Corriere 17.6.18
Fascismi vecchi e nuovi
Quel baratro aperto tra «sinistra» e «popolo»
di Luciano Canfora
Narra
 Anneo Seneca, nel De clementia, che nell’anno 43 a.C. a cena i 
triumviri stilarono le liste di proscrizione. Con una divisione di 
compiti: Marco Antonio comandava, Lepido stava a guardare e il 
giovanissimo Ottaviano, futuro Augusto, scriveva sotto dettatura. Tra 
Salvini, Di Maio e Conte succede la stessa cosa: il primo comanda, il 
secondo sta a guardare con l’occhio chino e il terzo scrive. Se non 
fosse tragica, la situazione sarebbe farsesca, in omaggio alla regola 
generale secondo cui, nella replica, la tragedia diventa farsa. Ma 
parliamo del baratro in cui stiamo precipitando.
Ben si sa che la 
nozione di «fascismo» è stata declinata, sin da molto presto, in due 
modi differenti: per un verso come definizione inerente al fascismo 
italiano, inteso come fenomeno irripetibile, per l’altro in una 
accezione più ampia, comprensiva dei movimenti coevi, e successivi, che 
al fascismo italiano dichiaravano di ispirarsi.
Vi è poi stata 
un’altra vita del termine e (del fenomeno) «fascismo»: ben oltre la 
sconfitta politico-militare del 1945. Si è venuta manifestando, infatti,
 la sua capacità di riproporsi in forme aggiornate ben al di là delle 
formazioni esplicitamente neofasciste e perciò marginali. Che questo 
accadesse è dipeso da fattori tutt’altro che superficiali. Il fascismo 
fu — e può tornare a essere (non importa sotto quale veste) — un modo di
 affrontare la gestione delle società di massa mobilitando e 
coinvolgendo le masse: mescolando sciovinismo (da lanciare contro falsi 
bersagli) e welfare (purché compatibile con gli interessi della parte 
più disinvolta e politicizzata del grande capitale).
Oggi il 
rinnovato successo di un tale esperimento è agevolato dal baratro che si
 è venuto aprendo tra «sinistra» e «popolo». Nella abdicazione della 
«sinistra» ai compiti e ai fini per cui sorse, sono i nuovi movimenti 
fascistici pronti a lucrare su un disagio vero. A questo si aggiunga la 
percezione della sordità di Paesi-guida dell’Europa, i cui governi 
peraltro si tengono le mani libere in tutte le direzioni, di fronte al 
peso che sui «grandi malati» (Italia e Grecia) esercita il fenomeno 
storico della migrazione di popoli in fuga dalla povertà verso 
l’opulenza (sperata o presunta). Per i movimenti fascistici oggi 
all’offensiva questo è un dono: il «popolo» che essi dicono di voler 
difendere è sotto attacco su due fronti, spietatezza dell’élite 
eurocratica che chiama «riforme» la demolizione del welfare, e guerra 
coi poveri esterni. E su entrambi i fronti essi mostrano di difenderlo, 
coniugando la (necessaria) guerra all’élite eurocratica con la facile e 
facilmente trionfante xenofobia. Come fu difficile contrastare questo 
efficace mélange al tempo del fascismo storico, così lo sarà oggi, in 
assenza di un interlocutore, allora indomito, oggi inesistente, quale la
 sinistra. La migrazione in atto esaspera quei medesimi ceti deboli che 
la «moneta unica» ha penalizzato: ne discende una vasta possibilità di 
mietere consenso da parte di movimenti politici (Front national, Lega, 
Alba dorata) che mettono insieme, sotto i riflettori, questi due disagi.
La
 partita appare dunque truccata su entrambi i versanti: l’ex sinistra 
(En marche in Francia, il Pd in Italia) si è assunta il ruolo di 
puntello dell’élite sedicente «europeista»; il nazionalismo leghista e 
lepenista si propone come paladino del «popolo».
Di solito chi si 
sente classificare come «fascistico» si offende e sbraita. E spesso i 
giornalisti benpensanti gli danno ragione. Ciò dipende dal fatto che, 
per fortuna, dei metodi di chi conquistò il potere con la violenza 
(protetta da importanti pezzi dello Stato) e con tali metodi lo 
consolidò, ci si vergogna ancora. Ma l’uso analogico di tale categoria 
definitoria fa riferimento non già alla presa del potere, bensì, 
specificamente, a quello che Renzo De Felice chiamò «fascismo regime» e 
al blocco sociale che, come regime, esso seppe egemonizzare: quando 
ormai la conquista a mano armata del potere, l’olio di ricino e la banda
 Dumini erano alle spalle. Insomma quel fascismo di cui Winston 
Churchill era entusiasta nei tardi anni Venti e ancora in pieni anni 
Trenta, e che tanta ammirazione suscitava negli Usa: da Wall Street al 
sindacalista Samuel Gompers.
Corriere La Lettura 17.6.18
Età del Bronzo
Nella Sassonia di quattromila anni fa la più antica rappresentazione
Un
 disco di bronzo del diametro di 32 centimetri, intarsiato con lamine 
d’oro che raffigurano il sole, la luna crescente, le Pleiadi e altre 
stelle. Gli archi dorati sui bordi del disco potrebbero raffigurare 
l’escursione massima di albe e tramonti solari tra i due solstizi di 
giugno e dicembre alla latitudine del sito del ritrovamento. Le 
raffigurazioni non sono fatte a caso, ma basate su rigorosi calcoli 
matematici che fanno intravedere una competenza astronomica di altissimo
 livello. Il disco (sotto) venne realizzato circa quattromila anni fa, 
verso la fine dell’Età del Bronzo, da un popolo vissuto in Europa prima 
dell’arrivo dei Celti. Fu dissotterrato nel 1999 da due tombaroli in una
 cavità della «Montagna di Mezzo» (Mittelberg), nei pressi di Nebra, in 
Germania, insieme ad altri reperti metallici. Cinque anni fa è stato 
inserito nella lista Memory of the World dell’Unesco, come la più antica
 rappresentazione astronomica conosciuta. È conservato nel Museo 
preistorico di Halle, in Sassonia-Anhalt (lda-lsa.de).
Corriere La Lettura 17.6.18
1380 circa a.C./ Diciottesima Dinastia
Il disco simbolo di Ra (e del colosso petrolifero)
Corpo
 umano. Testa di falco di giorno e testa di ariete la notte. Sopra la 
testa, un grande disco arancione. Così gli egizi rappresentavano Ra, il 
Dio Sole. Si pensava che di giorno navigasse nel cielo sulla barca di 
Mandet, e di notte su quella di Mesktet, illuminando gli abitanti 
dell’aldilà. Adorato essenzialmente a Eliopoli, era considerato 
l’epicentro del culto dinastico, contrapposto a quello popolare di 
Osiride. Si credeva che fosse stato sovrano di un mitico regno terrestre
 e lo avesse poi abbandonato a causa dell’ingratitudine degli uomini. Il
 cerchio solare, simbolo di Ra e della sua straordinaria forza vitale, 
venne inciso sulle porte di molte tombe e templi egizi, e apparve su 
molti papiri e sculture divine (sotto: la Dea Sekhmet, XVIII dinastia, 
Torino, Museo Egizio, museoegizio.it). Il disco di Ra rispuntò come logo
 di una nota compagnia petrolifera della Pennsylvania (la Gulf) mentre 
la sfera solare apparve in cima alla piramide che copriva il grattacielo
 della stessa compagnia nel centro di Pittsburgh. 
Corriere La Lettura 17.6.18
Antica Grecia
Helios corre a perdifiato trainato dai cavalli divini
Nel
 1872 Heinrich Schliemann, scavando nell’angolo nord-est del tempio di 
Atena a Troia, trovò una formella del fregio che raffigurava un giovane 
uomo con la testa incoronata da una raggiera e la veste svolazzante, 
mentre corre come un pazzo su un carro trainato da quattro cavalli. 
L’archeologo vi riconobbe subito Helios, il dio del sole, descritto nei 
minimi particolari dagli antichi autori greci (sotto: metopa con Helios 
che esce dal mare, IV sec. a. C., particolare, Berlino, Pergamonmuseum, 
smb.museum). Raccontavano i greci che Helios era nato dai titani 
Iperione e Teia e che Zeus gli aveva regalato l’isola di Rodi, dove 
regnava circondato dai Giorni, i Mesi, gli Anni, le Stagioni. Al termine
 di ogni notte, indossava il suo elmo radiante, aggiogava il carro ai 
quattro cavalli divini e raggiungeva la Colchide. Qui, al dileguarsi 
dell’Aurora, prendeva il sole e lo portava in giro per il cielo, da 
oriente verso occidente, fino all’isola dei Beati. Helios tornava a casa
 navigando dentro un’enorme coppa d’oro.
Corriere La Lettura 17.6.18
Le analisi dello psicologo sociale John Bargh
A tua insaputa
La mente ibconscia che guida le nostre azioni
Il caffè è caldo? Siamo clementi Il caffè è freddo ? Siamo severi
di Giancarlo Dimaggio
Avete
 avuto un figlio da poco. La coppia di vostri amici no. La città in cui 
vivete è pericolosa. La città in cui vivono i vostri amici no. Sfortuna?
 Neanche per idea. Torniamo due anni indietro, eravate fidanzati e 
neanche pensavate a fare un bambino. Viaggiavate: mare, Provenza, tour 
delle cantine toscane. La vostra città era sicura. Che cosa è cambiato? 
Niente, tranne che ora siete genitori, e all’improvviso il mondo vi 
appare pieno di pericoli. Notate minacce prima inesistenti: bottiglie di
 birra per strada indicano rapitori. Feroci prese elettriche. I 
detersivi ghignano nella notte. Che significa? Che giudicate il mondo in
 un modo che dipende dalle vostre motivazioni (proteggere il figlio in 
questo caso) ed emozioni (la paura). Ma accade a vostra insaputa.
Pensate
 di essere giudici razionali e affidabili del comportamento altrui? Del 
tipo: io non mi sbaglio, le mie impressioni sono sempre giuste. E invece
 siete influenzabili dal caffè, senza neanche berlo. Purché sia 
americano, grande, in bicchiere di cartone. Dovete giudicare una persona
 che vi dicono avere certe caratteristiche. Vi hanno messo una tazza di 
caffè caldo in mano. Siete meglio disposti, la persona ha più qualità 
positive. Se il caffè è freddo, la stessa persona vi piace meno. Sì, 
potete obiettare, ma quando le cose contano veramente, sono infallibile.
In
 realtà è anche peggio. Dovete giudicare le motivazioni di un criminale:
 ha agito a sangue freddo, in modo premeditato, o a caldo, 
impulsivamente. Nel primo caso sarete propensi a sbatterlo in carcere e 
buttare la chiave, nel secondo a concedergli attenuanti. Anni di galera 
di differenza. Bene, se la stanza dove vi trovate è fredda, gli 
attribuirete un omicidio a sangue freddo; se è calda, penserete abbia 
ucciso sotto un’onda emotiva.
(Se mai ucciderò qualcuno, voglio essere giudicato in un’aula ben riscaldata).
Avete
 aree cerebrali che reagiscono al freddo e al tradimento nello stesso 
modo, l’insula per la precisione. Dante ha messo i traditori nei ghiacci
 eterni del Cocito per un buon motivo. Seguite il ragionamento? Lo stato
 del corpo influisce sulle decisioni. Fuori dalla vostra consapevolezza,
 prima del vostro controllo.
Non è solo questione di caldo/freddo.
 Come dice il mio collega Francesco Mancini, se non avete avuto il tempo
 di lavarvi al mattino vi sentite sporchi e, senza saperlo, siete 
moralmente più tolleranti.
(Ho deciso: se commetto un crimine, il 
processo sarà in una stanza calda con un giudice che si è macchiato la 
camicia di caffè, caldo naturalmente).
John Bargh nel libro A tua 
insaputa (Bollati Boringhieri) sostiene una tesi solida: la nostra 
azione è in larga parte decisa a livello inconscio, orientata da fattori
 che ci sono oscuri. Questi fattori hanno un’influenza gigantesca su 
scelte, comportamenti, performance. Volete vincere le elezioni? Se siete
 conservatori, seminate paura e disgusto. I romanzi Il nome della rosa 
di Umberto Eco e Q di Luther Blissett (leggetelo) lo avevano detto. 
Quali sono le condizioni ottimali? La presenza contemporanea di 
immigrati, possibilmente sudati, e immondizia nelle strade. La vittoria 
di Donald Trump, nota Bargh, diventa più comprensibile.
Ma che 
libro è questo? Voi avete opinioni politiche ragionate, acute, dettate 
dai fatti. Non amate sentirvi dire che siete influenzati da emozioni, 
stati del corpo. E invece è così, piaccia o no. Fior di esperimenti 
dimostrano che è più facile fare adottare a un progressista idee 
conservatrici che il contrario. Come? A un gruppo di studenti liberal 
era stata fatta immaginare la propria morte, gli psicologi possono 
essere sadici, nessun dubbio. Subito dopo hanno espresso opinioni più 
conservatrici su pena di morte, aborto, matrimonio omosessuale. Per un 
po’, poi sono tornati a essere se stessi. Qual è il motivo? Sotto 
condizioni di minaccia, impotenza e paura, tendiamo a mantenere lo 
status quo. Più o meno come quando ci nasce un figlio.
Ancora il 
disgusto. Vi chiedono di esprimere un giudizio in una stanza sporca? 
Sarete più intransigenti. Leggo il libro e capisco la mia severità 
morale nei pressi dei cassonetti di Roma. C’è un senso evolutivo in 
tutto questo: assaggiare una bacca attraente mai ingoiata prima da fauci
 umane, quando si è affamati, può essere la salvezza o, se la bacca è 
velenosa, la morte. Il vostro amico nella preistoria ha mangiato e ora 
non c’è più. La bacca diventa schifosa, e lo trasmetterete ai vostri 
figli. Il disgusto induce a evitare l’innovazione, con buone ragioni. 
Usate quella base evolutiva e saprete come influenzare le decisioni 
morali e politiche. Anche i conservatori possono diventare, 
transitoriamente (e a fatica), progressisti. Basta indurre in loro 
un’idea di invulnerabilità. Svanisce la paura, si aprono al nuovo. Se 
gli fate solo immaginare che possono volare, restano conservatori.
I
 nostri valori coprono azioni che eseguiamo per altri motivi. Avete 
presente il detto: fa quello che dice il prete e non quello che fa? Non 
mi piace. La verità delle persone è nei gesti, non nei valori che 
declamano. L’esperimento del buon samaritano ne dà conferma. Con un 
pizzico di blasfemia, a Princeton hanno sottoposto dei seminaristi a un 
test. Stavano per tenere una lezione sulla parabola del buon samaritano.
 Era per loro importante e dovevano arrivare puntuali. «Sotto un 
portico, tutti gli studenti incrociavano una persona malvestita e 
accasciata per terra che aveva l’aria di stare male». I seminaristi lo 
hanno aiutato? Quelli che avevano più fretta non l’hanno neanche notato!
 Qual era il loro impulso: la motivazione a essere apprezzati o 
l’altruismo del samaritano? Se glielo aveste chiesto avrebbero detto il 
secondo: stavano per farci una lezione su. Invece l’ambizione li guidava
 con più forza e, ormai lo avete capito, non ne erano consapevoli.
Tutti
 i giorni decidiamo, orientiamo il corso della nostra vita e 
influenziamo quella degli altri. Dei motivi delle nostre scelte, ci 
spiega Bargh, siamo largamente ignari: avvengono nel dominio 
dell’inconscio cognitivo, lì dove si svolgono processi automatici, 
veloci, selezionati nel corso dell’evoluzione. Utili ma spesso fallaci. 
Motivazioni, emozioni, pregiudizi sono spinte che ci governano dal buio.
 Conoscere questi processi invece rende più liberi, saggi, avveduti. Dà 
più potere. I nostri giudici, avvocati, genitori, politici, medici, 
sanno qualcosa di questi meccanismi psicologici? Temo di no.
Allora
 si possono tentare scommesse che permettono guadagni facili. Se i 
politici progressisti e illuminati, invece di studiare Bargh, 
preferiranno affidarsi alla loro profonda presunzione, potranno mai 
vincere le elezioni? Io punto i miei soldi su Cetto La Qualunque.
Corriere Domenica 17.6.18
Istruzioni per sopravvivere: via dai social e diventate gatti
Ci stiamo disumanizzando
Chiudere l’account di Facebook, niente Twitter né foto su Istagram: la soluzione è drastica ma necessaria
«Non dobbiamo essere docili, ma felini ribelli»
di Federica Colonna
Può
 essere davvero difficile immaginare la propria vita senza social media.
 Ma è arrivato il momento di farlo, adesso. E di abbandonare il proprio 
profilo Facebook, cancellare l’account Twitter, smettere di pubblicare 
foto su Instagram. Lo sostiene Jaron Lanier, informatico, saggista e 
pioniere della realtà virtuale, nel recente Ten Arguments for Deleting 
Your Social Media Accounts Right Now («Dieci argomenti per cancellare i 
tuoi profili social proprio adesso») in cui spiega una a una le ragioni 
per cui è urgente abbandonare i social network. Pena la scomparsa della 
specie umana, così come la conosciamo. Secondo l’autore, infatti, i 
social media stanno ingannando il nostro cervello e, attraverso 
l’algoritmo che ne è alla base, lo stanno manipolando fino a modificare i
 nostri comportamenti. Ogni nostra azione online, da un «mi piace», a un
 contenuto pubblicato, fino alla condivisione di un articolo sui nostri 
profili, è tracciata, monitorata e analizzata ai fini della profilazione
 degli utenti. Forniamo dati gratis e li cediamo ricevendo in cambio una
 offerta di contenuti il più vicina possibile alle nostre aspettative. 
Ma questo meccanismo è nocivo, perché altera la realtà di cui veniamo a 
conoscenza, sempre più simile a un mondo che ci somiglia ma che altro 
non è se non una titanica illusione.
Siamo più vulnerabili alla 
manipolazione algoritmica dei comportamenti: le piattaforme ci offrono 
contenuti personalizzati mirati a coinvolgerci emotivamente e 
potenzialmente in grado di orientare le nostre intenzioni di voto o di 
rafforzare la nostra fedeltà a un brand. Rischiamo di non accorgercene, 
immersi come siamo nel sistema. In questo contesto illusorio e fallace, 
la pubblicità, che prima incontravamo all’interno di contenitori 
riconoscibili, nella pausa della partita in tv, su un manifesto o nella 
pagina interna di una rivista, è diventata pervasiva. Indistinguibile. 
La verità si indebolisce, si affievolisce e non riusciamo più a 
catturarla. Siamo immersi in uno scenario di finzione, illusorio, che 
l’autore chiama il «grande miraggio».
Ecco il meccanismo dei 
social media da cui Lanier ci mette in guardia e al quale, nel libro, ha
 affibbiato un nome: la macchina Bummer, acronimo di Behaviour of Users,
 Modified, and Made into an Empire for Rent (il «comportamento degli 
utenti, modificato, e trasformato in un impero in affitto», che il 
miglior offerente può accaparrarsi). Strumento di manipolazione su larga
 scala e capace di crescere ora dopo ora, nutrito dai dati che cediamo 
ogni volta che ci connettiamo. È difficile comprendere il fenomeno 
analizzando solo il nostro comportamento individuale. Bummer funziona 
come il cambiamento climatico: non ne cogliamo i singoli dettagli ma 
possiamo riconoscerlo guardando il contesto intero, a livello globale.
E
 se l’infelicità e l’isolamento sono le conseguenze della nostra 
relazione quotidiana con Bummer — paragonato dall’autore a un confessore
 globale che detiene i segreti e i peccati di milioni di persone al 
mondo — sono 10, come recita il titolo del libro, gli argomenti a 
sostegno di una rapida fuga dal mondo dell’illusione social. Il primo: 
stiamo perdendo la capacità di libero arbitrio. Con lo smartphone sempre
 in mano siamo costantemente monitorati e riceviamo risposte su misura, 
contenuti costruiti per noi. Siamo come ipnotizzati, scrive Lanier, da 
tecnici che non vediamo per scopi che non conosciamo. Eppure crediamo di
 essere liberi. Cancellare gli account — ed è questo il cuore del 
secondo argomento — è il solo modo per sfuggire alla follia dei nostri 
tempi e per evitare di diventare brutte persone: più cattive, 
arrabbiate, aggressive. Non è un caso, spiega Lanier, che Twitter 
piaccia a estremisti e bulli. I social media produrrebbero infatti una 
sorta di potenziamento algoritmico dei peggiori tratti psicologici 
dell’essere umano. Non sarebbe questo un effetto collaterale ma si 
tratterebbe di una funzione specifica dei social network perché 
l’aggressività e l’estremismo sono gli strumenti emotivi più efficaci 
per aumentare l’engagement (il coinvolgimento): l’unico indice che 
davvero conta per attestare il successo sui social media. «I sentimenti 
negativi — scrive l’autore — emergono più velocemente e scompaiono con 
più lentezza di quelli positivi». Funzionano quindi meglio negli 
ambienti dove contano la rapidità e la tempestività delle interazioni.
Non
 solo. «Suicidare» il proprio io virtuale comporterebbe per Lanier un 
grande vantaggio: ci renderebbe più felici. Lo dimostrerebbero una serie
 di ricerche scientifiche tra cui uno studio del 2017 della Yale 
University e dell’Università della California, San Diego, intitolato 
Association of Facebook Use With Compromised Well-Being («Associazione 
tra l’uso di Facebook e un benessere compromesso»). L’indagine, 
pubblicata dall’«American Journal of Epidemiology», sostiene che mentre 
le relazioni non virtuali tra persone migliorerebbero la percezione del 
proprio stato di benessere, online avverrebbe l’opposto. L’uso massiccio
 dei social media ridurrebbe il tempo e il numero delle interazioni di 
persona e l’investimento individuale in attività significative e 
creative. In un mondo più connesso, finiamo per essere più isolati. E, 
aggiunge Lanier, rischiamo di diventare anche più poveri. Tutta colpa, 
scrive, della gig economy, ossia di quel modello di business per cui non
 esistono lavori stabili e a lungo termine, ma servizi realizzati in 
risposta a domande di volta in volta emergenti, raccolte, spesso, dalle 
piattaforme e dalle app. Un sistema che, per come è regolato e 
strutturato oggi, non rende certo ricchi i lavoratori.
Per Lanier,
 però, la vera vittima sacrificale dei social media non è l’economia. Ma
 la politica. «Dovunque arrivi Facebook retrocede la democrazia», 
dichiara. E l’eco ricevuto dai movimenti razzisti e dall’alt-right, 
l’estrema destra americana, ne sarebbero un esempio.
Insomma: 
lentezza, verità, empatia non stanno sui social. Per ritrovarle Chris 
Hughes, cofondatore di Facebook, ha proposto di istituire un fondo 
pubblico per i social media, orientato a potenziarne il valore per le 
comunità. Tristan Harris, invece, del Center for Humane Technology, 
non-profit focalizzata sul design di una tecnologia più etica, ha 
lanciato l’idea di trasformare Google, Facebook e le altre grandi 
compagnie in benefit corporation, affinché, data la rilevanza che hanno 
nella vita di ciascuno, perseguano non solo l’interesse privato ma il 
bene pubblico. Nel saggio Jaron Lanier lancia un’altra sollecitazione: 
se spingere i governi a regolare diversamente i social media o le 
aziende a cambiare il proprio modello di business possono essere 
obiettivi a lungo termine, nell’immediato è meglio trasformarsi in 
felini. Oggi siamo come cani, addomesticati e timorosi. Dovremmo 
diventare gatti, sfuggenti. Insofferenti agli ordini e al controllo 
altrui.