di tutti noi che
mortali siamo, non dei. Dall’Italia, «in tutto il suo splendore
sofisticato e barbaro», inizia il lungo viaggio del protagonista alla
ricerca del ricordo di lei e della sua presenza nell’assenza. Tra i
caffè ristretti della costiera amalfitana dove cerca di aggiustare la
statua di una sirena che lui e Paz avevano acquistato insieme in quei
giorni felici in cui facevano l’amore sulle maioliche del pavimento per
rinfrescare i loro corpi dopo l’orgasmo - statua maldestramente arrivata
a Parigi rotta e che adesso bisogna ricomporre perché è per lui
symbolon di lei, ceramica che gli antichi spezzavano e si scambiavano
per legare per sempre due esseri umani, prova eterna del loro perfetto
incastro. Per poi arrivare tristemente a capire che «non ero Orfeo, e
nemmeno Orfeo, comunque, era riuscito a riprendersi Euridice. Per il
semplice motivo che i morti sono morti. Non li si riprende.»
Arriva
una sera di canicola estiva, dietro a una libreria che scintilla di
giallo e di rosso, le copertine delle edizioni classiche Budé, e
arrivano anche le pillole acquistate comodamente su Internet per farla
finita - atarassia via eBay. Fino a che non suona alla porta una ragazza
bionda, studentessa di architettura e figlia di un ricchissimo armatore
greco, caviglie sottili, occhi azzurri: si chiama Nana. È con lei,
correndo in Vespa per Parigi, tra Pisco Sour (il vero nettare degli dei)
e folli attentati di chi ha smarrito un dio, con un catalogo di
tatuaggi al posto dell’omerico catalogo delle navi, che il protagonista
inizia la sua risurrezione: perché Orfeo non è morto, sono tremila anni
che i Greci ci insegnano che di troppo dolore non si muore, mai. E che
ciò che salva è la luce, come quella di Teshima, l’isola del Giappone
dove una nuova, antica Alba si leverà sulla vita del protagonista e di
suo figlio.
Ono-dit-Biot (che ha tradotto tutti i passi in greco e
in latino presenti nel libro) nell’antico si getta con l’agilità, e
forse con il dolore, del magico Tuffatore dipinto sulla tomba di
Paestum, nudo e con un occhio aperto, chiaro. Il risultato di questa
immersione è un romanzo unico, sublime nel senso etimologico del
termine, sotto la superficie dell’acqua, della banalità delle cose e del
nostro tempo arrogante. Perché «delle volte, è bello credere al
meraviglioso» - leggendo il suo romanzo s’intuisce che ne abbiamo tutti
un bisogno disperato.