La Stampa TuttoLibri 16.6.18
Ai tempi della fisica quantistica che bisogno c’è di un Assoluto?
Per la prima volta in italiano il testo sul “determinismo” che Kojève scrisse negli Anni 30 un geniale tuffo ermeneutico nell’universo paradossale teorizzato dalla scienza moderna
di Marco Filoni
Il destino dei filosofi è spesso segnato: studio, libri, una pensosa solitudine. Vite di un’umile classicità conferita dal tempo. E poi ci sono le illustri eccezioni: esistenze svolazzanti e sinuose, sottratte dal dominio del normale. Come nel caso di Alexandre Kojève. La sua fu una vita in quattro atti. Il primo, a Mosca, dove era nato nel 1902 da una ricca famiglia di commercianti (era nipote del pittore Kandinskji), e da dove fuggì dopo la Rivoluzione bolscevica perché altrimenti sarebbe stato fucilato almeno tre volte – e ci andò vicino, a soli quindici anni, sorpreso a vendere bigiotteria al mercato nero: rischiava il plotone d’esecuzione, ma fu liberato dopo una notte in cella soltanto perché lo zio era il medico personale di Lenin. Secondo atto: la Germania, dove studiò a Berlino e a Heidelberg, addottorandosi con Karl Jaspers. Poi Parigi, il terzo atto: qui negli anni Trenta diede una lettura vertiginosamente faziosa – e altrettanto geniale – di Hegel, salendo sul trono di «maestro» per un’intera generazione di intellettuali (da Queneau a Bataille, da Lacan a Raymond Aron, e poi Merleau-Ponty, Roger Caillois, Henry Corbin, Hannah Arendt e molti altri ancora). Infine l’atto finale: dopo la guerra, quando tutti si aspettavano di vederlo tornare in cattedra, lui con nonchalance andò a fare l’alto funzionario del Ministero per gli Affari Esteri francese, dove passò felicemente gli ultimi vent’anni della sua vita fra l’élite della diplomazia mondiale e dell’alta finanza – che, secondo lui, avevano sostituito la vecchia aristocrazia.
Eppure non abbandonò mai lo studio e scrisse un’impressionante quantità di opere rimaste perlopiù inedite. Fra queste ve ne è una, scritta in Francia nel 1932, che vede finalmente la luce in italiano grazie all’editore Adelphi. Si intitola L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (traduzione di Sofia Moreno), ed è curata da Mauro Sellitto che firma un’interessante e precisa postfazione. Il tema è decisamente insolito per un filosofo «classico», ma quando si tratta di Kojève non ci si dovrebbe stupire di nulla.
Chissà se Einstein quando affermava che «l’intera scienza non è che un affinamento del pensiero quotidiano» aveva coscienza che, all’epoca, fosse vero anche il contrario. Ecco infatti Kojève, nell’aprile del ’29, assistere alla conferenza di Enrico Fermi dedicata alla teoria dei quanti, e poi annotare nei suoi quaderni di appunti: il mio tema. Da qui nascono queste pagine: Kojève si confronta con la questione del determinismo – banalizzando: l’idea sottesa che l’accadere degli eventi non sia semplicemente accidentale – tornata vigorosamente al centro della discussione con la teoria dei quanti. Ha ragione Sellitto quando scrive che il libro ci offre l’opportunità di vedere all’opera una delle menti più brillanti del Novecento alle prese con la meccanica quantistica – considerando, inoltre, che molte delle interpretazioni di oggi traggono origine proprio da quel dibattito e che, nonostante sia passato circa un secolo, i problemi sono rimasti fondamentalmente immutati.
Prendiamo ancora Einstein: per lui la meccanica quantistica era filosoficamente inaccettabile. Pur avendo contribuito alla sua nascita, la criticò dal punto di vista concettuale: era inconcepibile che una teoria fisica potesse essere valida e completa pur descrivendo una realtà in cui esistono mere probabilità di osservazione. Seguendo l’autorevole dichiarazione di Henri Poincaré, insomma, la scienza «era determinista o non era affatto».
Kojève non è d’accordo. Il filosofo intravede una nuova idea di determinismo nata con le scoperte della teoria dei quanti, e cerca di dimostrare che non vi sono «ragioni filosofiche a priori che possano obbligarci a rigettare o accettare queste nuove teorie». Per questo critica l’idea classica di determinismo, poiché l’ipotesi dei quanti dimostra l’inaccettabilità del postulato di universalità e di verificabilità sperimentale della causalità classica, che fino ad allora permetteva previsioni esatte sempre più numerose rispetto ai fenomeni reali e fisici.
Kojève è fra i primi pensatori a comprendere la portata delle mutazioni che le scoperte di allora implicavano sulle nozioni di fenomeno, oggetto, esperienza, conoscenza. E lo fa con una radicale messa in questione del determinismo causale esatto, riassunto nel celebre passaggio di Laplace nel quale è evocata l’idea di un osservatore universale onnisciente. Secondo il filosofo, la teoria dei quanti conduce necessariamente a una concezione indeterminista del reale: viene quindi a cadere l’esigenza di un Assoluto che abbia una funzione nel mondo reale. E aggiunge, quasi a margine, che la nuova fisica moderna implica un ateismo di fondo. Come a dire: se c’è chi cercava la fisica di Dio, io Kojève con questo testo ho scovato la fisica dell’ateismo.
Repubblica 18.6.18
Colm Tóibín “Solo la tragedia greca spiega le radici di tutto questo odio”
Agamennone, Oreste, Clitennestra, Ifigenia: lo scrittore irlandese si affida a Euripide per raccontare questi tempi di “fratello contro fratello”
di Leonetta Bentivoglio
Tutto parte da un lampo di sangue: Clitennestra ha massacrato Agamennone e viene invasa dall’odore della morte. Già conosce quella sensazione: con l’uccisione del marito sta vendicando l’assassinio di sua figlia Ifigenia, sacrificata agli dei dal padre Agamennone. Un delitto capace di generarne altri, in un succedersi di orrori che, nella prosa limpida di Colm Tóibín, acquistano la pregnanza della quotidianità. Gli antichi eroi non sono più simulacri, ma esseri le cui logiche, passioni e motivazioni somigliano a ciò che noi potremmo sperimentare. «Da quel flash scarlatto s’avvia il mio ultimo romanzo», spiega Tóibín, autore fra l’altro di The Master e
Brooklyn (fonte del premiato film onomino del 2015). «Ogni trama inizia da una frase, da un’immagine che diviene ritmo e melodia, per poi espandersi e strutturarsi», avverte lo scrittore, che con La casa dei nomi, appena uscito in Italia per Einaudi, s’imbatte nei giganti della grecità per sondare la natura viva e presente dei miti.
Operazione sorprendente da parte di un celebre cantore di esistenze spesso minute ed emarginate dell’Irlanda moderna. A ispirargli l’impianto della Casa dei nomi, segnala, è stata soprattutto la lettura d’Ifigenia in Aulide di Euripide, «una tragedia che ha trasformato la mia prospettiva sulla vicenda di Elettra — sorella di Oreste e figlia di Clitennestra e Agamennone, così come Ifigenia — facendomela osservare dal punto di vista di sua madre». Facile leggere, in quest’affresco privato percorso da rabbie, congiure, angosce e lamenti, il pessimistico riflesso pubblico di una società svuotata da ogni ideale. È come un viaggio progressivo nella caduta degli dei.
Mister Tóibín, ne “La casa dei nomi” le figure della casata di Atreo si muovono condotte da dinamiche perversamente affettive analoghe a quelle di “normali” famiglie odierne. È rimasto immutato il nucleo relazionale della famiglia?
«Mi sembra che il senso di smarrimento di Oreste e l’alienazione di Elettra siano molto attuali, ma non ho voluto enfatizzare quest’aspetto. Non m’interessava scrivere un manuale di patologie familiari.
Comunque è chiaro che i membri della famiglia di cui parlo non si sentono a loro agio sotto lo stesso tetto».
Cosa l’ha attratta di questa storia?
«Viviamo su un pianeta libero dai conflitti mondiali dal 1945, eppure pieno di guerre civili. La Guerra Fredda ha scatenato lotte tra nord e sud in luoghi quali la Corea e il Vietnam. Altre guerre sono state combattute nei confini di una stessa nazione, vedi l’Irlanda e l’ex Jugoslavia. Da questi due Paesi in particolare io scrivevo articoli, e mi turbava la purezza dell’intimità che sentivo pulsare dentro tanto odio. Era come se persone molto vicine fra loro si uccidessero per vendicarsi di colpe precedenti».
Crede quindi che negli schemi dei rapporti sanguinari fra i parenti delle tragedie greche si celi il germe di tutte le lotte fratricide?
«Sì. Durante la guerra civile irlandese molte famiglie si sono spezzate in due fazioni: fratello contro fratello, padre contro figlio… Anche nella guerra civile spagnola si sono verificate fratture tra congiunti. Nella Casa dei nomi mi sono preoccupato di non mettermi a fare il predicatore, né di scrivere come se fossi il segretario generale delle Nazioni Unite, ma ho esplorato la lentezza e la stranezza con cui nasce la violenza concentrandomi sulle particolarità dei personaggi e sui modi in cui monta il risentimento».
La miscredente Clitennestra s’interroga sulla totale scomparsa degli dei. È una metafora di quanto accade adesso?
«Sappiamo che la forma del romanzo, dal Diciottesimo secolo in poi, non lascia molto spazio a Dio né al sovrannaturale. È più condizionato dai bisogni, dai desideri e dalle azioni degli umani. Tuttavia è evidente come lo sfondo del mio libro, che considero totalmente contemporaneo, sia dominato dall’idea che Dio è stato messo in ombra nell’Europa di oggi».
Perché fa parlare Clitennestra in prima persona? Anche Elettra usa l’io narrante, al contrario di Oreste.
«Oreste è troppo giovane e inconsapevole per possedere la propria voce: non ha alcuna strategia. Invece sua madre e sua sorella sono sospinte dalle rispettive, potenti strategie».
Il rapporto tra Clitennestra e il suo amante Egisto è cupamente voluttuoso mentre quello fra Oreste e Leandro è tenero e solare. Lei è un esponente molto attivo del movimento Lgbt: sembra che la sua identità omosessuale influisca radicalmente sulla visione della coppia.
«Mentre scrivevo il libro lo sentivo così colmo di negatività e violenza da volerlo bilanciare con l’inserimento di belle immagini d’amore. La sezione su Oreste e Leandro non si modella su alcun mito: l’ho inventata solo per rispondere a quell’esigenza. Il legame tra i due giovani è dolce e innocente: l’ho descritto non per esaltare le gioie di un’intesa omosessuale, ma per creare momenti di luce nel buio. Avrei potuto raccontare in maniera altrettanto armoniosa un amore uomo-donna».
Ha avuto riferimenti letterari nell’impresa di trasformare gli antichi in creature ravvicinate?
«Mi è stato utile il romanzo di David Malouf Ransom (in italiano Io sono Achille, ndr) che però, rispetto a me, è molto più fedele ai greci. Ma a farmi ripensare a quei caratteri in un’ottica non distante dal nostro mondo sono state soprattutto attrici come Fiona Shaw, in grado d’interpretare le eroine classiche rendendole contemporanee.
Devo molto anche alla Medea di Pasolini con Maria Callas».
La Stampa 18.7.18
Spagnoli brava gente
di Domenico Quirico
La brava gente, quella che si commuove, che prova la compassione depurata di ogni secondo fine, che rifiuta di umiliare e di lasciarsi umiliare, che dice «sì, è fatica e pena, non è facile, eppure così bisogna fare e così faremo», ieri, a cercarla, la trovavi sul molo di Valencia Spagna Europa Occidente. La brava gente… quello che noi italiani eravamo. Perché c’è ancora, c’è sempre la brava gente, ferma su quel filo, aggrappata a quel filo che più forte di un cavo di acciaio, afferrata con le mani e con i denti a quel filo che è volontà di guardare a occhi aperti la sciagura dell’Altro, di resistere, di credere, di piangere con lui, di amare il suo dolore. Che è anche, sempre, un poco o tanto, il tuo.
Ce lo siam portati dietro per secoli, noi, questa definizione «brava gente»; ed era la medaglia più grande, le parole da scriver sulla bandiera. Infatti qualcuno, gli arroganti, i decisionisti, i mascelluti, che anche quelli ci son sempre e qualche volta sembrano maggioranza, lo bestemmiava come il marchio della debolezza nazionale: italiani brava gente! E inveiva a seppellirla, la nomea di «zerbini», sotto cumuli di violenze e di soperchierie.
Non so: forse le nazioni e i popoli non hanno anima. Ma se c’è, quella era la nostra anima di popolo provato dalla Storia e che sapeva da quel dolore suo capire e compatire.
Adesso altri se lo calano addosso, con orgoglio, un marchio di dignità e di appartenenza, la grande Lega universale della pietà, senza spadoni twitter e bugie.
Sì. I migranti ci hanno rivoltati come un guanto, hanno imposto con la loro sola presenza l’obbligatorietà di una domanda: chi siamo? Cosa vogliamo essere? Ci hanno tolto i veli della ipocrisia, della retorica, ci hanno obbligato a dividerci fisicamente: di qua o di là, non c’è remissione. Finalmente!
Gli xenofobi, quelli che hanno immancabilmente paura di qualcosa, vivono assediati da qualche pericolo, i negri i gialli i giudei i maomettani i capitalisti i boches la perfida albione… sono una razza, da Drumont in avanti, sempre e soltanto uguale. Esiste un universo del rifiuto, fermo, cristallizzato come una specie per cui la fase della evoluzione si è chiusa. Ebbene di fronte a loro il manicheismo è permesso, obbligatorio. Possono camuffarsi con ragionamenti economici, affidarsi al cavillo leguleio, ma in fondo sono sempre quello, un mondo soggettivamente insensibile, nessun margine di fluidità, tremendamente, nello stesso tempo, forte e debole, prigioniero della propria natura. Sono chiusi, per loro i giochi sono eternamente fatti. Di fronte a tutto questo bisogna a un certo punto esimersi dallo sforzo di interpretare, capire, modificare. Si può solo, risolutamente, passare dall’altra parte.
La Migrazione li ha fatti emergere, con strepiti e urla. Loro di là. E di qua gli altri, quelli che aspettavano la nave «Acquarius» con i suoi naufraghi e le altre caravelle delle «crociere» disperate che verranno. Non per inveire, ma per aiutare e servire. E quelli che lavorano nelle organizzazioni umanitarie: per la mia generazione era un sogno e un dovere, oggi sembra un reato da codice e manette. Quelli che credono, obbligatoriamente, nell’unico diritto che non è sminuzzabile in codicilli, che non si può diluire con l’acqua degli azzeccagarbugli: il diritto dell’uomo astratto, di sopravvivere, di fuggire, di essere libero. L’espressione spaziale di questa tensione morale è il desiderio di scavalcare frontiere come se non ci fossero. La brava gente è quella che sente ogni violazione del diritto universale come un pezzo della propria condizione di uomo che salta via come una scheggia. Non i buoni o i buonisti, i debolucci, i professionisti del piagnisteo. No, gente dura, implacabile, determinata che sa che la sofferenza altrui mi coinvolge e mi condanna, che non ho il diritto di voltargli le spalle. Ieri erano sul molo di Valencia: purtroppo non a Lampedusa o a Catania. Non perché non esistano anche qui. Perché l’hanno vietato.
La Stampa 18.6.18
Calzolai, professori e bambini
Il popolo dell’Aquarius è a Valencia
di Francesco Olivo
Ogni volta che all’orizzonte si intravedeva una costa partivano le domande: «È questa la nostra terra?». Non lo era Malta, la Sicilia, nemmeno la Sardegna, né la Corsica. «Stamattina finalmente abbiamo potuto dire: ecco, questa è la Spagna. Siamo arrivati».
La traversata disperata e irregolare dell’Aquarius finisce alle 11 al molo numero 1 nel porto di Valencia. Nove giorni in balia di ogni ostacolo possibile: il gommone che affonda nel momento del salvataggio, il freddo di notte, il caldo di giorno, la bufera e le onde di quattro metri. E poi quella lite tra governi che nessuno capiva, ma di cui tutti hanno pagato le conseguenze. «Dopo lo stop dell’Italia in due hanno provato a lanciarsi in acqua, temevano il ritorno in Libia», raccontano i volontari.
Quando il peschereccio rosso spunta dietro al molo, cala il silenzio sulla banchina. Tutti ne hanno parlato per giorni, ognuno aveva un’opinione, ma ora nessuno sa più cosa dire: l’Aquarius è qui davanti. Fermi sul molo i volontari si commuovono, salutano, poi battono le mani. Le uniche voci si sentono dalla nave, sono canti africani di felicità, di liberazione.
Valencia ci ha tenuto a mostrare il suo volto migliore al mondo intero, «ma soprattutto a questi 629 naufraghi che l’Italia non ha voluto», racconta Marta, volontaria della protezione civile, che sistema gli scatoloni in un padiglione che si riempie di esseri umani a lungo in balia dei governi. Malta e Italia che litigano, il resto degli Stati che assiste e si schiera. E poi il socialista Sanchez che compie il gesto di solidarietà che, al tempo stesso, è uno schiaffo all’Italia, «e non un regalo a Salvini», come ripetono dal ministero degli Esteri di Madrid.
Le operazioni di attracco
Le operazioni di attracco delle tre imbarcazioni sono durate più di sette ore, dall’alba, quando è arrivata con un colpo di sirena la Dattilo della Marina italiana, poi a metà mattina l’Aquarius e infine la Orione, quando erano ormai le due del pomeriggio. A ogni arrivo salgono a bordo medici e infermieri, una prima visita rapida e poi lo smistamento: le donne incinte in ospedale, i minori senza genitori (più di 130) verso un centro ad Alicante, gli altri all’identificazione con la polizia. Il loro permesso di residenza dura 45 giorni, dopodiché «si valuterà caso per caso chi ha diritto all’asilo e chi no», precisa il governo spagnolo. Le autorità locali insistono per concedere a tutti lo status di rifugiati, ma la Spagna teme di creare precedenti, visto che in Andalusia gli sbarchi iniziano a essere massicci.
Gli abitanti di Valencia, con qualche eccezione, mostrano orgoglio per essere diventati «il porto aperto», dopo che altri nel Mediterraneo li hanno chiusi. «Benvigudes a casa vostra», recita un grande cartello in valenciano su una banchina, con traduzione in castigliano, francese, inglese e arabo. Niente italiano e non è un caso.
Tanti onori, quindi, per chi negli ultimi mesi ne ha ricevuti pochissimi. Ed è un eufemismo.
Quando erano a casa
A bordo dell’Aquarius si rincorrono storie normali, che in un attimo prendono una piega spietata. Niente di diverso da quello che in Sicilia e in Calabria gli operatori ascoltano da quasi un decennio, ma oggi il mondo ha gli occhi puntati qui. Normalissima era, per esempio, la vita di David un professore di inglese nigeriano, con eleganza, nonostante tutto, e buon portamento scalfito dalle torture subite in Libia. «Sono andato a Tripoli perché ho trovato un istituto privato di buon livello - ha raccontato agli operatori di Sos Méditerranée - un giorno tornando a casa sono stato sequestrato, portato in un campo di prigionia dove mi hanno chiuso e picchiato per molti giorni». La Libia ricorre nei racconti di tanti dei passeggeri sbarcati ieri: «Sono un calzolaio - dice il ghanese Mambie - nel mio Paese non trovavo più nemmeno il materiale per fare scarpe e cinture e sono arrivato ad Agadez e poi di lì a Tripoli, lì i neri come me non sono ben visti e mi hanno rinchiuso per sette mesi». L’unica opzione per sopravvivere era quella di scappare «anche se ho paura del mare, non mi pare vero di essere al sicuro, qui non mi faranno l’elettrochoc». Ibrahim è, invece, un tipo riservato, viene dal Senegal, ha 19 anni e andava bene a scuola, «ma mio padre è morto sul lavoro e i soldi non ci bastavano. Non ho detto a mia madre che avrei attraversato il Mediterraneo». Nel suo viaggio i guai sono cominciati in Burkina Faso e proseguiti più a Nord, «non posso dire cosa mi hanno fatto, mi vergogno a raccontarlo», dice abbassando lo sguardo.
«Sulla loro pelle»
Al porto di Valencia l’atmosfera è commossa, «eppure oggi si celebra una sconfitta - dice la presidente di Medici Senza Frontiere Italia, Claudia Lodesani -, l’Aquarius segna uno spartiacque. Il governo italiano canta vittoria, ma lo fa sulla pelle di questa gente, peraltro senza trovare una soluzione». Infettivologa, da poco tornata dal Sud Sudan, Lodesani risponde alle accuse alle Ong: «Ci chiamano scafisti, tassisti del mare, ma noi lavoriamo con la Guardia Costiera italiana. Se noi siamo scafisti, loro allora sono i coordinatori degli scafisti? È ingiusto solo pensarlo. La verità che la distinzione tra la Marina e noi operatori umanitari non ha senso». Le prese di posizione di Salvini però sono nette: porti chiusi alle Ong: «Noi in mare ci vogliamo tornare, lasciateci il tempo di capire come. Non possiamo escludere l’Italia, fosse anche solo per una questione geografica».
I comandi contraddittori
La conferenza stampa degli operatori di Medici senza Frontiere e di Sos Méditerranée (un network di diverse Ong) segna il momento più teso: «L’inazione dell’Europa è criminale - attacca Sophie Beau - hanno detto che questa era una crociera». Ci sarà tempo per ricostruire i fatti, anche se Nicola Stalla di Sos Méditerranée, ufficiale di coperta della Marina Mercantile, coordinatore delle operazioni di bordo della Aquarius, avanza dettagli su «quei due giorni in cui abbiamo girato su noi stessi in attesa di capire cosa fare. È stato terribile, Roma coordinava, il ministero dell’Interno ci ha indicato Messina o Trapani come porti di sbarco. Scegliamo Messina e ci dicono di aspettare per la conferma definitiva». Poi la svolta: «Due ore di silenzio, seguito da una discussione con Malta. È stato surreale. Avevo sentito parole mirabolanti da alcuni politici, ma non pensavo si arrivasse al punto di mettere in pericolo le vite umane».
La Stampa 18.6.18
Maria e Mostafa, quell’esercito di irregolari
di cui l’Italia non può più fare a meno
di Karima Moual
«Ho votato Matteo Salvini, ma certo che se da ministro dell’Interno mi tocca Maria io davvero faccio la rivoluzione sotto al Viminale e con me ci porto anche i tanti nella mia situazione». A pochi giorni dal giuramento del nuovo governo 5Stelle-Lega, Tiziana, parrucchiera, 56 anni di Roma, pensa alla sua collaboratrice che ha in negozio con tanto di divisa, parlantina veloce e un sorriso che tradisce la sua condizione di clandestinità nel nostro Paese.
Maria è davvero brava, parla molto bene italiano e ci sa fare con i capelli. Ha 23 anni, è nata in Brasile. È in Italia da sei anni ma è irregolare, categoria al centro del contratto per il governo del cambiamento: «Ad oggi - si legge nel contratto - sarebbero circa 500mila i migranti irregolari presenti sul nostro territorio e, pertanto, una seria ed efficace politica dei rimpatri risulta indifferibile e prioritaria».Parole chiarissime, ma il punto è che il profilo di Maria, seppur giuridicamente irregolare, non corrisponde a quello preso di mira negli annunci di chi è riuscito a raddoppiare l’elettorato con il «tutti a casa» e «prima gli italiani».
Le due facce dell’illegalità
Degrado, criminalità e parassitismo, sono alcune chiavi di lettura dell’identikit portato avanti contro la categoria degli «immigrati irregolari». Ma davvero i presunti 500mila irregolari (secondo le stime) sono la fotografia della paura e del degrado, veicolati soprattutto in questi ultimi anni da alcune forze politiche? Leggendo alcuni dati economici, ma anche incontrando storie come quella di Maria, rappresentativa solo di un piccolo pezzo di quel puzzle fatto di migliaia di presenze in Italia - fantasmi solo giuridicamente parlando, ma che sono in realtà persone in carne e ossa, presenti nelle nostre strade, attività, case, e soprattutto nella nostra economia «non sommersa» - sembra essere proprio il contrario.
Le conseguenze
I cosiddetti 500mila migranti irregolari sono da una parte persone arrivate illegalmente nel nostro Paese per migliorare le proprie condizioni di vita, ma dall’altra anche migranti che da regolari, con la crisi economica, non sono riusciti a rinnovare il proprio permesso di soggiorno. Le conseguenze? Nelle loro condizioni, il lavoro regolare ha lasciato il posto a quello in nero e una volta entrati in questo limbo non c’è nessuna possibilità per potersi regolarizzare.
Il cortocircuito
Ecco perché questo esercito di migranti irregolari è anche il simbolo di un fallimento nella promozione di una migrazione economica legale. Sono un numero che accoglie tante storie, di badanti, donne di servizio, ma anche quelle dei braccianti e lavoratori dei cantieri, che raccattano una paga misera senza diritti, producendo una ricchezza nel mercato nero. La fondazione Leone Moressa neanche due anni fa aveva fotografato in una ricerca questo tesoro sommerso, valutato 12,7 miliardi di euro, che avrebbe fatto solo bene alle casse dello Stato se si fosse attivato un progetto di legalizzazione. Maria, e la sua titolare italiana rappresenta un corto circuito di questo sistema. Altro che degrado, parassitismo e paura. É un bacino di illegalità veicolato da una miopia politica, che non guarda ai cambiamenti e alle esigenze sociali perché l’esercito dei 500mila fantasmi non può essere rappresentato solo in chiave di criminalità: si tratta di persone che condividono il loro destino con famiglie e imprese italiane in attesa di uscire allo scoperto senza gravi conseguenze. «Io vorrei regolarizzarla - dichiara Tiziana - ma non c’è altro modo se non rispedirla al Paese di origine, con il rischio di non poterla più riavere in Italia. È ovvio che mai lo faremo».
Ma allora perché ha votato Salvini? Silenzio, poi la risposta: «Ha promesso di fare ordine». Anche e soprattutto con gli immigrati irregolari, preciso: «Si, ma sa quante volte ho messo il cartello fuori dal negozio alla ricerca di collaboratrici italiane? candidate zero». Certo, Tiziana difende la sua Maria, ma quanti italiani sostenitori di Salvini, con una Maria a fianco o un Mostafa, sono disposti a girare le spalle?
Corriere18.6.18
Fenomenologia del leader leghista
Il buonismo era logoro Ma il cattivismo è meglio?
di Antonio Polito
Il buonismo ha stufato gli italiani perché ha fallito, e Matteo Salvini è stato tra i primi a capirlo. La maggioranza dei cittadini, compresi molti che non l’hanno votato, gli riconosce l’energia e la decisione che ha messo nel suo lavoro, e la capacità di dare la sveglia a un’Europa dominata dagli egoismi. Ma il cattivismo è un disturbo bipolare della politica, perché divide il mondo in amici e nemici, e inibisce la capacità di includere, che è poi il fine ultimo della democrazia.
Non può essere dunque la cifra del ministro dell’Interno: ruolo in cui di solito ci si distacca dalla partigianeria politica per trasformarsi nel garante istituzionale del più delicato dei beni comuni: la sicurezza.
Il buonismo pretendeva di combattere il traffico degli esseri umani lasciando passare gli esseri umani, che è un po’ come voler combattere il contrabbando dando una mano ai contrabbandieri. Ma il cattivismo trascura gli esseri umani, oppure lascia intendere che siano complici e non vittime del traffico; e dunque li descrive in «crociera» nel Mediterraneo, pronti a godersi la «pacchia» una volta sbarcati.
Il buonismo ha detto per anni che gli arrivi dei clandestini erano ineluttabili, e dunque dovevamo rassegnarci, e che alla lunga ci avrebbero anche giovato, culturalmente ed economicamente; confondendo lo choc culturale provocato dalle migrazioni con il cosmopolitismo o il melting pot. Ma il cattivismo vuol farci credere che si tratti di un’«invasione», forse organizzata dai terroristi islamici, da contrastare dunque con mezzi militari come i blocchi navali, o meccanici come le ruspe. Il cattivista agisce su una logica binaria, in cui c’è solo casa loro, dove devono restare, e casa nostra, dove non devono arrivare. In mezzo, il mare.
Il cattivismo, come tutti gli «ismi», è manicheo e daltonico: vede solo il bianco e il nero, e gli sfuggono le cinquanta sfumature di grigio di cui è fatta la realtà. Non riesce a vedere, sotto la superficie degli eventi, l’aspetto tragico della vita, che spesso mette in conflitto tra di loro due innocenti, rendendoli entrambi vittime. L’altro giorno Salvini è andato in ospedale a Genova a trovare il poliziotto ferito da un giovane che stava dando in escandescenze, e perciò doveva essere fermato per un trattamento sanitario obbligatorio. Il ministro ha fatto bene. Un buonista non l’avrebbe fatto perché un collega di quell’agente, per difenderlo, ha sparato sei volte contro l’aggressore, uccidendolo. Ma un cattivista non si limita alla solidarietà: ricorda alla madre del morto che «se suo figlio non avesse accoltellato un uomo sarebbe ancora vivo». Come se non fosse anche lui, quel ragazzo, la vittima di un atroce fato, dello smarrimento della capacità di intendere che lo ha reso così debole da aver bisogno, per l’appunto, dell’aiuto dello Stato. Sì, perché garantire l’ordine pubblico non è sempre giocare a guardie e ladri. E ben lo sanno gli agenti di polizia e i carabinieri che ogni giorno e ogni notte, come in un ospedale da campo, soccorrono per le strade delle nostre città malati, sconfitti e peccatori di ogni colore e nazionalità.
Il buonista ha un’idea ingenua degli uomini: pensa con Rousseau che nascano tutti buoni e che sia la società (e i politici) a corromperli. Ma il cattivista è un pessimista di natura, crede come Hobbes che nello stato di natura la vita degli esseri umani sia destinata ad essere «solitaria, cattiva, brutale e breve», e che per questo, per prevenire la guerra di tutti contro tutti, ci voglia un moderno gigante, un Leviatano dotato di poteri assoluti, un Dio in Terra che ci protegga (tra parentesi: come stiano insieme al governo Rousseau e Hobbes, e soprattutto dove sia finito Locke, è un mistero glorioso).
Il cattivista esce di casa la mattina armato di un nodoso bastone e va sui social a cercare qualcuno con cui azzuffarsi (il Cattivissimo-Me-in-Chief si chiama Trump). Ha anche inventato un hashtag, #iostocon , che ognuno poi può completare seguendo la linea tratteggiata: #iostoconledivise, #iostoconSalvini , #iostoconZuccaro , #iostoconMeloni . Uno slogan che propone di saltare il «dibbbattito», fatto di verifiche, chiari e scuri, controlli e dati, e di andare al dunque, schierandosi a prescindere. Il che è l’opposto del dibattito pubblico informato in una società liberale.
Il cattivista incattivisce gli altri. Mentre il problema nelle società complesse è cercare la coesione, conciliare interessi e aspirazioni diverse e talvolta opposte, il cattivista produce altri cattivi. Talvolta sembrano alleati, come il ministro degli Interni tedesco Seehofer che, pensandola come Salvini, vorrebbe respingere in massa alle frontiere della Germania gli immigrati passati per l’Italia. Talvolta sono veri e propri nemici, buonisti cattivissimi, che danno a Salvini del razzista, del fascista, o mettono addirittura in dubbio la sua appartenenza al genere umano.
Nessuno può pensare di trasformare un cattivista in un buonista, non sarebbe nemmeno utile. Ma estirpare il cattivismo dal nostro dibattito pubblico, rimettere al centro la modestia del bene comune, risuscitare quella misericordia cui abbiamo appena dedicato un giubileo, è qualcosa che forse si può chiedere anche a un cattivista. Soprattutto se ora fa il ministro di tutti noi, buoni compresi.
Repubblica 18.6.18
La forza della Lega
Così la Lega ha oscurato il non-partito
di Nadia Urbinati
Il M5S sta pagando in termini sempre più onerosi l’ambizione utopistica con la quale è nato: praticare la democrazia parlamentare senza diventare un partito organizzato; di più, fondare il Parlamento sulla democrazia digitale, identificata con quella diretta. L’organizzazione, secondo la celebre definizione che ne diede Robert Michels nel 1911, è l’arma dei deboli contro i forti e nella democrazia elettorale i deboli sono i molti perché disaggregati. Il partito organizzato è il loro salvagente, anche se li deruba dell’eguaglianza di potere esponendoli al dominio dell’oligarchia. Il M5S ha portato all’estrema conseguenza lo spasimo contro l’organizzazione che dopo Tangentopoli ha posseduto un po’ tutti i movimenti politici, spinti a cercare soluzioni liquide, leggere e “democratiche”. Il partito non-partito mostra tutta la sua debolezza proprio nel momento in cui acquista potere di governo. Forte quando era all’opposizione e l’argomento “contro” bastava a dare la linea, è debole nel relazionarsi con l’alleato leghista, che pure porta meno voti.
La Lega è un partito a tutti gli effetti, con una ideologia dichiarata di destra, non oltre la destra e la sinistra ( il “ sovranismo”), con un obiettivo che dice di perseguire (“ prima gli italiani”) e un’organizzazione strutturata centrale e periferica, luoghi fisici, membri e riti; soprattutto una leadership che incarna la rappresentanza di tutto il partito e delle sue ragioni ( che possono non piacere, ma sono definite e non ambigue). Una coalizione tra un partito di questo tipo e un partito non- partito si traduce fatalmente nel dominio del primo sul secondo, ovvero in una condizione che assomiglia a un dominio egemonico più che a una coalizione. La politica del governo a guida Conte è ogni giorno che passa la politica del partito di Salvini, il quale copre ruoli rappresentativi opposti: quello di partner e quello di capo. La Lega mostra una solidità con la quale il partito digitale non ha la forza di competere; dà la linea politica al governo e, presumibilmente, raccoglierà i frutti, a spese dell’alleato. Certo, l’essere un partito non è l’unica forza della Lega; il carattere del leader non è un fattore secondario. Ma anche in questo caso, è la politicità della leadership l’elemento distintivo, un fattore che rinvia alla forma partito. Un leader senza identità politica è un leader debole. E Salvini ha una identità politica spiccata e un’ideologia nazionalista chiara, che unifica la sua base politica e allarga ogni giorno il consenso dell’audience. L’essere né di qua né di là, come il M5S ha sempre cercato di essere per non farsi partito, il raccogliere consensi a destra e a sinistra, lo fa essere un cacciatore di voti che, una volta al governo, è troppo indifferenziato ed eterogeneo per risultare efficace e visibile.
La linea politica della Lega si presta inoltre alla promozione di azioni simboliche e immediatamente visibili. Le politiche del M5S — reddito di cittadinanza in testa — impiegheranno mesi per materializzarsi. Del resto le deleghe che Di Maio ha accorpato prefigurano tempi lunghi di attuazione. Al contrario, quelle di Salvini hanno l’operatività delle politiche di emergenza, proprie del ministro degli Interni. E così, il destino dei disperati che cercano di attraversare il Mediterraneo è l’occasione fortunata per mettere in atto lo slogan, «prima gli italiani ». Il muso duro con gli immigrati è già politica di protezione degli interessi nazionali. A questo si aggiunga la capacità di Salvini di giocare su due piani: mentre respinge i disperati (e blocca le Ong), attacca i leader europei che molto hanno detto e poco fatto: lo si può criticare per la prima scelta, ma come criticarlo per la seconda? Il consenso della Lega si allarga e dà identità al governo; il M5S segue a ruota, sempre meno partner e più subalterno. Nato con la promessa di essere « l’avvocato degli italiani » , non è improbabile che il presidente del Consiglio debba farsi avvocato dei 5S.
Il Fatto 18.6.18
Benvenuti al capolinea dei migranti-fantasma
È nei centri di transito dell’Onu che finisce la fuga di chi non riesce a entrare in Libia. E i 500 militari italiani “allertati” un anno fa non sono mai arrivati
di Pierfrancesco Curzi
Omar prepara il tè versando dall’alto la prelibata bevanda da un bicchiere al birrade, il tipico pentolino tuareg, con estrema abilità, senza versarne una goccia. Da queste parti è un rito ripetuto più volte ogni giorno. Otto uomini, seduti in circolo all’esterno di un’abitazione di fango all’imbrunire di una giornata di sole cocente, discutono sulla situazione del nord-est del Niger, tra transito di migranti, la rabbia per un isolamento indotto, una strada che assomiglia ad un calvario e le risorse del ricco sottosuolo di cui non restano tracce di profitto. Il tè, servito in piccoli bicchieri decorati, emana un buon aroma e Omar ne narra il senso attraverso le fasi dell’esistenza: “Forte per la vita, dolce come l’amore e soave per accompagnarci verso la morte”.
Secondo i parametri internazionali, il Niger occupa stabilmente le ultime posizioni nelle classifiche di povertà, mortalità infantile, crescita e così via. Eppure rappresenta un Paese-chiave nell’Africa sub sahariana, fulcro delle rotte migratorie verso il Mediterraneo. L’Italia lo ha capito tardi e adesso paga le sue incertezze strategiche e il cambio di esecutivo, sebbene gli errori del passato siano evidenti. La missione militare in Niger, nascosta prima e confermata alla fine dello scorso anno, è congelata. I 500 uomini da indirizzare proprio tra Niamey e la provincia di Agadez non sono mai atterrati nel Sahel, a parte un mini-contingente, quaranta uomini in tutto, bloccati in un’area della base americana nell’aeroporto della capitale. Se l’Italia tentenna, altri operano a pieno regime, specie sul delicato tema dei viaggi della speranza. L’Onu e le altre organizzazioni umanitarie ne sono consapevoli e nel cuore del deserto, qui ad Agadez, hanno realizzato centri di transito per profughi da e per la Libia. Ad occuparsene è una delle sue agenzie, l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, anche attraverso mirati piani di rimpatrio assistito.
A Tripoli e in Libia, dove si stima ci sia un bacino di almeno mezzo milione di uomini, donne e minori pronti a salire sui barconi, vengono organizzati voli periodici per riportare le persone nei rispettivi Paesi d’origine: Nigeria, Costa d’Avorio, Senegal ecc. Chi aderisce viene riportato a casa gratis, ma dice addio alla speranza di arrivare in Europa. Ad Agadez ci finisce chi non è riuscito ad arrivare in Libia, chi è stato fermato prima, lungo le rotte mortali del deserto. Centri di transito, compound aperti, dove sbrigare le pratiche documentali prima di salire a bordo degli autobus delle linee nigerine, convenzionati con l’Oim, pronti a partire verso le rispettive destinazioni. Su una lavagna all’interno dell’ufficio del centro principale c’è la lista, paese per paese, con le rispettive presenze. Lista in continuo aggiornamento. I giovani, “costretti” ad attendere il loro destino, passano le giornate seguendo il ritmo sonnacchioso del clima desertico, tra i riposi nelle ore calde e le partite di calcio il pomeriggio.
Le strategie della Francia e dell’Italia per bloccare i loro tentativi di imbarcarsi verso l’Europa hanno prodotto soltanto un blocco temporaneo delle rotte migratorie attraverso il deserto del Niger. I viaggi dei migranti non si sono mai fermati del tutto. L’Oim da tempo si occupa di loro. Il caso più particolare è quello di un gruppo di sudanesi, fermi in uno dei centri di Agadez da mesi. La loro “detenzione” è causata dalla mancanza di accordi col Paese d’origine. Non potendo rientrare e non avendo risorse per muoversi in autonomia, lì dentro attendono tempi migliori.
Le condizioni di vita sono precarie, stivati dentro un’area dismessa, un capannone centrale e l’esterno esposto ai raggi roventi del sole. Unica protezione, l’ombra garantita dall’enorme chioma di un albero sotto la quale cercano refrigerio. Se i migranti piangono, i nigerini di Agadez, Arlit e dei villaggi tuareg non ridono. Un terzo dei francesi sfrutta l’energia nucleare che arriva dalle riserve nigerine di uranio di Arlit, eppure qui l’elettricità funziona a singhiozzo: “Mettetevi nei nostri panni, siamo depredati dalle compagnie straniere per l’estrazione di uranio, oro e coltan, a cui lo Stato concede tutto”. Mohtar Alassan, tuareg originario di Tchirozerine, ha lavorato come guida turistica e oggi fa il traduttore per compagnie e rappresentanze militari che pullulano nei dintorni di Agadez. Parla correttamente tre lingue e ha un forte senso di appartenenza: “Mio padre ha lavorato nella miniera di uranio di Arlit dagli anni ’70, quando l’azienda si chiamava C.a., Compagnia Atomica, poi Cogema e infine Areva. Ricordo la polvere gialla che lo accompagnava a casa, di un giallo così forte che quasi accecava. La polvere della morte che poi lo ha ucciso. Siamo poveri, non ci sono strade, non c’è futuro”. L’alternativa è partire e tentare la fortuna in Europa? “No, i tuareg non scappano. È una questione di dignità”.
L’ultima bega per le i tuareg è la Rta, Route Tahoua-Arlit, l’unica via carrozzabile che mantiene il collegamento tra la provincia di Agadez e il resto del paese. Tracciata settant’anni fa dai francesi, oggi non restano che sparuti pezzi di asfalto. Il resto sono voragini, frane e piste di sabbia. La Rta è solo un troncone della grande Strada del Deserto che dovrebbe collegare Algeri alle sponde nigeriane del Pacifico. Un libro dei sogni insomma, di cui esistono progetti, presunti finanziamenti e proclami. Di fatto, la Desert Road non vedrà mai la luce. Diverso il discorso della Rta, il cui avvio dei lavori è stato più volte annunciato dal governo del presidente Issifou. I cantieri sono ancora al palo, la strada continua a restare un vero e proprio calvario e gli abitanti sono sul piede di guerra: “Siamo pronti alla mobilitazione, ne abbiamo abbastanza. Senza strada siamo isolati, inoltre si verificano continui incidenti, a volte mortali. Presto bloccheremo la strada, sarà una protesta clamorosa”, promette Boutali Ad Tchiwerin, una delle anime del dissenso.
Il Fatto 18.6.18
“Io, baby-soldato agli inferi per i soldi di Boko Haram”
Fra i giovani detenuti nel carcere minorile della capitale Niamey
di Pfc
Ibrahim è stato arrestato sette mesi fa dalla polizia a Diffa, l’ultima cittadina raggiunta da una strada asfaltata nel sud-est del Niger. Da allora è rinchiuso nella sezione minorile del carcere civile della capitale Niamey; ha 16 anni, indossa una maglia bucata del Borussia Dortmund, pantaloni neri strappati e non ha le scarpe. Ibrahim è uno dei 60 detenuti “ospitati” in questo cortile infernale di pochi metri quadrati. Sul volto placido l’ombra di un dramma immane e una cicatrice che divide in due la faccia: “Sono stato arrestato di notte, la polizia dice che sono un affiliato di Boko Haram, ma io non so neppure chi siano queste persone. Sono dentro senza aver fatto nulla”.
L’epicentro delle scorribande del gruppo terroristico che si ispira al Califfato, comprende pure la provincia di Diffa, dove la settimana scorsa un attentato ha provocato 12 vittime. Area di confini tribolati, Camerun, Chad e Nigeria ad un passo. Una terra di nessuno dove è facile fare proseliti, manovalanza innocente da trasformare in ragazzini-soldato. Se la polizia ha arrestato Ibrahim, qualche sospetto dovrà pur esserci ed in effetti, messo alle strette, il sedicenne inizia a raccontare: “Stavo a zonzo senza fare nulla, vivevo in strada, la mia famiglia non so che fine abbia fatto. Un giorno si sono presentati degli uomini e mi hanno chiesto se volessi guadagnare dei soldi. Ci addestravano, io però non ho mai sparato e ucciso nessuno”.
Chi entra qui dentro si incattivisce ancora di più. La sezione per i minori è un quadrato grande come un campo da pallavolo con un muro di cinta alto cinque metri, ricavato nell’area del penitenziario per adulti. L’amministrazione penitenziaria nigerina fornisce ai reclusi un solo pasto giornaliero: riso vecchio diventato solido, da tagliare col coltello, irrorato da una salsa verdastra e rivoltante. A parte il sabato quando i volontari della sezione di Niamey di Sant’Egidio portano verdure fresche, biscotti, bevande. I dormitori, tre stanze anguste, a terra solo coperte, un bugliolo in comune, mura scrostate e un tanfo nauseabondo: “Sono entrato così come mi vedi, non ci passano sapone per lavarci, vestiti. Neppure una zanzariera. Di notte ci chiudono dentro queste stanze infestate di insetti, si muore di caldo”. Rashid ha appena 11 anni, addosso un paio di pantaloncini e il volto da bambino: “Sono qui dentro per il furto di in telefonino”.
Abdul, 15 anni, maliano di Gao, in Niger c’è finito per caso. Un altro dei tanti bambini di strada, abbandonato dalla famiglia. Tiene gli occhi semichiusi, sembra drogato, ha la voce roca ed è difficile capirlo quando parla, anche per Djibril, il traduttore, l’unico a parlare francese. La sua pena è di tre anni, tra le più alte: “Mi hanno messo in mezzo quei bastardi” dice Abdul. Djibril appunto, 16 anni, il più colto del gruppo, l’aria da leader, una sorta di “inquadrato” capace di imporre le sue regole: “Non dovevo essere qui, è stato un colossale errore. Purtroppo in Niger hai torto anche quando hai ragione”.
In realtà, ammetterà più tardi, Djibril è in carcere per la quarta volta, alle spalle una serie di delitti da criminale sfegatato. Musa, al contrario, sa bene perché si trova lì dentro e cosa lo aspetta. Tra pochi mesi compirà 18 anni e il suo destino è passare nella sezione adulti della prigione. Due anni fa circa, al termine di una rissa violenta, c’è scappato il morto.
Anche Nasser voleva cambiare vita, purtroppo pochi mesi fa nessuno ha capito la gravità delle sue condizioni di salute. Un mattino non si è svegliato e i suoi compagni di cella lo hanno trovato supino, con gli occhi spalancati e una smorfia di dolore disegnata sul volto.
La Stampa 18.6.18
Turchia, la tratta delle rifugiate siriane
Vendute ai ricchi come “seconde mogli”
di Marta Ottaviani
Vendersi per la disperazione. Essere cedute dalla propria famiglia di origine per aiutarli economicamente. Venire scelte come seconde mogli e subire vessazioni dai mariti che non si sono potute scegliere e dalle loro prime (e legittime) consorti. È il drammatico destino toccato in sorte a migliaia di donne siriane, spesso appena adolescenti, che sono scappate in Turchia per salvarsi dalla guerra civile che attanaglia il loro Paese da otto anni.
Poligamia mascherata
Alcuni siriani sono riusciti a rifarsi una vita e a fare della Turchia una vera e propria seconda casa. Ma sono solo una minoranza degli oltre 3,5 milioni che hanno attraversato il confine a partire dal 2010. I campi allestiti da Ankara riescono ad assorbire appena 300 mila rifugiati. Il resto vive di espedienti, spesso senza riconoscimento legale e con lavori precari, quando ci sono. Per questo tutto diventa una risorsa. Per prime le donne. Molti padri hanno venduto le loro figlie a uomini già sposati, che le hanno prese come «seconde mogli».
La poligamia in realtà in Turchia è illegale. Ma è piuttosto diffusa, soprattutto nel Sud-Est. La prima consorte viene sposata davanti alle autorità amministrative. Le altre, fino a tre, in moschea. Un matrimonio che non ha alcun valore davanti alla legge, ma solo per la comunità. Con tutto quello che ne consegue a livello di accordi privati. Molto spesso si tratta di una vera e propria svendita. Le famiglie delle giovani donne ricevono dai 200 ai 1000 euro al massimo.
La seconda moglie può venire offerta in cambio di un lavoro o dell’affitto di un appartamento. Le donne siriane sono molto richieste anche perché a volte si tratta di immigrate irregolari, senza documenti, quindi inesistenti per lo Stato. Come seconde mogli, non hanno alcun diritto. Non possono richiedere la cittadinanza e in caso di «separazione» non hanno nessun diritto legale sui figli. Vite spezzate, che pensavano a un futuro, anche affettivo e che in molti casi sono state costrette a interrompere il fidanzamento con il partner nella loro città natale.
Le violenze
Il fenomeno è difficile da quantificare, proprio per la sua illegalità. Ma sta assumendo proporzioni preoccupanti. Secondo la Ong, Kilis platform, nella sola Kilis, nel Sud-Est del Paese, le donne siriane prese in sposa come «seconda moglie» in moschea sarebbero almeno 5000. Oltre a un matrimonio senza amore, le giovani consorti si devono preparare a subire angherie e violenze di ogni tipo, fisiche e psicologiche. Non solo da parte del marito, ma anche dalle mogli «ufficiali», che spesso le trattano come serve, soprattutto se non sono riuscite a dare figli al proprio marito e vedono nelle spose siriane una minaccia al loro primato legale. E loro devono subire in silenzio, sviluppando spesso anche disturbi psicologici legati all’ansia. La fine dell’unione significa l’interruzione dell’accordo economico con la famiglia di provenienza.
Quasi tutte loro pensano di non avere diritti e considerano normale dipendere dai voleri paterni, soprattutto se è per aiutare il resto della famiglia. La pratica è diffusa soprattutto nelle città dove l’immigrazione siriana si è fatta maggiormente sentire, quindi Hatay e Gaziantep, due fra le località più prossime al confine. Gli uomini coinvolti molto spesso hanno passato la mezza età e collocano questa poligamia mascherata e questo sfruttamento delle donne siriane se non come un’opera di bene, di certo non come un crimine, perché stanno aiutando una famiglia musulmana.
C’è poi chi si è buttato nel business. Nel Sud-Est è pieno di mediatori, che coniugano domanda e offerta, selezionando le giovani più belle per i potenziali mariti più benestanti e cercano di concludere l’accordo, aggiudicandosi una percentuale per aver condotto la trattativa. Agiscono anche su mandato di uomini che vivono nelle maggiori città Paese, fra cui Istanbul e la religiosissima Konya.
Il fenomeno su Internet
Un’autentica, vergognosa tratta delle donne, che è esplosa anche su Internet. Lo scorso dicembre, dopo le pressioni della Tkfd, la Federazione turca delle associazioni per i diritti delle donne, la magistratura ha chiuso il sito evlilicik.com, che offriva anche la possibilità di cercare ragazze siriane disponibili a diventare «seconde mogli».
L’iscrizione al sito prevedeva la compilazione di un lungo questionario, che indugiava anche sulle abitudini religiose chiedendo espressamente di indicare quante volte pregassero al giorno. Venivano anche chiesti particolari sulla vita passata delle «candidate»: se fossero già state spostate e soprattutto se avessero figli. Lo stop a evlilicik.com, purtroppo, non ha certo fermato la tendenza. Basta andare sui motori di ricerca e digitare alcune parole chiave e si raggiungono siti-fotocopia. Uno di questi, suriyelikadinlar.com, propone alternative divise per città. Il dito delle associazioni è puntato contro le autorità di Ankara, accusate di favorire un atteggiamento sempre più devoto e di chiudere un occhio davanti alla poligamia e allo sfruttamento delle donne. In alcuni casi, infatti, la possibilità di contrarre un matrimonio come seconda moglie tramite il web, nasconde un destino ancora più tragico: quello della prostituzione. In molti si fingono uomini interessati ai profili delle candidate solo per avvicinarle e poi ricattarle. Una tragedia che si consuma sul corpo di donne scappate da una guerra e precipitate in un secondo inferno.
Corriere 18.6.18
Furio Colombo sfata gli stereotipi Un’enciclopedia contro le falsità
Polemica Una raccolta di scritti edita da La nave di Teseo mette in scacco le mistificazioni del razzismo
di Corrado Stajano
Sembra venuto dall’aldilà il libro di Furio Colombo uscito proprio in questi giorni contemporaneamente all’odissea dell’Aquarius. Si intitola Clandestino. La caccia è aperta. Protagonisti sono i migranti, la loro tragedia, la nostra angoscia di spettatori impotenti. Nel momento di confusione crudele in cui stiamo vivendo, il libro (La nave di Teseo) sembra un ex voto che serve a ragionare, un rimedio utile a smentire le bugie che ci vengono quotidianamente ammannite, un aiuto per capire quali potrebbero essere le soluzioni per risolvere un problema reale che una classe dirigente imberbe, intrisa di razzismo più o meno mascherato, non si preoccupa di trovare, attenta solo ai problemi del potere, ignara delle conseguenze dell’alzare la voce nel consesso internazionale. Questo in un Paese di emigranti come il nostro dove milioni di uomini e donne, dall’Unità a oggi, hanno pagato con le lacrime e il sangue la perdita della patria per trovare lavoro.
Furio Colombo possiede una profonda esperienza nazionale e internazionale. Ha insegnato alla New York University, all’Università della California di Berkeley, alla Columbia University, ha conosciuto i grandi della terra, è stato direttore dell’Istituto italiano di cultura di New York e in Italia, oltre ad aver pubblicato libri di rilievo sulla politica, la democrazia, il giornalismo, è stato parlamentare della sinistra per tre legislature e ha diretto (dal 2001 al 2005) «l’Unità» che in quegli anni sembrava diventata il giornale di Giustizia e Libertà.
A differenza di tanti politici di governo, con miserrime biografie, ha le carte in regola per discutere e far polemica. Tra l’altro ha scritto (Laterza, 2012) il saggio Contro la Lega. L’esergo del libro chiarisce il suo pensiero: «Avete fatto del Mediterraneo una Guantanamo in alto mare». (Dagli atti del processo intentato dall’Alta Corte di Strasburgo per i diritti umani che il 23 febbraio 2012 ha condannato l’Italia per crimini contro l’umanità, su denuncia di alcuni sopravvissuti consegnati ai libici).
Clandestino, dunque. È una raccolta di scritti di questi ultimi anni. Tra gli altri contiene anche le risposte ai lettori del «Fatto Quotidiano» di cui Furio Colombo era ed è editorialista.
Mette subito le mani avanti, lo scrittore. Il libro comincia così: «Tutto quello che vi hanno raccontato sul traffico in mare, di soldi, barche, navi, soccorso, vita e malavita dei migranti, non è vero: in nessun tempo, in nessun punto. Conservate questa nota e verificate quando qualcuno presenterà le prove».
L’Italia non è assediata dai migranti, come viene detto. La percentuale dei profughi, qui da noi, è minore rispetto agli altri Paesi europei. Un esempio: nella penisola, lo scorso anno, sono arrivati in 60 mila, 230 mila in Germania. Nella polemica furibonda dei giorni passati ci si è dimenticati, tra l’altro, di dire che la maggior parte dei migranti che vivono in Italia non sono sfaccendati che dormono sui cartoni dei marciapiedi: il loro lavoro accresce di circa il 9 per cento il Pil, il Prodotto interno lordo.
Clandestino è una registrazione di eventi quotidiani. In certi ambienti la cattiveria è diventata palpabile, con il disagio e l’insicurezza. Certi segni destano grave preoccupazione. Sulle vetrine di alcuni negozi di città grandi e piccole sono comparsi terrificanti cartelli con la scritta: «Si assume personale soltanto italiano», che rammentano quel che di atroce accadde ai tempi delle leggi razziali del 1938. Certi princìpi, poi, che sorreggono l’idea di nazione, più da noi che nel resto d’Europa, ugualmente in crisi, sembrano incrinarsi, con lo smarrimento della fede nel progresso sociale e civile e con la caduta di tante speranze. (Mentre nei centri piccoli e grandi non pochi si arrabattano, inventano, creano, ma mancano i ponti di collegamento, manca la politica. Si discute di persone, di posti, non di problemi).
In gran parte del Paese, in contrasto con la propaganda razzista della Lega, che un tempo si accaniva contro il Sud e i meridionali — «Affrica» — e ora ha mutato bersaglio, i migranti vengono accolti con semplice umanità. I bambini bianchi e neri studiano e giocano con normalità nelle scuole e così gli adulti che non creano muri tra loro. Non è vero che i migranti «rubano il posto agli italiani». Sono gli italiani che spesso rifiutano gli umili lavori. Sono i migranti a rimanere vittime per bisogno dei crudeli caporali delle campagne.
Il libro di Colombo è una sorta di enciclopedia su quel che si dice dissennatamente dei migranti, protagonisti i politici dalla mente torbida e i loro accoliti, quasi un Dizionario dei luoghi comuni, il catalogo di Gustave Flaubert.
Come si può considerare un tradimento l’ospitalità? Violare le norme elementari del vivere civile, cancellare ogni moto di pietà, considerare nemici i medici che curano i migranti, donne e bambini senza genitori e, anch’esse nemiche, le Ong serie e corrette che vogliono salvare persone vittime della fame e della guerra?
Il problema sembra piuttosto quello di por mano alle leggi e al diritto internazionale, di esigere, non con l’aggressività, la violenza, le urla — un boomerang — che l’Unione Europea non lasci sola l’Italia, come ha detto la Merkel, e di far sì, con le armi della politica professionale e della diplomazia, che il Mediterraneo sia veramente il mare d’Europa, di tutta l’Europa.
Come può chiudere i porti una nazione come la nostra, quasi del tutto coste e mare, che ha sulla bandiera della Marina militare, alla quale, per il suo comportamento, va reso onore, gli stemmi delle nostre quattro antiche Repubbliche marinare?
Il Fatto 18.6.18
Per capire la cultura del Male prima e dopo la Shoah
La spiritualità segreta dei “marrani” nelle campagne antisemite in Spagna
di Furio Colombo
La cultura del bene ha le sue grandi invenzioni. Per esempio la scoperta della pietà che consente il soccorso, della identificazione che permette di accettare esistenza e dignità dell’altro, del rapporto fra invenzione e realtà che porta al mondo infido e avventuroso del rapporto fra verità e menzogna. La cultura del male ha lavorato alacremente lungo questo stesso percorso per rovesciarlo: non ti riconosco, non ti soccorro e credo in false ragioni per farti male, graduando il male senza alcuna altra ragione che il mio potere. Nella storia dell’umanità, al centro del punto di distinzione fra il bene e il male c’è una esemplare scoperta malvagia: inventare il popolo dei marrani. Che sono lo straordinario giocattolo della persecuzione che comincia da prima, come difesa, e continua dopo, come condanna non cancellabile. Marrani è il libro di Donatella Di Cesare (Einaudi). È un testo di filosofia, storia e constatazione che rende espliciti alcuni concetti ovvi (nel mondo dell’antisemitismo) ma oscuri e volentieri abbandonati nella persuasione di vivere, dopo la Shoah, in una sorta di dopo guerra dove, insieme con la memoria del dolore, resta un senso illusorio di raggiunta immunità. Il gioco del marrano, spiega questo libro, è una scatola magica che nessuno ha mai smontato e che funziona ancora. Funziona bene, quando volete. O quando vuole l’antisemita professionale che ritroviamo, senza alcun turbamento di dubbio, generazione dopo generazione. Ma anche: nessuno ha voluto smontare questa scatola per una certa inconfessata paura di doversi, da capo, misurare con il contenuto malefico, fondato su una presunta ardente fede cristiana e il timore di contagio col maleficio degli estranei alla fede, persino se non c’è alcuna fede e alcun ebreo. Esempio: la Polonia di oggi. Che cosa vuol dire “inventare i marrani”? Vuol dire che il convertito è un giocattolo nelle mani del potere cristiano, accettato e respinto, fintamente riconosciuto e giudicato con disprezzo senza dover decidere né perchè né quando. Ciò accade in nome della libertà che il marrano (l’ebreo convertito nel linguaggio della grande persecuzione ed espulsione spagnola) non avrà mai perchè, essendo per natura colpevole, dovrà sempre subire. E ciò vale sia per le condanne pronunciate apertamente sia per quelle che restano un patrimonio tramandato e segreto, di una massoneria cristiana anti-ebraica. Il libro è carico di storia, ragione, riflessione, che molti insegnanti di liceo farebbero bene a condividere (data la qualità della scrittura) con i loro studenti. È la storia dei rapporti dei cristiani con gli ebrei prima della Shoah. E dopo.
La Stampa TuttoLibri 16.6.18
Il “j’accuse” di Pareto dall’Italia dell’800: la Casta è al servizio solo di se stessa
Una feroce analisi dell’era Crispi nelle lettere che l’economista scrisse per una rivista anarchica americana dalla cialtroneria della classe politica, alle trappole dell’ignoranza e del populismo, alla fede liberale
di Ugo Magri
Il fascino delle lettere a «Liberty» è che parlano di grandi cose. Raccontano il mondo come è ma anche, in filigrana, come potrebbe progredire. Riconoscono alla mente umana la capacità di emanciparsi dai falsi miti, di smascherare gli orpelli del potere e, con l’aiuto della ragione, di plasmare forme di libertà che non si adagiano sul presente. Insomma, trattano della Politica maiuscola, quella capace di suscitare passioni perfino negli spiriti più refrattari, meno inclini a farsi trascinare nell’arena. E certamente Vilfredo Pareto, l’autore di queste lettere, era il massimo del disincanto, quanto di più lontano si potesse concepire dai modelli utopico-rivoluzionari: semmai un impasto liberale e conservatore, un economista che in seguito avrebbe applicato il metodo sperimentale alle dinamiche sociali. Insomma: una mente distaccata, lucida, razionale.
Eppure nei reportage di Pareto sull’Italia crispina fine Ottocento, destinati a una rivista anarchica di Boston e raccolti per la prima volta in volume da Alberto Mingardi (L’ignoranza e il malgoverno - Lettere a “Liberty”), si coglie una vibrazione emotiva, si percepiscono idealità profonde. «Mi occupo delle sofferenze del popolo e dell’oppressione praticata dalla borghesia perché si tratta di fatti reali», annota il futuro padre della scienza politica. Rivendica, senza pose eroiche, «la forza e il coraggio di rimanere a schiena dritta quando gli altri si inginocchiano» davanti al «crescente potere dei governi». Individua nell’istruzione delle masse la vera e unica via dell’emancipazione: «Ogni giorno in più mi persuado che quasi tutti i mali della società hanno per ragione l’ignoranza», «solo attraverso l’educazione e l’insegnamento riusciremo un giorno a migliorare questo stato di cose». Quanto di più lontano da lui è l’idea che le classi oppresse possano spezzare la proprie catene ribellandosi. Il suo pessimismo, al riguardo, è totale, definitivo: «Se il potere passasse nelle mani delle masse, esse non ne farebbero uso migliore; al contrario, dacché esse sono ancora più ignoranti e brutali della borghesia, la loro oppressione sarebbe peggiore. Di conseguenza il rimedio, a mio avviso, non sta in un cambiamento del padrone, per quanto possa rappresentare forse», concede agli interlocutori d’oltreoceano, «una transizione necessaria; per come la vedo io, l’unico modo di diminuire la somma totale della sofferenza nel Paese è di sottrarre l’individuo quanto più possibile al potere del governo».
Giustamente Mingardi, nel presentare le lettere di Pareto, si sofferma sui loro destinatari, in quanto di anarchici si trattava, e in un periodo storico in cui la sola parola bastava a suscitare allarme nei poteri costituiti. In questo caso, però, l’anarchismo della rivista Liberty non prevedeva le bombe, ogni ricorso alla violenza era bandito. La lotta veniva propugnata sotto forma di resistenza passiva a uno Stato sempre più invadente che, diversamente dai liberali alla Pareto, Benjamin R.Tucker e gli altri eretici di Boston non volevano semplicemente limitare, ma abolire del tutto lasciando gli individui pienamente padroni del loro destino. Se si vuole, un liberalismo all’ennesima potenza, con influenze spenceriane, echi di Max Stirner, richiami a Bakunin e suggestioni religiose che, nel Nuovo Mondo, a quel tempo non mancavano mai.
L’attualità delle lettere sta nella critica, oggi diremmo, della casta politica. Eterna. Immutabile. Auto-indulgente. Profittatrice. Le élites nazionali al servizio esclusivo di se stesse. Pareto ne mette a nudo i falsi propositi: «E’ sempre molto difficile determinare con precisione in che misura un politico ha sacrificato gli interessi del suo Paese ai propri: spesse volte egli arriva a credere che sta agendo per il bene del suo Paese nello stesso momento in cui avvantaggia delle circostanze per accrescere le proprie fortune o il proprio potere». E ancora: «In tutte le classi dirigenti noi troviamo persone che onestamente credono che i loro principi e il dominio della loro classe siano nell’interesse generale. Ma questa circostanza non giustifica in nessun modo tale regola: dobbiamo solo concluderne che è necessario essere molto indulgenti con gli uomini rimanendo inesorabili circa i principi». Chiosa Mingardi, guardando al presente: «Con l’eccezione di un breve intervallo nel secondo dopoguerra, la classe dirigente italiana ha fatto di corruzione e cialtroneria il suo tratto saliente. Per coloro che si disperano ad ogni campagna elettorale, vedendo deteriorare la qualità del discorso pubblico e immiserirsi il ceto politico, è quasi un pensiero confortante».
La Stampa TuttoLibri 16.6.18
Non si muore di troppo dolore: i greci ce lo insegnano da 3mila anni
Dopo la scomparsa della moglie un uomo perde la forza di andare avanti e occuparsi del figlioletto ma una studentessa, innamorata dei poeti antichi, gli fa dimenticare “il mare color del vino”
di Andrea Marcolongo
Saresti la stessa persona se non assaporassi l’Antichità? Quel sapore di patina?», chiede al protagonista la ragazza bionda che gli dorme accanto. Christophe Ono-dit-Biot ha il talento di rispondere a questa domanda nel suo nuovo libro, Credere al meraviglioso, dopo il successo mondiale di Immersione. In un’Europa atterrita dalla paura di smarrire le sue origini e intossicata dalla nostalgia, in cui si sfornano valanghe di saggi per convincere qualcuno (forse solo se stessi) che il classico sia utile e dunque da salvare, Ono-dit-Biot ha la sfrontatezza di usare l’immaginazione e di scrivere invece un romanzo. Proprio come un tempo lontano fece Omero, il francese ha intuito ciò che serve oggi: uno sguardo nuovo e uno stile un po’ da pirata per sfidare l’amnesia collettiva con «ossigeno narrativo». Calvino gli avrebbe dato ragione.
Ecco dunque la storia di un uomo, un giornalista originario della Normandia poco più che quarantenne, che ha perduto la moglie spagnola che tanto amava e che gli ha lasciato un figlio cui badare, identico a lei - «il grande tuffo» ha fatto Paz, scegliendo di morire nell’acqua. Ora spetta a lui riemergere da quel mare color del vino e che si chiama dolore, disperazione, alcool, forse vecchiaia. Di certo, da quella patina che la vita, con il suo scorrere, lascia intorno agli occhi di tutti noi che mortali siamo, non dei. Dall’Italia, «in tutto il suo splendore sofisticato e barbaro», inizia il lungo viaggio del protagonista alla ricerca del ricordo di lei e della sua presenza nell’assenza. Tra i caffè ristretti della costiera amalfitana dove cerca di aggiustare la statua di una sirena che lui e Paz avevano acquistato insieme in quei giorni felici in cui facevano l’amore sulle maioliche del pavimento per rinfrescare i loro corpi dopo l’orgasmo - statua maldestramente arrivata a Parigi rotta e che adesso bisogna ricomporre perché è per lui symbolon di lei, ceramica che gli antichi spezzavano e si scambiavano per legare per sempre due esseri umani, prova eterna del loro perfetto incastro. Per poi arrivare tristemente a capire che «non ero Orfeo, e nemmeno Orfeo, comunque, era riuscito a riprendersi Euridice. Per il semplice motivo che i morti sono morti. Non li si riprende.»
Arriva una sera di canicola estiva, dietro a una libreria che scintilla di giallo e di rosso, le copertine delle edizioni classiche Budé, e arrivano anche le pillole acquistate comodamente su Internet per farla finita - atarassia via eBay. Fino a che non suona alla porta una ragazza bionda, studentessa di architettura e figlia di un ricchissimo armatore greco, caviglie sottili, occhi azzurri: si chiama Nana. È con lei, correndo in Vespa per Parigi, tra Pisco Sour (il vero nettare degli dei) e folli attentati di chi ha smarrito un dio, con un catalogo di tatuaggi al posto dell’omerico catalogo delle navi, che il protagonista inizia la sua risurrezione: perché Orfeo non è morto, sono tremila anni che i Greci ci insegnano che di troppo dolore non si muore, mai. E che ciò che salva è la luce, come quella di Teshima, l’isola del Giappone dove una nuova, antica Alba si leverà sulla vita del protagonista e di suo figlio.
Ono-dit-Biot (che ha tradotto tutti i passi in greco e in latino presenti nel libro) nell’antico si getta con l’agilità, e forse con il dolore, del magico Tuffatore dipinto sulla tomba di Paestum, nudo e con un occhio aperto, chiaro. Il risultato di questa immersione è un romanzo unico, sublime nel senso etimologico del termine, sotto la superficie dell’acqua, della banalità delle cose e del nostro tempo arrogante. Perché «delle volte, è bello credere al meraviglioso» - leggendo il suo romanzo s’intuisce che ne abbiamo tutti un bisogno disperato.
Repubblica 18.6.18
Le nomine
Le mire dei Cinquestelle su Raitre
Sindacato giornalisti, spunta la lista sovranista e fa il pieno. Per la direzione dei Tg Salvini punta sull’amico Sangiuliano
di A.Cuz.
Roma L’onda lunga del « sovranismo » arriva anche in Rai. E alla vigilia della nuova spartizione di reti e tg, la Lega è già pronta ai nastri di partenza per mandare via i giornalisti e dirigenti che, per dirla con Salvini, hanno fatto in questi anni contro il Carroccio « tg da anni ‘ 20 e ‘ 30 » . L’uomo di punta del nuovo corso gialloverde a Saxa Rubra è Gennaro Sangiuliano. Eterno vicedirettore del Tg1, ex missino, poi berlusconiano, Sangiuliano è da tempo il candidato del ministro dell’Interno a qualsiasi cosa. «Matteo Salvini è un caro amico » , scrive nella sua pagina Fb dove lo scorso aprile ha postato un’immagine del 2015 che lo ritrae con il segretario leghista e il collega Giuseppe Malara alla presentazione del suo libro su Putin. E dove più di recente ha messo un selfie scattato con il vicepremier dopo un incontro a Milano. Un modo per sottolineare che l’amicizia con il Carroccio è di lungo corso. Operazione che appare riuscita, visto che la lista sovranista « Pluralismo e libertà», guidata da Malara e nata dal nulla alla vigilia del congresso Usigrai che si apre oggi a Bologna, ha conquistato 3 degli 8 delegati di Raiuno.
Salvini vorrebbe promuovere Sangiuliano a direttore del Tg1, ma è difficile che l’operazione riesca. Il M5s pensa infatti a un profilo interno per la testata «istituzionale». Qualcuno come la quirinalista Simona Sala o Bruno Luverà. Sangiuliano potrebbe dunque essere dirottato alla direzione dei Gr, appena lasciata da Gerardo Greco che a breve sarà nominato direttore del Tg4. Lo schema della spartizione M5S-Lega non prevede «riserve indiane » a Tg3 e Raitre. E del resto, dalla maggioranza ricordano che anche Renzi non aveva lasciato spazi. Ma la Lega è già attiva da tempo e anche per questo, tre giorni fa il presidente della Camera Roberto Fico ha voluto lanciare un avvertimento: « Le nomine in Rai saranno un banco di prova per il governo » . E dovrebbero, secondo il leader degli ortodossi M5S, essere fatte per merito, non per cordate di partito. Alla direzione generale al momento il candidato più forte è Fabrizio Salini, ex ceo di Fox e ex direttore del La7. Resta l’obiettivo di riportare in Rai Milena Gabanelli, ma non come dg. Si potrebbe riprendere il progetto della direzione digitale, morto prima di nascere, motivo che l’ha spinta a dimettersi dalla Rai. E potrebbero tornare da La7 anche Giovanni Floris e Massimo Giletti. Non come direttori però, visto il tetto dei 240mila euro previsto per dirigenti interni e giornalisti. In ogni caso, la Lega dovrebbe avere la direzione del Tg2 con Luciano Ghelfi e anche la rete. Il M5S dovrebbe conquistare Tg3 e TgR, per i quali è in corso una partita a due tra Giuseppe Carboni del Tg2 - che ha seguito a lungo il Movimento - e Alberto Matano del Tg1, scoperto da Daria Bignardi e conduttore di “Io sono innocente”.
Repubblica 18.6.18
Intervista a Zoro
“Al potere un’estrema destra che governa a colpi di propaganda. Danni incalcolabili”
di Concetto Vecchio
I palazzinari e i corruttori di Roma sono molto più preparati della classe dirigente della Capitale
La sinistra c’è ancora nella società, ma va organizzata Si prendano ad esempio i sindacalisti che difendono i braccianti
ROMA «Ho osato l’inosabile: chiedere un’intervista a Sergio Mattarella. La sua risposta è un riconoscimento al lavoro fatto quest’anno. Meno male che c’è lui al Colle». Venerdì era l’ultima puntata di “Propaganda Live” su La7 e Diego Bianchi ha chiuso la stagione con un doppio colpo: la lettura in diretta della lettera del presidente della Repubblica, che si è detto un divertito estimatore della trasmissione, e i dati Auditel che lo hanno ancora una volta premiato con uno share del 6,6 per cento.
«Ottavia Piccolo ci ha fatto un grande complimento: “Voi siete un’ancora a cui aggrapparsi”», racconta Bianchi.
Che governo è?
«Fieramente di destra, anzi di estrema destra. C’è voluto poco per capirlo, sin dalle prime parole, dai gesti. La propaganda si è fatta azione di governo, con un doppio paradosso: il partito uscito più debole dalle urne detta la linea, con un premier che si fatica a trovare nei titoli dei giornali».
Proprio Conte ha detto che le ideologie sono morte.
L’M5S ha ancora un’anima di sinistra?
«Quando vai al governo con Salvini la verginità l’hai persa: il velo cade. La destra esiste ancora, c’è in tutto il mondo. In Italia è forte come non mai».
Cosa la colpisce di più in Salvini?
«La sua spregiudicatezza. Questo uso ripetuto degli slogan per fare colpo sui social. Pensi all’uso delle parole: pacchia, crociera. Sono termini che fanno accapponare la pelle. Su temi così delicati vige un’ignoranza diffusa. Anche l’M5S non è innocente. Hanno parlato loro per primi dei taxi del mare: sull’immigrazione hanno la stessa linea. I danni che questa propaganda produce alla lunga sono incalcolabili».
Non era meglio il centrosinistra?
«Io penso che Salvini sia conseguenziale a Minniti. Non si può fondare una politica sull’immigrazione facendo nei fatti accordi con i trafficanti, e poi esultare per l’entità del calo degli arrivi. Tutta la campagna sull’immigrazione in questi anni è stata impostata sulla percezione.
Non c’è alcuna invasione, eppure vi si insiste senza soste».
Che colpe ha la sinistra?
«Di aver rinunciato a svolgere la propria funzione. Prenda l’esempio dello Ius soli. Il Pd decise di non insistere anche per non scontentare un certo tipo di elettorato, seguendo la linea di Alfano. Solo che alla fine la gente preferisce votare sempre per l’originale, questo dovrebbe essere ormai chiaro. Ma se la sinistra non conduce fino in fondo le sue battaglie che ci sta a fare?».
Ma la sinistra c’è ancora?
«Nella società sì, il problema è organizzarla, ricostruirla. Questa è la grande sfida che l’attende. Ho riscontrato tra i sindacalisti degli immigrati che si ribellano alla schiavitù nei campi del Sud una voglia di cambiare le cose, una capacità di resistenza, che andrebbe presa ad esempio».
Cosa pensa del caso Aquarius?
«Un esempio di celodurismo spregiudicato, fatto con totale disprezzo della logica. Ora i migranti sono stati condotti in Spagna da due navi della Guardia costiera e della Marina militare; secondo la loro morale si usano in questo modo “i soldi degli italiani”, mentre si attaccano le ong che operano invece con i soldi dei donatori. Si ripete ossessivamente che l’Europa “ci ha lasciati soli”, salvo poi tifare per chi non li accoglie, come i Paesi di Visegrad. Se si mettono in fila questi ragionamenti viene fuori un cumulo di incoerenze, falsità, bugie spacciate però come verità assolute».
Che fare?
«I punti di riferimento purtroppo sono sempre di meno.
L’aggressione verbale di cui è stato vittima Mattarella mi ha colpito moltissimo: ho però molto apprezzato il fatto che non sia sceso al loro livello».
Da romanista cosa pensa
dello scandalo stadio?
«Che a Roma oggi i corruttori e i palazzinari sono molto più preparati della classe dirigente che governa la città. Avevano detto no alle Olimpiadi, per paura degli scandali, e puntualmente è successo con lo stadio. Mi piacerebbe che ci fosse prima o poi una classe politica con la schiena dritta, capace di gestire anche appalti complessi, che fanno avanzare la città».
La Raggi però dice di non c’entrare.
«Non concordo con chi afferma che deve dimettersi, ma non accorgersi mai di quel che le succede attorno alla lunga non può essere un’esimente. Vorrei qui ricordare che Ignazio Marino è stato mandato via, non perché la gente era scontenta, ma perché il suo partito l’aveva sfiduciato in un modo autolesionistico: quella defenestrazione resta, a distanza di tempo, inspiegabile. Governare Roma è difficile, ma a Virginia Raggi di fare il sindaco non gliel’ha ordinato certo il medico».
Repubblica 18.6.18
Primo sì alla legge che vieta di filmare i militari israeliani
di Marco Ansaldo
Istanbul, Turchia I video girati sui soldati israeliani in azione rischiano presto di essere puniti per legge. Lo denunciano nello Stato ebraico i gruppi per il rispetto dei diritti umani, le cui prove di maltrattamenti o di uccisioni di palestinesi hanno spesso portato i responsabili di quei crimini a essere processati.
Il partito ultranazionalista Yisrael Beitenu, alleato di governo con quello del premier Benjamin Netanyahu, ha proposto una bozza di legge che prevede la punibilità fino a 5 anni per i filmati girati e diffusi «con l’intento di compromettere la morale dei soldati di Israele». Il testo è stato approvato da un comitato ministeriale e sarà sottoposto mercoledì al Parlamento. Preme per la sua approvazione il leader del partito, il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman: «I militari israeliani sono sotto attacco costante da parte di coloro che odiano Israele e dei sostenitori del terrorismo che cercano di macchiarne l’operato».
Un messaggio rivolto principalmente alle organizzazioni israeliane che negli anni hanno filmato e diffuso immagini che hanno creato problemi all’esercito: nel 2016 un video mostrato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, con le immagini di un soldato mentre sparava a un palestinese inerme, portò a un processo che divise il Paese e all’incriminazione del militare per omicidio colposo.