Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
domenica 17 giugno 2018
il manifesto 17.6.18
Il papa pro life che parla come il ministro Fontana
Vaticano. Bergoglio riceve il forum delle associazioni famigliari cattoliche e fa un discorso in linea con le posizioni chiuse dei predecessori: gli aborti selettivi sono come i nazisti in guanti bianchi. E sapete perché non si vedono più nani in giro?
di Luca Kocci
Famiglia uomo-donna fondata sul matrimonio. No ad unioni «altre». Aborto come pratica nazista. Sembra il neo ministro leghista della famiglia Lorenzo Fontana («la famiglia è quella naturale, dove un bambino ha una mamma e un papà, le famiglie arcobaleno non esistono»), in realtà è papa Francesco che ieri, ricevendo in Vaticano il Forum delle associazioni familiari in occasione del venticinquesimo anniversario della fondazione, ha pronunciato un durissimo discorso in difesa della famiglia tradizionale e contro qualsiasi apertura ad altri tipi di unione.
«Oggi, fa male dirlo, si parla di famiglie “diversificate”: diversi tipi di famiglia», ha detto il pontefice rivolgendosi ai partecipanti all’udienza accompagnati dal loro presidente, Gigi De Palo, già assessore capitolino alla famiglia della giunta Alemanno. «Famiglia è parola analogica, perché si parla della famiglia delle stelle, degli animali. Ma la famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola».
Dalla famiglia ai figli, all’aborto. «I figli sono il dono più grande, si accolgono come vengono, come Dio li manda, anche se a volte sono malati», ha aggiunto il papa. Eppure alcune coppie non li vogliono. «Una volta – ha esemplificato Bergoglio – ho incontrato due sposi da dieci anni, senza figli. Tante volte i figli si vogliono ma non vengono. Poi ho saputo che loro non li volevano. Ma queste persone a casa avevano tre cani, due gatti». Di conseguenza l’aborto (a cui è dedicata l’apertura dell’Osservatore Romano di oggi: «Papa Francesco denuncia la piaga degli aborti selettivi») è un crimine gravissimo, paragonabile – secondo il papa – all’uccisione dei bambini malformati da parte degli spartani che li gettavano dal monte Taigete (questione storiograficamente controversa) e all’eugenetica nazista.
«Ho sentito dire – ha spiegato il pontefice – che è di moda, o almeno abituale, nei primi mesi di gravidanza fare certi esami, per vedere se il bambino non sta bene, o viene con qualche problema. La prima proposta in quel caso è: Lo mandiamo via? L’omicidio dei bambini. Per avere una vita tranquilla, si fa fuori un innocente. La maestra ci diceva cosa facevano gli spartani quando nasceva un bambino con malformazioni: lo portavano sulla montagna e lo buttavano giù. Era un’atrocità. Oggi facciamo lo stesso. Perché non si vedono tanti nani per strada? Perché il protocollo di tanti medici (tanti, non tutti) è fare la domanda: “Viene male?”. Nel secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso, ma con guanti bianchi». Parole profondamente sentite da papa Francesco, che ha messo da parte il sobrio testo del discorso ufficiale («mi sembra un po’ freddo»), per parlare a ruota libera.
Come interpretare questo comportamento? Francesco ama assecondare il proprio uditorio. Raramente quando ha davanti religiosi (vedi i severi auguri di Natale ai cardinali di Curia), ma quasi sempre quando parla ai laici: pacifista con i pacifisti, indigenista con gli indigeni e, come ieri, pro life con le associazioni familiari. Soprattutto c’è da dire che in tema di morale familiare-sessuale, a differenza delle questioni sociali (migranti, disarmo), le posizioni del papa sono incanalate nel solco della tradizione, e le apparenti aperture («chi sono io per giudicare un gay?») sono verbali, non sostanziali. Non si distanzia quindi dai suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger, se non per una minore insistenza sui temi cosiddetti «non negoziabili».
Il Fatto 17.16.18
“Nazisti coi guanti bianchi”. Bergoglio torna a fare il Papa
Dopo la legge sull’interruzione di gravidanza in Argentina Francesco difende la famiglia: “Solo tra uomo e donna” e critica l’aborto
di Guido Gazzoli
La famiglia è “una sola, uomo e donna” ed è “il dono più grande che Dio ha fatto all’umanità”. Papa Francesco esordisce con queste parole nell’udienza del Forum delle associazioni familiari, in Vaticano per festeggiare il suo venticinquesimo anno di storia.
Le parole più forti sono contro l’aborto selettivo: “Il secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi”, ha detto. “È di moda, o almeno è abituale, quando in gravidanza” si vede che “forse il bambino non sta bene o viene con qualche cosa: la prima offerta è ‘lo mandiamo via?’ L’omicidio dei bambini: per risolvere una vita tranquilla si fa fuori un innocente”. E si rifà alla leggenda di Sparta secondo la quale i bambini deformi venivano gettati dal monte Taigeto: “Oggi facciamo lo stesso”.
Poi parla della famiglia:
“Oggi fa dolore dirlo: si parla di famiglie diversificate, di diversi tipi di famiglia” ma invece “la famiglia, immagine di Dio, uomo e donna, è una sola”.
Parla di chi non vuole avere figli e prende in casa invece cani e gatti. Critica le nozze dove si antepongono il vestito o la festa a ciò che deve essere al centro: il matrimonio non può essere considerato “una lotteria, come va, va”.
E senza timore fa affermazioni che risuoneranno impopolari: “Tante donne, ma anche l’uomo talvolta lo fa, nel silenzio hanno aspettato, guardando da un’altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà. non hanno capito nulla”. Infine, dopo avere bypassato ogni politically correct nei confronti di gay e femministe, dice qualcosa che potrà fare arricciare il naso ai cattolici più tradizionalisti: anche i non credenti, se si amano e fanno una famiglia, sono “immagine e somiglianza di Dio”.
Le parole, pronunciate in occasione del Forum, arrivano puntuali e non a caso – specialmente quelle sull’aborto – dopo l’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, in Argentina, paese in cui il Pontefice è nato.
Una legge che ha visto la luce grazie anche al benestare del presidente Mauricio Macri il quale, pur dichiarandosi contrario, aveva detto che in caso di approvazione della legge, non avrebbe messo alcun veto. A questo proposito si è espresso Guillermo Marcò, ex portavoce di Bergoglio durante il suo arcivescovato a Buenos Aires, ha dichiarato: “Quella di Macri di lasciare la più ampia libertà di coscienza su un tema tanto delicato credo che alla fine avrà un costo politico molto grave per il governo attuale, votato anche da tantissimi cattolici, che però sono rimasti delusi da questa posizione.”. E ha poi concluso: “Ci sono trattati internazionali che sono parte della nostra Costituzione, come il patto di san José di Costa Rica, che protegge la vita fin dal momento del concepimento, che sono stati disattesi”.
il manifesto 17.6.18
La massima infelicità è un passatempo da ragazzi
Tempi presenti. Un percorso di lettura, tra psicologia e sociologia, sui ventenni americani. Tra IPhone, social e depressione. Figli dei Millennials, detti anche Generazione Y, che erano nati tra inizio anni Ottanta e il 1996. Hanno paura dei sentimenti, del sesso, rifiutano il dissenso sociale. E aumenta il numero di suicidi
di Teresa Numerico
Il nuovo libro della psicologa Jean M. Twenge dal titolo Iperconnessi (Einaudi, pp. 400, euro 19), si cimenta nel tentativo di comprendere i giovani della IGeneration, o Generazione Z americana, il gruppo demografico che viene identificato dalla ricerca sociologica – sia pure non ancora precisamente – come quei ragazzi nati dal 1997 in poi, che avevano al massimo 4 anni all’epoca dell’attentato alle torri gemelle di cui non conservano un ricordo diretto.
SONO I GIOVANI che vengono dopo i Millennials, detti anche Generazione Y, che erano nati tra inizio anni Ottanta e il 1996. La tesi dell’autrice è che si tratti di un gruppo identificato dall’uso dell’IPhone che arrivava sul mercato quando i più vecchi del gruppo avevano circa dieci anni. Attraverso una grande messe di dati quantitativi, giornali universitari e altre pubblicazioni specializzate, oltre a un numero considerevole di interviste qualitative in profondità, Twenge li descrive con l’obiettivo di fornire una spiegazione dettagliata delle ragioni che li spingono ai loro comportamenti.
La tesi generale è che questi nuovi ragazzi siano meno sociali, meno inclini a crescere, ma anche più tolleranti, più concreti e più preoccupati di ottenere il successo economico di quanto non fossero i loro predecessori, i Millennials o il gruppo della Generazione X, costituito in larga misura dai loro genitori. Il collegamento diretto che Twenge segnala è tra l’essere una generazione iperconnessa, che usa massicciamente dispositivi smart e la diminuzione del tempo dedicato agli incontri faccia a faccia, ad andare alle feste, ma anche a leggere libri o altri prodotti editoriali, a fare sport, a dormire e che soprattutto manifesta una grande fragilità emozionale che comporta una minore propensione ai rischi e a ogni genere di avventure.
L’ANALISI si pone in contrasto con le idee di altri sociologi e psicologi che discordano con la messa in relazione dell’uso dei dispositivi social con una minore disponibilità agli incontri faccia a faccia. Per esempio danah boyd (scrotto in minuscolo per volere dell’autrice, ndr) nel suo recente It’s complicated (Castelvecchi) assume che i giovani più popolari online siano più sociali anche negli incontri di persona. Twenge segue la tesi già proposta da Sherry Turkle in Insieme ma soli (Codice, 2012), a proposito della difficoltà di affrontare le emozioni direttamente e quindi lo schermo diventa come uno strumento per attutire sentimenti, solitudine o rifiuto che però produce un esito contrapposto alla strategia difensiva. Il disagio mentale è in aumento soprattutto tra i membri più giovani del gruppo studiato, con una decisa diffusione dei sintomi di depressione maggiore, oltre a un dilagante sentimento di non sentirsi a proprio agio e di non essere felici. La psicologa ipotizza che l’aumento di sofferenza psichica sia da ricollegare alla disponibilità massiccia di telefoni smart e che sia da mettere in relazione direttamente con il loro uso da parte di giovani e giovanissimi, forse spingendo un po’ troppo sull’acceleratore del determinismo tecnologico, nell’automatismo tra causa tecnologica ed effetto depressivo, in favore del quale è costruita gran parte delle argomentazioni.
LE RELAZIONI social senza scambio diretto non contribuiscono alla costruzione di forti legami interpersonali, rassicuranti e quindi – suggerisce l’autrice – il fatto che si siano ridotti i tempi degli incontri di persona, la lettura di prodotti editoriali, la quantità di sonno induce una diminuzione del tasso di felicità, del sentimento di sicurezza e del senso di appartenenza. Tra i dati che Twenge porta a sostegno della sua tesi segnaliamo l’aumento di suicidi e tentati suicidi tra i giovani e soprattutto tra i giovanissimi, pur nel contesto di una forte diminuzione del tasso di violenza e aggressioni tra i giovani. Dopo una diminuzione notevole negli anni Novanta, la tendenza ha ripreso a salire a un ritmo vertiginoso. La presenza di «genitori elicottero», genitori stressati e oppressivi che riducono autonomia e sicurezza in se stessi è un altro elemento che contribuisce all’aumento di insicurezza, che sembra spingere i giovani alla ricerca di aree sicure (safety areas) anche al college, forse un tentativo di riprodurre la protezione casalinga.
SEBBENE sia utile evitare rischi reali, sembra assurdo reclamare aree sicure di fronte a un conferenziere che non la pensa come noi. Come se il rischio di subire una ferita emozionale fosse talmente minaccioso, da non riuscire a vederne nemmeno il ridicolo e l’assurdo. Non si articola il dissenso, si grida allo scandalo nei confronti della manifestazione concreta dell’alterità, sebbene la generazione sia in assoluto quella più tollerante rispetto alle precedenti sull’orientamento sessuale, sulle differenze etniche ecc. L’individuo e la manifestazione della sua identità singolare sono accettati, a patto che non si mettano a discutere con noi sulle nostre convinzioni e chiedano di aprire un dibattito.
Un altro dato originale riguarda i giovani e il sesso. Sebbene i costumi siano molto liberali negli Stati Uniti, il numero di giovani che hanno fatto sesso prima dei diciassette anni è diminuito rispetto ai Millennials, e in generale risulta inferiore la quantità assoluta di rapporti sessuali. Per questo dato la studiosa segnala due possibili spiegazioni.
La prima è di nuovo la sicurezza: fare sesso è pericoloso, si possono contrarre malattie, si rischia una gravidanza, si può vivere una delusione emozionale. L’altra ragione è paradossalmente rappresentata, secondo l’autrice, dalla disponibilità del consumo di pornografia fin dai nove-dieci anni, da quando si usano i dispositivi smart.
LA PORNOGRAFIA trasforma la percezione della vita sessuale e non riproduce la situazione concreta del sesso tra compagni, che finisce per essere considerata deludente o comunque non abbastanza gratificante, come invece lo sono, in apparenza, quelle dei video porno sempre a portata di adolescente. Inoltre è diminuita l’importanza dei legami sentimentali, troppo impegnativi e distraenti dall’obiettivo del successo economico.
Il risultato più eclatante del libro è documentato dall’aumento della sofferenza psichica dei giovani e giovanissimi che si conferma trasversale a tutti, anche se più marcato nei più piccoli della generazione, ed è indipendente dalle classi sociali. L’indifferenza rispetto alla condizione economica, sociale e culturale della famiglia di appartenenza potrebbe essere il punto debole della tesi, eppure la ricerca segnala che per i giovani l’unico obiettivo sono i soldi, mentre gli altri aspetti come la vita sociale, le relazioni amorose, gli ideali astratti appaiono loro senza senso.
Tutto potrebbe spiegarsi anche immaginando che la dipendenza dal dispositivo sia una delle tante conseguenze della disgregazione sociale che attraversa la società americana, come lo sono sofferenza psichica e infelicità.
SECONDO UN ALTRO LIBRO appena uscito, scritto da due noti epidemiologi sociali, Richard Wilkinson and Kate Pickett (The inner level, Allen Lane), il disagio psichico è invece strettamente collegato ai livelli di diseguaglianza della società, raggiungendo ormai vette altissime in UK e US che sono tra i paesi al mondo dove più marcata è la differenza tra ricchi e poveri. Leggendo insieme i due testi si potrebbe ipotizzare che, mentre da piccoli tutti soffrono della fragilità emotiva dell’adolescenza, diventando adulti il disagio resta altissimo in quegli strati della popolazione che sono respinti ed esclusi dalle classi più agiate, mentre si attenua negli altri. Pur avendo tentato duramente di essere accolti nei ceti medio-alti, magari investendo in un debito universitario ingente, quelli che non riescono a raggiungere il benessere, unico obiettivo che percepiscono come vitale, si sentono schiacciati e interpretano la propria condizione in termini di fallimento e sconfitta. Cibo per la mente per la riflessione politica e sociale.
il manifesto 17.6.18
La guerra dentro. Ovvero, vincere la sfida della disumanità
Migranti/Sinistra. Rischiamo di avere oggi «socialisti senza umanità» (quelli che squassano la sinistra in Europa, fin dal cuore della Linke tedesca) e «umanitari senza socialità» (senza solidarietà sociale)
di Marco Revelli
«Con gli occhi per terra la gente prepara la guerra». Mi è tornata in mente, quella strofa lontana, in questi giorni feroci dell’odissea dell’Aquarius, da ieri elevata ufficialmente a sistema – con Salvini che reitera la chiusura dei porti alle ultime navi di profughi in arrivo – in cui tutto, ma davvero tutto, sembra perduto: la politica, l’umanità, l’elementare senso di solidarietà, noi stessi, il nostro rispetto di noi e degli altri cancellato da un ministro di polizia che fa della pratica disumana della chiusura dei porti un metodo di governo… Mi è tornata in mente perché è quello che sento nell’aria, che leggo nelle facce, negli sguardi, nei cattivi pensieri di (quasi) tutti. Odore di guerra, e occhi a terra (lo sguardo del rancore che promette sventura).
Alla velocità della luce, in poche mosse da parte di giocatori cinici e spregiudicati, questione migratoria e logica bellica, politica dei flussi e politica delle armi si sono saldate intorno alla coppia nefasta «amico-nemico». E il confronto impari, spaventosamente asimmetrico, tra l’Italia e quel microscopico frammento di nuda vita in balia delle onde nel Canale di Sicilia si è saldato, come le due facce del medesimo foglio, col confronto muscolare, «di potenza» e «tra potenze».
Con la resa dei conti tra il Governo italiano e gli altri Stati coinvolti, Malta, Francia, paesi «alleati» e paesi «ostili».
Mentre si parla sempre più spesso, e con sempre meno pudore, di azioni militari per il controllo diretto delle coste libiche come «soluzione finale» al problema dei profughi.
È BASTATO che un rozzo capopopolo rionale o regionale come Matteo Salvini irrompesse come un bufalo nella cabina di regia governativa di un Paese non di secondo piano in Europa, perché questa saldatura tra demografia e geopolitica (tra «movimenti di popolazione» e «conflitti inter-statali») si coagulasse istantaneamente. Perché il disagio sociale virasse in nazionalismo… E nel contempo perché si rivelasse in tutta la sua estensione e profondità lo «sfondamento antropologico», chiamiamolo così, o «etico-politico» consistente nella diffusa incapacità di riconoscimento «dell’uomo per l’uomo». Nell’evaporazione di ogni pietas, com-patimento, identificazione nel dolore altrui: le basi della socievolezza che ha permesso la sopravvivenza della specie umana sostituita ora da un mortifero atteggiamento di rifiuto, diffidenza, indifferenza ostile. I cattivi sentimenti, appunto, che da sempre preparano la guerra perché dicono che la guerra è già dentro le persone, e le ha fatte proprie.
CERTO COLPISCE, nella via crucis dell’Aquarius – in questo spettacolo crudele messo in piedi per ostentare, sul palcoscenico grande come il mare, la caduta catastrofica dell’umano nel segno della «politica nuova» – la figura dell’attore protagonista: l’uomo che dopo aver assorbito in sé tutti i ruoli di governo (le gouvernement c’est moi) si permette di prendere in ostaggio centinaia di bambini, donne, uomini per giocarseli sulla scacchiera politica (come strumento di negoziazione all’esterno e di consenso all’interno) indifferente alle loro sofferenze, lasciandoli in balia del mare, come fossero cose e non persone («tortura» è stata definita). Ma colpisce ancor di più – se possibile – questo pubblico che balza in piedi ad applaudire a ogni battuta truce, a ogni dichiarazione di disprezzo, che si emoziona per le vessazioni, l’irrisione dei valori di solidarietà e condivisione, addirittura la messa in stato d’accusa della solidarietà, come colpa o reato. E se si guarda quella platea dal di fuori, non potrà sfuggire che solo in pochi, sparsi qua e là, se ne stanno a braccia conserte, senza unirsi all’orgia. E quasi nessuno si alza per fischiare.
PRENDIAMONE ATTO. Un argine si è rotto, persino tra noi, di quella comunità non grande che si è definita “sinistra”. Siamo diventati irriconoscibili a noi stessi. O meglio: tra noi stessi. Sempre più spesso, se s’incontra un compagno con cui si è condiviso (quasi) tutto e il discorso cade sui migranti e sul caso dell’Aquarius, non scatta immediata, istintiva l’indignazione, ma s’incrocia uno sguardo vacuo. Un cambiar discorso. O addirittura un moto di condivisione della politica dei respingimenti. Una voglia di limiti. Di barriere (perché «così non si può andare avanti»). O perché convertiti a un qualche «neo-sovranismo», nell’illusione falsa che ripristinando i confini possa ritornare il welfare di un tempo, le garanzie, i diritti sociali sottratti anche da parte e per colpa di chi oggi, per lavarsi la coscienza, difende a parole l’«apertura». O perché affascinati da quella vera e propria «troiata» (mi si permetta il temine caro a Cesare Pavese) che è la categoria dell’«esercito di riserva»: l’idea che i migranti siano lo strumento occulto di un qualche piano del capitale per sfondare il potere d’acquisto e la forza negoziale dei lavoratori nostrani, ignorando che quello si chiamava, non per nulla «esercito industriale», appartenente cioè a un’altra era geologica, prima che si affermasse il finanz-capitalismo, che lavora e comanda appunto non con i corpi ma col denaro. E che quella «narrativa» serve solo a giustificare la vessazione dei più poveri tra i poveri, non certo a contrastare i più ricchi tra i ricchi.
BASTA D’ALTRA parte uno sguardo alla cronologia per vedere che il vero «sfondamento» della forza del lavoro è avvenuto fin dal passaggio agli anni ’80, ben prima che iniziassero i flussi di popolazione, e ha usato come ariete non i corpi dei poveri ma la tecnologia dei ricchi, elettronica, informatica, smaterializzazione del lavoro, frammentazione della componente «manuale» che sopravviveva. Fu allora che si consumò la «sconfitta storica» del lavoro in Occidente. E il conseguente «disallineamento» tra diritti sociali e diritti umani, che invece il movimento operaio novecentesco, almeno da noi, aveva saputo tenere «in asse». Da allora quelle due famiglie di diritti – questione sociale e questione morale (o «umana») – sono andate divaricandosi sempre più, fino a oggi, quando finiscono per contrapporsi, quasi che per stare vicino ai nostri «proletari» occorresse respingere gli altri riconfigurati per l’occasione come «non-proletari». Col risultato che rischiamo di avere oggi «socialisti senza umanità» (sono quelli che stanno squassando la sinistra in Europa, fin dal cuore della Linke tedesca) e «umanitari senza socialità» (senza solidarietà sociale).
UNA SCISSIONE cui si può rimediare solo con un colpo d’ala. Con la consapevolezza, da una parte, che si possono difendere efficacemente le ragioni universali dell’umanità solo se si dimostra di voler difendere con le unghie e con i denti la ragioni sociali locali di chi, nel proprio territorio, è deprivato di reddito e diritti (se si disinnesca la trappola mortale del «perché a loro sì e a me no»). E dall’altra riuscendo a capire che mai come oggi la difesa dei migranti si salda alla difesa della pace, perché la guerra a loro finirà per trasformarsi in guerra tra noi.
il manifesto 17.6.18
L’Italia vittima predestinata di una crisi epocale
Populismi/sinistra. È in corso la prima sperimentazione di due soggetti, con tratti comuni a tutti i populismi, ma con radici territoriali, sociali, demografiche diverse. Se questo incontro si consolida, come sta accadendo, sotto la guida travolgente della destra leghista, esso è destinato a produrre uno smantellamento di assetti istituzionali e di valori
di Aldo Carra
Salvini che straripa fino a sostituire Di Maio all’assemblea della Confesercenti dove promette mari e monti ai commercianti una volta di sinistra. Una sinistra che assiste sbigottita a questa deriva e che nelle sue parti migliori si attesta ad un ruolo, prezioso, ma di testimonianza di valori di solidarietà umana e di accoglienza.
Queste sono le due facce della medaglia della Terza Repubblica che comincia.
Certo c’è un filo che lega i processi in corso. Si dipana a partire dal cuore del capitalismo dove Trump esprime la fine della fase espansiva della globalizzazione che non regge gli effetti della globalizzazione e riscopre confini per merci e persone. Attraversa l’Europa, una realtà incompiuta, a metà tra ambizioni di potenza globale sognate ed interessi nazionali reali e che al primo impatto con le nuove contraddizioni si impantana. Tocca, infine, l’Italia che sta all’altro capo del filo: paese terminale di questo processo, imprigionata, al centro del Mediterraneo, nelle nuove contraddizioni, tra il mondo di un benessere che si arresta e quello di una disperazione che avanza.
Confine o ponte, vittima predestinata di una crisi epocale o, al contrario, laboratorio dell’unico futuro possibile, quello di un Mediterraneo culla di una nuova civiltà?
Oggi la risposta è solo la prima. Purtroppo.
Qui è in corso la prima sperimentazione di due soggetti, con tratti comuni a tutti i populismi, ma con radici territoriali, sociali, demografiche diverse. Se questo incontro si consolida, come sta accadendo, sotto la guida travolgente della destra leghista, esso è destinato a produrre uno smantellamento di assetti istituzionali e di valori. Un allentamento di tutti i vincoli che fanno di uno Stato uno Stato, l’inseguimento dei peggiori istinti alle soluzioni individuali, la legittimazione della cultura dell’evasione e tutto quanto può produrre la fantasia scatenata di un arringatore di folle in campagna elettorale permanente. Il modo in cui si stanno liberando, amplificati anche dai social, i peggiori istinti di chi ha una rabbia sociale repressa, la dice lunga sul carattere profondo di questa crisi che è di valori, di cultura, di produzione di senso.
Ma quanto accade è figlio della destra che c’é o della sinistra che non c’è più?
Credo che questa crisi sia veramente epocale e che la stessa funzione storicamente esercitata dalle sinistre debba essere ricostruita ex novo. Non ho, quindi, ed invidio chi pensa di averne, ricette per il futuro. Penso che dobbiamo elaborare seriamente il lutto della sinistra che fu per riprenderne i fili e ritrovare la bussola per orientarci nei tempi nuovi che stiamo vivendo.
Mi accontenterei per il momento di cercare di capire come mai tra i cittadini, nello stesso mondo di sinistra stiano attecchendo valori e comportamenti diversi da quelli che pensavamo e che li spingono verso altri lidi. Mi piacerebbe perciò che si costruisce lentamente, ma seriamente una riflessione puntuale, un metodo di ricerca politica aperto e sincero. Con la modestia e col rischio di sbagliare che ogni ricerca comporta.
Prendiamo ad esempio il tema dell’Europa e della sovranità. Il sovranismo è certamente il principale fattore di aggregazione dei due populismi, di aggregazione orizzontale tra le due leadership e verticale tra leader e popolo. Possiamo riflettere meglio su questo tema che va ben oltre l’elettorato della maggioranza e tocca anche fasce notevoli di elettorato di sinistra? Il sovranismo di oggi è sicuramente un ritorno agli stati ed alle identità nazionali, quindi scelta di destra oppure è anche una critica allo spostamento in alto delle sedi decisionali, quindi ad uno svuotamento della democrazia di un’Europa che assorbe sovranità dal basso, ma non restituisce in basso poteri e spazi di partecipazione? Perché non pensare che esso oggi incorpori una rivendicazione di sovranità di popolo da sinistra?
Connesso a questo è lo stesso modo di vivere la costruzione europea. C’è un’Europa sognata, grande potenza in uno scenario globale ridotto a poche superpotenze. Un’Europa che in virtù del suo essere stata culla culturale e generatrice dello stato sociale può ambire ad un ruolo ambizioso di nuovo modello di sviluppo economico ed umano. Ma l’Europa che abbiamo creato è un compromesso tra stati diversi e con grandi squilibri. Si può pensare di governarla con le regole di vincoli di bilancio, col dominio dei poteri di nuovi apparati burocratici sovranazionali, che rispondono solo a sé stessi? Di viverla come una struttura stabile in cui le differenze le specificità debbono essere compresse nelle regole e nelle percentuali definite con qualche saltuaria concessione per chi si comporta bene o l’Europa va ricostruita dal basso, in un processo creativo di confronto dialettico che la rinnovi permanentemente, in un rapporto vivo con i popoli che la compongono? Se l’Europa dei mercati ha interesse a mantenere questa gabbia, l’Europa dei popoli ha bisogno di altro. E la sinistra, in Europa e non solo in Italia, non dovrebbe porsi all’altezza di questi problemi?
Ricostruire la sinistra e ricostruire l’Europa forse fanno parte dello stesso problema. E non sarà né una passeggiata né un pranzo di gala.
il manifesto 17.6.18
In ventimila a Roma contro il governo: «Prima gli sfruttati»
Il corteo. Corteo Usb per la «giustizia sociale». Abo Soumahoro: «La pacchia è finita per Salvini». Ricordato Soumaila Sacko ucciso in Calabria. In piazza, tra gli altri, Potere al Popolo, Eurostop, Rifondazione Comunista. A Padova manifestazione Adl Cobas.
di Roberto Ciccarelli
In ventimila hanno partecipato alla manifestazione indetta a Roma dall’Unione Sindacale di Base (Usb) dedicata a Soumaila Sacko, il bracciante maliano e sindacalista Usb ucciso nella piana di Gioia Tauro mentre raccoglieva delle lamiere per costruirsi una baracca nel campo di San Ferdinando. «Prima gli sfruttati» era lo slogan, stampato sullo striscione d’apertura disegnato da Zerocalcare, è la citazione rovesciata della parola d’ordine razzista «prima gli italiani» usato come passepartout della politica pentaleghista al governo.
In negativo, lo sfruttamento restituisce un’unità che va oltre le appartenenze nazionali. Contiene l’elemento unificante in cui possono riconoscersi italiani e stranieri che rivendicano tutele e diritti per tutti: la solidarietà internazionalista e la condivisione della stessa condizione sociale. È il controcanto alla contrapposizione artificiale tra immigrati e autoctoni, intensificata dalla propaganda e dagli urlatori da social media. È un buon segno perché chiarisce l’equivoco di fondo grazie al quale il potere mantiene intatte le diseguaglianze e le accresce.
IL RAGIONAMENTO è sofisticato, considerata la polarizzazione del dibattito esistente, manel corteo di ieri era onnipresente. È stato sottolineato nei comizi finali in piazza San Giovanni e negli slogan urlati nei megafoni da uomini statuari e orgogliosi arrivati dal Mali o dalla Costa d’Avorio che lavorano a 1,5 euro al giorno nelle campagne pugliesi o calabresi. Parole ripetute come un mantra che mette i brividi: «No razzismo»; «Tocca uno, tocca tutti», «Schiavi mai». In mano, insieme a folte bandiere Usb, questi lavoratori reggevano cartelli con queste scritte: «Reddito di base incondizionato», «No lavoro gratuito», «No Jobs Act, No Fornero». Emidia Papi, sindacalista Usb ha ricordato che il problema dello sfruttamento in agricoltura riguarda anche i lavoratori italiani e il caso di Paola Clemente, morta di fatica nei campi di Andria. «Il problema della grande distribuzione, che fissa prezzi sempre più bassi per i prodotti è alla base dello sfruttamento».
UN’ONDA DI ENTUSIASMO è stata prodotta dall’intervento di Aboubakar Soumahoro, dirigente Usb, in piazza San Giovanni. Concreto e colto, acuminato e combattivo, il sindacalista italo-ivoriano di 38 anni ha declinato con eloquenza le linee di un pensiero politico che supera i confini delle identità politiche acquisite, ma che ancora si esita a declinare in una politica comune. Il concetto ricorrente nel ragionamento è stato la «giustizia sociale», un appello alla solidarietà contro la guerra tra poveri. «La solidarietà non è buonismo – ha detto Abo – ma è uno strumento di costruzione che mette insieme ciò che stanno dividendo: bianchi contro neri, etero contro gay e lesbiche. Un bracciante deve invece camminare gomito a gomito con un rider, i precari e tutti gli invisibili». Il riferimento è all’elaborazione critica dell’eredità subita del «colonialismo» e dello «schiavismo», ma non contrapposta all’identità sessuale. Questo è un ragionamento sulla composizione sociale di una forza lavoro che intreccia molteplici identità e non contrappone, come avviene anche a «sinistra», diritti civili e diritti sociali.
IL RIFERIMENTO al «meticciato» nei discorsi in piazza, è un veicolo di una politica intesa come coalizione tra istanze molteplici: «Noi riteniamo che non esiste giustizia sociale senza anti-sessismo, anti-razzismo e anti-fascismo – ha aggiunto Abo – La solidarietà è la carne viva della nostra società e guarda ai bisogni comuni e connette le istanze materiali: come uguale lavoro e uguale salario. Noi partiamo da qui». Soumahoro ha inoltre decostruito l’imbroglio linguistico di chi usa la grammatica dei diritti per contrapporre gli oppressi. E ha denunciato il «linguaggio barbaro e incendiario di chi ritiene che si può parlare di diritti senza argomentarli con la giustizia sociale». «Altro che taxi del mare – ha aggiunto – siamo di fronte alla banalizzazione dei concetti della solidarietà». «Non possiamo solo difenderci, noi dobbiamo andare all’attacco. Diciamo a Salvini che la pacchia è finita per lui, noi vogliamo giustizia».
INSIEME AL CORTEO «contro il razzismo istituzionale di Salvini & Co.», indetto a Padova da Adl Cobas con associazioni, sindacati (Cub Poste e Cobas Scuola), centri sociali (Pedro) e partiti (Coalizione civica), quello di ieri a Roma è stato «il biglietto da visita» per l’autunno di un’opposizione embrionale. In attesa di sviluppi, si spera larghi, la tragedia di un sindacalista maliano ha mobilitato realtà in lotta nella logistica, nelle campagne e per il diritto alla casa.
Padova, manifestazione in memoria di Soumaila Sacko
Sono i soggetti oggi nel mirino del «contratto di governo» fuori e dentro i confini. «Sono 20 anni che ci stanno abituando alla guerra tra poveri: ora dicono che se fermano un barcone avremo una casa e il lavoro. È una falsità ignobile, la respingiamo» sostiene Giorgio Cremaschi (Eurostop). «Con la Flat Tax il governo toglierà soldi dalle tasche dei lavoratori – ha aggiunto Viola Carofalo (Potere al Popolo) – Il problema non sono i migranti o gli occupati di casa. Ci vuole lavoro sicuro e redistribuzione delle ricchezze». «Il razzismo e la xenofobia di Salvini è un prezzo che non dobbiamo pagare, rischiamo di essere ricordati per avere abbandonato centinaia di migliaia di persone» sostiene Eleonora Forenza (europarlamentare di Rifondazione).
Il Sole 17.16.18
Politica migratoria: la solidarietà non basta
di Sergio Fabbrini
L’Europa avrebbe dovuto «fare di più per aiutare l’Italia ad affrontare gli enormi flussi migratori», ha riconosciuto la cancelliera tedesca Merkel. L’Italia «è stata lasciata da sola ad affrontare la sfida delle migrazioni», ha ribadito l’altro ieri il presidente francese Macron nell’incontro con il nostro presidente del Consiglio Conte. Non c’è stato un governo italiano degli ultimi anni che non abbia denunciato l’ipocrisia europea, ricca di nobili parole (nei nostri confronti) ma povera di concrete azioni (per sostenerci). Tutto vero. Ma anche tutto (troppo) semplice. Per affrontare una crisi migratoria di queste proporzioni, la solidarietà non basta. Ci vuole un nuovo approccio alla politica migratoria. Quale? Rispondo cominciando dall’inizio.
Primo. La politica migratoria è stata tradizionalmente una prerogativa centrale dello stato nazionale, in quanto ha influenzato la capacità di quest’ultimo di proteggere la propria sovranità territoriale. Lo stesso discorso vale per la politica dell’asilo, il cui controllo consente a uno Stato di stabilire chi può vivere all’interno dei suoi confini. Con la fine della Guerra Fredda, e lo scongelamento delle frontiere che si era determinato, quelle prerogative furono portate a Bruxelles e organizzate all’interno di uno specifico pilastro di collaborazione intergovernativa. Con il Trattato di Maastricht del 1992, gli stati membri dell’Unione europea (Ue) decisero di coordinarsi sul piano di quelle politiche, mantenendo però il controllo delle proprie sovranità territoriali.
Tale approccio era stato inaugurato già dagli Accordi di Schengen del 1985 (la cui Convenzione, di natura internazionale, verrà firmata il 15 giugno 1990, divenendo quindi legge comunitario nel 1999) che avviarono l’eliminazione delle frontiere interne tra i Paesi aderenti a quegli Accordi. Eliminazione a cui non corrispose appunto la creazione di una comune frontiera esterna. Lo stesso approccio guidò la Convenzione di Dublino (firmata anch’essa il 15 giugno 1990, divenuta quindi legge comunitaria nel 2003) in base alla quale si decise che spettasse allo stato di primo arrivo stabilire se accettare la domanda d’asilo politico di un migrante. In poche parole, gli stati europei hanno dovuto riconoscere che la questione migratoria non può essere risolta da ognuno di loro singolarmente. Tuttavia, non hanno voluto rinunciare al principio della loro sovranità territoriale. Poteva funzionare?
Secondo. Quando esplose la crisi migratoria alla metà di questo decennio, il coordinamento volontario delle sovranità territoriali non ha più funzionato. Vennero quindi avviati tentativi per ridimensionare quelle sovranità, così da promuovere risposte collettive. Nel 2015 la Commissione propose uno schema per la rilocazione dei rifugiati politici tra i vari stati europei, nel 2016 la piccola agenzia per il coordinamento delle frontiere (Frontex) fu trasformata in una Guardia europea di frontiera e costiera. Più l’immigrazione aumentava, più la Commissione e il Consiglio dei ministri hanno dovuto trovare soluzioni collettive, più tali soluzioni furono però vissute come intrusioni nelle sovranità nazionali. Così, ovunque si è registrata la crescita impetuosa di partiti che denunciavano «l’impotenza europea nei confronti dell’immigrazione», presentando quest’ultima come una minaccia esistenziale alle società nazionali. Una crescita così impetuosa che quei partiti sono andati al potere (prima) nei Paesi dell’Europa orientale e (poi) anche dell’Europa centro-occidentale (tra cui in Italia con le elezioni del marzo scorso). Per quei partiti occorre chiudere le frontiere nazionali così da creare una “fortezza Europa” distaccata (militarmente, se necessario) dalle aree regionali limitrofe (Africa in particolare). È possibile che un problema di questa magnitudine possa essere affrontato Paese per Paese? E, soprattutto, basta davvero chiudere la porta per fermare l’acqua?
Terzo. Se è impensabile chiudere le frontiere in un Paese come il nostro, tuttavia sarebbe opportuno domandarsi se ha senso continuare a fare affidamento sulla solidarietà degli altri per gestire i flussi migratori che arrivano sulle nostre coste. Certamente è ragionevole chiedere che la Commissione assuma compiti di redistribuzione dei costi “migratori” (dai Paesi più esposti a quelli meno esposti), oppure che i Paesi meno colpiti dallo shock migratorio si impegnino finanziariamente e organizzativamente per costruire centri di raccolta dei migranti là dove essi partono per andare in Italia. Così è ragionevole chiedere di rivedere gli accordi di Dublino (magari evitando di allearsi con i Paesi di Visegrad che quegli accordi vogliono semplicemente abolirli). Per quanto tali misure siano necessarie, tuttavia esse non vanno al cuore del problema. Che è costituito (appunto) dalla persistenza della sovranità territoriale degli stati. Ecco perché il grido di dolore sull’Europa «che ci dovrebbe aiutare di più» andrebbe accompagnato da una strategia rigorosa per ridefinire quelle sovranità territoriali. Una strategia finalizzata a dare vita ad un governo comune della politica migratoria che sia indipendente e separato dai singoli stati. Occorre trasformare la Guardia europea in un’agenzia che possa agire autonomamente dalle volontà dei singoli governi (mentre ora interviene se richiesta da questi ultimi), così garantendo lo spazio europeo della libera circolazione. Occorre assegnare al governo comune della politica migratoria un bilancio indipendente, derivato da una capacità fiscale autonoma e gestito da un commissario responsabile verso il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri. Si tratta infine di sostituire gli Accordi di Dublino con una politica europea dell’asilo politico, decisa dal legislativo bicamerale a maggioranza e gestita da autorità politiche sovranazionali.
In conclusione, occorre superare la logica intergovernativa della politica migratoria, così come si è sviluppata da Maastricht in poi. Va tolta l’acqua ai pesci sovranisti che criticano l’Europa per non fare abbastanza e, contemporaneamente, le impediscono di acquisire la necessaria sovranità per fare qualcosa in modo efficace. Ecco perché, oltre a chiedere solidarietà, dovremmo avanzare una strategia di riforma strutturale della politica migratoria.
Il Fatto 17.6.18
Gli ordini di Salvini e il silenzio dei 5S
di Furio Colombo
Gli esseri umani si dividono in buoni e cattivi da una parte, e in Lega e Cinque Stelle dall’altra. Tra il primo gruppo, che contiene i peggiori, i migliori, ma anche i mediocri e gli indifferenti, c’è un intero repertorio che, nei secoli, la letteratura, il teatro, la religione, le vicende militari e politiche, ci hanno tramandato. Il caso Lega e il caso Cinque Stelle sono diversi e unici. La Lega, fin dalle sue origini, era culturalmente sprovvista di tutto e campava politicamente, ma anche materialmente, a carico del finto benefattore Berlusconi, che aveva visto subito i benefici che avrebbe potuto trarre da un simile vuoto culturale e morale.
La Lega, infatti, portava in dote al partito affittuario la voglia di spaccare l’Italia. Si è impegnata subito a farlo invocando la secessione. La minaccia di secessione faceva comodo al finto benefattore perché distorceva e dirottava ogni discorso politico ed economico su possibili cambiamenti e modernizzazioni del Paese, creava un immenso disordine, lasciava ai senza politica molto tempo libero per curare i propri interessi (e anche i conflitti di interessi più vistosi). Quando la secessione si è spenta perché tutta Milano era tenuta in piedi da gente del Sud, il partito, che era entrato in Parlamento con il nome “per la Secessione della Padania” (annunciando cioè un progetto di reato per un’area inesistente) si è dedicato temporaneamente alla denigrazione degli italiani meridionali (verificare i verbali di Camera e Senato, fino a tutto il secondo governo Berlusconi, in cui il leghista Maroni era già ministro dell’Interno) dello Stato (“Roma Ladrona” non era uno slogan contro la corruzione della Capitale, ma per incoraggiare l’inutilità e anzi la stupidità di pagare le tasse), una stagione politica conclusa con l’intimare agli italiani (da parte di un uomo di governo) di mettere il tricolore “nel cesso”. Bossi, volgare e disinibito, faceva ridere, ma il gruppo direttivo della Lega, che dura tuttora, aveva ambizioni più grandi. E qui si colloca il vero eroe della Lega. Già a metà degli anni 90, quando sarebbe stato difficile parlare di invasione, quando la maggioranza degli italiani dichiarava sentimenti di solidarietà per i profughi, Mario Borghezio, deputato della Lega, ha scoperto i negri. È lui che ha guidato una pattuglia di “guardie padane” (c’era anche la divisa) a dar fuoco ai giacigli di poveri cristi che dormivano sotto i ponti della Dora a Torino. C’è una sentenza passata in giudicato, e c’è un modo di agire che, da quel momento, diventerà tipico della Lega: far male quando è possibile o almeno spingere via e umiliare, lasciando per esempio col piatto vuoto i bambini che, dopo la paura di morire in mare, sono approdati in scuole leghiste. Memorabile il caso del piccolo paese di Adro, dove il sindaco Lencini ha lasciato i bambini immigrati digiuni, e un altro Lencini, imprenditore dello stesso paese, ha deciso di pagare la mensa scolastica per tutti i bambini, locali e immigrati. Intanto due personaggi da dimenticare hanno scritto l’unica legge esistente sull’immigrazione. È la Bossi-Fini, considerata assurda, disumana, crudele e inapplicabile da quasi tutti i giuristi. Nel frattempo il ministro dell’Interno della “Italia invasa” è stato per oltre un decennio il leghista Maroni che ha svolto da leghista il suo compito: per gli immigrati niente. Pochi anni dopo la fine del governo Maroni arriva il governo Salvini, e l’impegno si è incrudelito: fermare e cacciare. Salvini però, per onorare la sua personalità esuberante, decide di avere un potere pieno, da non discutere. E senza consultarsi con nessuno, chiude il mare.
Accanto ai leghisti, nell’unione forgiata da un contratto che dovrebbe governare l’Italia, ci sono i Cinque Stelle. Il mistero è ancora più fitto. I Cinque Stelle sembrano privi della consistenza corporea e della pesantezza fisica con cui i leghisti gravano sull’Italia. Resterà nella storia, forse non quella politica ma nelle storie di fantasmi, la figura di Di Maio, che passa in silenzio sul fondo di Palazzo Chigi, mentre il suo omologo ha chiuso i porti, ha abbandonato quattro navi (che trasportano profughi esausti, feriti, donne incinte, bambini, alcuni cadaveri che vengono rigettati in mare), ha rotto i rapporti con la Francia, ha manovrato la spaccatura della Germania (ministro dell’Interno tedesco contro la Merkel), ha sanzionato il legame con i governi filofascisti di Orbán e Kurz. Nel silenzio dei Cinque Stelle, presenti come ologrammi che mimano ministri, deputati e governo, una nave in cui la maggioranza dei profughi sono donne (donne incinte), bambini e adulti bisognosi di cure immediate, è stata condannata da Salvini padrone a traversare una violenta tempesta per 700 miglia (è la distanza dal porto spagnolo che ha accettato lo sbarco) mentre era a 30 miglia dalle coste italiane. Ma chi è Salvini che tiene al guinzaglio Di Maio? E chi è Di Maio, così soggetto al padrone?
Il Fatto 17.6.18
Matteo Due, la barzelletta che fa ridere soltanto lui
di Antonio Padellaro
“Se l’inchiestasi basa su quello che abbiamo letto in queste ore, è il nulla. Non so se ci sono altri elementi”.
Matteo Salvini, ministro degli Interni, nonché vicepresidente del Consiglio, in merito all’inchiesta della Procura di Roma sullo stadio di Tor di Valle
Venerdì sera, Matteo Salvini se la ride in tv mentre commenta il lavoro dei magistrati romani. Scherza, sfotte, si sente invulnerabile, in un ventre di vacca. I 200 mila euro versati dal costruttore Parnasi alla Lega? Ah ah, tutto legale. Lui se ne catastrafotte (Cammilleri). Pensate, è il ministro degli Interni, dovrebbe rappresentare “con onore e disciplina” (art. 54 della Costituzione) il governo, le istituzioni. Ma è un problema che neppure lo sfiora quando definisce “il nulla” l’inchiesta della Procura della Capitale. Migliaia di pagine di verbali? Ah ah, il nulla. Ammissioni e dimissioni (il Mr. Wolf di Acea, Lanzalone). Il nulla. Da scompisciarsi. Come dargli torto? Ormai cammina, anzi si libra, sospeso in una nuvola di lodi, celebrazioni, incensamenti. Già prima era tutto un turibolare Matteo Due (spesso gli stessi che avevano turibolato Matteo Uno Renzi). Quanto è bravo, un politico di razza, un profeta. A dirlo erano i suoi amici leghisti, gli elettori con la bava alla bocca, gli italiani (quelli che vengono “prima”) dal grilletto facile. Poi, domenica scorsa, la “vomitevole” decisione di chiudere i porti ai 629 migranti dell’Aquarius e Salvini diventa santo subito. A spellarsi le mani soprattutto quelli che lo hanno sempre considerato un furbacchione, un perdigiorno, un ganassa. Ieri era: uno che non ha mai lavorato in vita sua. Oggi è: lo statista che tutto il mondo ci invidia. Quando dice: la pacchia è finita, subito i massmediologi si arrapano per la genialità del messaggio. Quando definisce “in crociera” quelli dell’Aquarius, “vomitevole” diventa un complimento. Lui gigioneggia: “Mi sono fatto sentire, oggi l’Italia viene rispettata”. Sì, come quello che fa quattro urlacci in una sala: certo che ti sentono ma l’unico risultato è che poi t’insultano. Il “buon cuore” del premier socialista spagnolo Pedro Sánchez ci evita il disprezzo del mondo civilizzato per avere mandato alla deriva una nave di disperati. Infatti, col grande statista non vuole parlarci nessuno. Infatti, Donald Trump ed Emmanuel Macron si sperticano in elogi per Giuseppe Conte chi? Non conta una cippa ma dialogheranno solo con lui. L’uomo del Viminale ci resta male, frigna. Ma il gioco è scoperto. Il mondo ci rispetta (ah ah) ma i migranti continuano a sbarcare sulle coste italiane. Lui si accontenta di aver spezzato le reni alle Ong. Sulla vicenda dello stadio fa il bullo ma “il no so se ci sono altri elementi”, a Testaccio, si chiama strizza. È un demagogo dal fiato corto che lucra sulle disgrazie degli alleati Cinque Stelle. A cui più che la compagnia di qualche mariuolo viene fatta pagare la pretesa di legalità. Come si permettono? Invece, alla Lega di Salvini, con quei precedenti (tanto per dire: una banca padana fallita, il tesoro scomparso del tesoriere) si perdona tutto. Lì la pacchia prosegue. Però, non chiamatelo fascista. Quella fu una tragedia. Questa è una barzelletta che fa ridere solo lui.
il manifesto 17.6.18
Valencia, accoglienza senza autorità. Sánchez offre il permesso di un mese, e poi?
Spagna. Una manifestazione darà il benvenuto ai 630 migranti messi in salvo sull'Aquarius. Il governo opta per il soggiorno straordinario, ma finito il tempo sarà espulsione o Cie. La Francia collabora: una squadra di esperti valuterà i casi per il diritto d’asilo
Conferenza stampa del sindaco di Valencia Joan Ribo con la vicepresidente della regione Monica Orta e un membro della Croce rossa
di Luca Tancredi Barone
BARCELLONA Oggi è il giorno dell’arrivo dei 630 migranti salvati di fronte alla Libia e rifiutati dalle autorità italiane. Oltre all’Aquarius attraccheranno anche le navi italiane Dattilo e Orione sulle quali sono stati trasferti parte dei naufraghi per ragioni di sicurezza, viste le pessime condizioni del mare incontrato durante la navigazione con onde alte fino a 4 metri. L’arrivo sarà scaglionato: la prima nave dovrebbe arrivare alle 6 del mattino di oggi, l’ultima alle 12, per dare tempo alle autorità di gestire il flusso.
Alle dieci è prevista una manifestazione davanti al porto in solidarietà coi migranti e «per dimostrare al mondo che Valencia e lo stato spagnolo sono terre di accoglienza». Molte ong e partiti di sinistra fra gli organizzatori, e anche movimenti Lgbt (perché questo weekend Valencia celebra il Pride). In questi giorni è stato preparato un dispositivo di 2.300 persone, di cui un migliaio di volontari, per accogliere i migranti. È stato deciso che non ci saranno né politici né stampa all’arrivo, per preservare anche il diritto all’intimità dei nuovi arrivati.
Mentre il governo francese ha teso una mano in aiuto del governo Sánchez – invierà una squadra di esperti a Valencia per valutare chi tra i migranti ha diritto all’asilo in Francia – ci sono state alcune polemiche tra esecutivo spagnolo, autorità valenziane e ong. L’oggetto del contendere è lo status dei nuovi venuti. Se è chiaro che chi sta male e le donne incinta riceveranno i primi ausili in ospedale (il governo valenziano ha promesso la tessera sanitaria per tutti, in linea con la nuova politica sanchista) e che chi vuole e ritiene di averne diritto può chiedere asilo politico, che accadrà con tutti gli altri? All’inizio il governo parlava dello «stesso trattamento» di chiunque altro, ossia il Cie. Ma in molti hanno obiettato che non si tratta della stessa situazione: in questo caso, i 630 sono stati invitati dal governo, e quindi non sono migranti arrivati al porto per conto loro senza permesso di soggiorno. Per cui l’esecutivo spagnolo ha deciso di cambiare strategia e utilizzare il permesso di soggiorno “straordinario” (previsto dalla legge) per i nuovi arrivati, della durata di un mese. Il tempo, spiegano fonti governative, per riposarsi dal lungo viaggio e per iniziare a mettersi in contatto con la burocrazia: o per chiedere asilo o per chiedere altri tipi di permessi. Scaduto il mese, e se gli stranieri non possiederanno altri tipi di permessi, scatterà anche per loro l’ordine di espulsione (e quindi potenzialmente il Cie) come per tutti gli altri migranti che raggiungono ogni giorno le coste spagnole su imbarcazioni di fortuna.
Nelle ultime 48 ore, e senza che fossero puntati su di loro i riflettori mediatici, in Andalusia sono arrivate 933 persone in 68 precari gommoni, un Aquarius e mezzo. Ma senza tutta l’organizzazione che si riserverà a Valencia. Le ong come l’Asociación Pro Derechos Humanos de Andalucía denunciano che anche nella frontiera sud dovrebbero predisporsi meccanismi come quelli di Valencia, anche se ammettono ultimamente una maggiore disponibilità da parte del ministero degli Interni. Sbarrati i cammini per la Grecia e per l’Italia, il Marocco diventa l’unico percorso disponibile. Tanto più che il vicino del sud della Spagna ha tutto l’interesse che accada come in Turchia e Libia: ricevere soldi dall’Europa in cambio del controllo delle frontiere. Finora, nel 2018 i migranti entrati in Italia sono stati più o meno lo stesso numero di quelli passati attraverso la Spagna o la Grecia.
il manifesto 17.6.18
Salvini, scontro con le ong: «Non venite qui». «Fascista»
Intanto la Francia apre ai migranti dell'Aquarius. Il ministro leghista continua la sua battaglia contro le organizzazioni. E il M5S si accoda
di Leo Lancari
Lo scontro con le navi delle ong impegnate nel mar Mediterraneo è solo una tappa della battaglia molto più estesa che Matteo Salvini è deciso a condurre contro chiunque si adoperi nel prestare aiuto ai migranti. Una battaglia che il ministro degli Interni della Lega ricalca da quanto fatto in Ungheria da Viktor Orbán – che per il capo del Carroccio oltre che un alleato è anche un modello a cui ispirarsi – che ha recentemente presentato un progetto di legge in cui chiunque aiuti un migrante o un profugo, anche solo stampando opuscoli informativi, rischia di finire in carcere. Non a caso Salvini ha già annunciato di voler intervenire al più presto su quelle ong che ricevono fondi da George Soros, il finanziere americano di origine ungherese visto a Orbán come il fumo negli occhi.
Così mentre il governo francese annuncia che accoglierà i migranti che si trovano a bordo della Aquarius intenzionati ad andare in Francia (l’approdo a Valencia, in Spagna, è previsto per questa mattina) il titolare del Viminale continua i suoi attacchi via twitter. Le ultime a finire nel mirino sono state ieri le navi battenti bandiera olandese di due ong, Lifeline e Seefuchs, colpevoli di navigare al largo delle coste libiche e che ieri hanno assistito al recupero di 148 migranti da parte di un rimorchiatore. Salvini non ha dubbi: le due navi sono «in attesa del, loro carico di esseri umani abbandonati dagli scafisti», twitta di buon mattino. Aggiungendo subito: «Sappiano questi signori che l’Italia non vuole più essere complice del business dell’immigrazione clandestina e quindi dovranno cercarsi altri porti (non italiani) dove dirigersi. Da ministro e da papà lo faccio per tutti».
Parole che provocano la reazione di Lifeline: «Quando i fascisti ci fanno promozione…». La risposta di Salvini è immediata: «Una pseudo associazione di volontariato che dà del ’fascista’ al vicepremier italiano? Questi non toccheranno mai più terra in Italia». . «A questo punto la ong toglie il post sostituendolo con un altro in cui ironizza: «No @matteosalvini non è naturalmente un fascista. Ci è scivolato il mouse». Controreplica del ministro: «Roba da matti. A casa nostra comandiamo noi, la pacchi è stra-finita, chiaro?». Il livello ormai è questo.
Se nel M5S qualcuno disapprova quanto sta facendo Salvini, si guarda bene dal dirlo. Anzi, tra i grillini c’è chi fa gara per allinearsi con il nuovo corso. Il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli chiede all’Olanda di far rientrare le due navi: «Non hanno i mezzi e personale per salvare adatti per salvare un gran numero di persone», chiede, mentre il sottosegretario alla presidenza del consiglio Vito Crimi, parlando a Catania a un convegno sull’immigrazione spiega: «Il governo sta facendo una stretta sull’utilizzo delle ong sul modo in cui stanno intervenendo, incrementando le aspettative e alimentando il traffico di esseri umani». Allo steso convegno interviene anche il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro titolare dell’inchiesta siciliana sulle organizzazioni non governative. «Le ong – dice – fanno parte di un sistema profondamente sbagliato, che affida la porta d’accesso all’Europa a trafficanti che sono criminali senza scrupoli».
A farsi dare dei complici dei trafficanti di uomini le ong ovviamente non ci stanno. E così la replica agli attacchi del governo è immediata: «Noi siamo nel Mediterraneo proprio perché non c’è l’Europa», ricorda Medici senza frontiere. «Le navi delle organizzazioni non governative sono scese in mare quando è finita la missione Mare nostrum, con il Mediterraneo che si era trasformato in una tomba per oltre 1.200 persone in una settimana. Siamo lì perché non c’è l’Europa», ricorda Msf.
Dura anche la replica della spagnola Proacitva Open Arms, per la quale accostare le ong alle associazioni di criminale che sfruttano i migranti è «tendenzioso». «Noi siamo coordinati dalla Guardia costiera e siamo sempre stati dentro al sistema di salvataggio in mare in cui la Guardia costiera italiana aveva un ruolo di coordinamento» spiega Riccardo Gatti, capo missione della ong, che giudica non casuali gli attacchi da parte di esponenti del governo: «Questa criminalizzazione delle ong e le azioni volte fondamentalmente a farci sparire sono andate i crescendo», ricorda Gatti. «C’è qualcosa di orchestrato in tutto questo; vogliono portare alla scomparsa delle ong».
Il Fatto 17.6.18
I dem tagliano, la Fondazione raccoglie
Doppi ruoli - Bonifazi è tesoriere del partito e presidente del think tank renziano
di Wanda Marra
Mentre il Pd approva un bilancio in attivo (solo di 500 mila euro, ma dopo i 9 milioni di buco dell’anno scorso non era affatto scontato), e mantiene in cassa integrazione 175 dipendenti (di cui 140 a zero ore), la Fondazione Eyu, nata nel 2014, e organicamente collegata al Pd fa fundraising in maniera del tutto parallela. L’acronimo sta per Europa, Youdem e Unità: tutte realtà che non esistono più. Eyu è balzata agli onori della cronaca per i soldi ricevuti dal gruppo Parnasi, che ha pagato 123 mila euro, più 27 mila di Iva, per un progetto dell’Università di Bologna sul rapporto degli italiani con le loro case di proprietà, come confermano i vertici della Fondazione. Uno dei tanti progetti: il bilancio del 2017 non è ancora noto, ma Eyu è in attivo. Cifre da decine di migliaia di euro, ma intanto prende contatti con gruppi come Google o la Coca Cola. Ai quali propone un’interlocuzione agile, ponendosi come una good company, mentre il Pd è ormai una bad company. I finanziatori non sono pubblici.
Il conflitto di interessi di Francesco Bonifazi lo sottolinea Luca Di Bartolomei, ex dipendente del Pd, in un post Facebook. “Considerato che vi lavorano dipendenti in cassa integrazione quanta parte di questi fondi va al Pd? Cosa fa la Fondazione EYU con questi soldi che il Pd non può fare?”, si chiede. Tema che rimbalza nei corridoi del Nazareno. Anche perché nel board di Eyu ci sono figure come Antonella Trevisonno, contemporaneamente capo del personale dem (anche lei in Cassa integrazione). Peraltro, Bonifazi è sia tesoriere del Pd sia presidente della Fondazione Eyu. “Un ruolo di rappresentanza”, ribatte lui. Nella macchina della Fondazione come segretario generale c’è il suo pupillo e collaboratore Mattia Peradotto, già segretario di Future Dem (la fondazione dei giovani renziani), che nell’ultima avventura mediatica di Matteo Renzi (il treno dello scorso autunno) faceva da organizzatore. Eyu è una via di mezzo tra un think tank e un centro studi. Racconta lo stesso Peradotto: “Approfondisce delle tematiche anche per offrire alla politica questioni da approfondire. E si accredita nella Feps, che raccoglie tutte le fondazioni progressiste”. Un’attività di pre-lobbying, con l’obiettivo prioritario di raccogliere fondi e quello parallelo di accreditarsi in Europa. E infatti produce una rivista trimestrale, spaziando dalla geopolitica all’economia. L’intenzione è di avere uno strumento parallelo al Pd per potersi muovere più liberamente, aprirsi a mondi diversi da quelli del centrosinistra tradizionale. Almeno in origine. Ora il mondo renziano è alla ricerca di spazio, di percorsi. Ma soprattutto di credibilità e parole d’ordine.
Eyu è entrata nella Feps (Foundation for european progressive studies), prestigioso think tank del Pse storicamente guidato da D’Alema, che poi è stato sostituito alla presidenza, grazie al lavoro contro di lui fatto dai renziani a Bruxelles. Così gli uomini dell’ex premier cercano uno spazio in Europa.
Per adesso, lavorando a stretto gomito con le fondazioni dei partiti del Pse, ma guardando anche oltre. Lo strumento permette di muoversi con più disinvoltura di quella di un partito. Curiosità: il libro fotografico sul treno di Renzi, l’ha pagato e realizzato la Fondazione. Eyu va attenzionata come primo passo verso un eventuale partito renziano. Ma troppo esile strutturalmente, anche secondo chi ci lavora, per essere più di questo.
Il Sole 17.6.18
Atene volta pagina e archivia Grexit
Giovedì l’Eurogruppo per sancire l’uscita dal bailout. Il Paese esce provato dall’austerity ma non rinnega euro e Ue. E l’economia dà segnali di ripresa
di Stefano Carrer
Atene. «Il vantaggio per la Grecia? Una valuta stabile». E poi «la stabilità di cornice normativa e istituzionale connessa al suo inserimento nell’Unione Europea». Nella palazzina anonima che ospita Enterprise Greece, il Ceo dell’agenzia governativa che promuove gli investimenti diretti stranieri (e anche l’export), Elias Athanasiou, non ha dubbi nell’indicare quanto differente sia il “rischio Grecia” rispetto a quello di Paesi soggetti al pericolo svalutazioni e a convulsioni o involuzioni politiche, come la vicina Turchia. Certo è un osservatorio di parte, ma può dare qualche lume sulle ragioni di un fenomeno che, se visto con occhiali italiani di recente lega, parrebbe tutt’altro che scontato: come mai ad Atene e dintorni, dopo otto anni di dura austerità e commissariamento delle politiche economiche, non sia affatto di attualità il tema della Grexit. Dall’euro e tantomeno dalla Ue. Il consensus politico e una solida maggioranza della popolazione, anche se magari stremata e disillusa, non ne vuol sentir parlare.
Da queste parti, le ipotesi di Italexit o Quititaly destano una certa sorpresa, temperata dall’idea che l’Italia è più grande e che non sia augurabile a nessuno quello che ha passato il Paese. «La percezione è che uscire comporterebbe aggiustamenti ancora più severi – afferma Dimitris Katsikas, Head del Crisis Observatory di Eliamep –. L’economia resta vulnerabile, tra peso del servizio del debito e livello troppo alto del debito stesso, come dimostrato recentemente dal rialzo dello spread greco sulla scia di quello italiano. Inutile comunque aspettarsi quello di cui avremmo bisogno, come un vero haircut o una sensibile riforma della governance europea».
Sulla via del risanamento
«È sempre facile dare la colpa di ogni difficoltà ad altri», dice Athanasiou, secondo cui ora la Grecia è sulla via di un risanamento da consolidare, con molti indicatori macro tornati positivi tra cui alcuni migliori di quanto richiesto dai creditori (come l’avanzo primario). «Il nostro modello precedente era poco sostenibile: economia chiusa, basata su consumi e accumulo di debito – prosegue –. Adesso l’economia sta diventando più aperta e diversificata. Attira investimenti esteri anche al di là delle privatizzazioni, mentre l’export cresce, dal food al tech, e ha raggiunto il massimo storico, al pari del turismo. Io stesso mi sono stupito che una dozzina di aziende greche siano andate quest’anno al Salone del Mobile di Milano».
Il +1,4% del Pil dell’anno scorso (+2,3% nel primo trimestre) ha segnato l’uscita dalla recessione, e consentito i primi assaggi di ritorno al mercato dei capitali, dopo 8 anni di sbarramento che hanno portato a tre salvataggi internazionali. «Dal picco di 260mila auto importate eravamo scesi a sole 60mila, ma siamo tornati oltre le 100 mila: segnale di ripresa anche dei consumi», afferma Nektarios Demenopoulos dell’Autorità portuale del Pireo, ora in mani cinesi. A suo dire, anche chi era contrario ora riconosce che il passaggio sotto le ali di Cosco ha rappresentato un caso di privatizzazione di successo, portando più efficienza e più investimenti: «Qualcuno paventava la nascita di una Chinatown al Pireo, ma qui di cinesi ne sono arrivati solo una decina. Ora speriamo che le Ferrovie italiane, dopo aver acquisito quelle greche, procedano a un upgrading della rete per facilitare gli smistamenti via terra».
Gli ultimi compiti a casa
Atene ha svolto venerdì gli ultimi intrusivi “compiti a casa” con l’approvazione parlamentare di un pacchetto omnibus di misure richieste, come nuovi tagli alle pensioni, anche per il periodo successivo all’attesa uscita dal bailout che dovrebbe avvenire in agosto (previo il via libera dell’Eurogruppo giovedì prossimo, che concederà un modesto “debt relief”). Un voto tra scioperi e cortei di protesta, senza però tante retoriche antieuropee: semmai, si spera di attutire o svicolare, come nel caso delle insabbiate tabelle di marcia per le privatizzazioni (realizzate solo per un quinto del target). Almeno la pensa così l’uomo che invita alcuni viaggiatori usciti dal terminal dell’aeroporto a «prendere l’X95 per il centro». Lui è con altri tassisti in testa a una lunga fila di vetture gialle ferme(per due giorni consecutivi). «Siamo in sciopero – dice –. Vogliono consentire agli autisti privati di prendere clienti ogni ora invece che ogni tre ore. Il capo del nostro sindacato non è stato all’altezza e ora ci dice che il governo non può farci niente perché è l’Europa che esige ponti d’oro per Uber e simili. Ma non è detta l’ultima parola».
La questione macedone
Il trauma del 2015 ha rappresentato uno spartiacque, quando un governo di sinistra radicale, dopo aver promosso un referendum che aveva bocciato l’austerity, al dunque ha evitato scelte di rottura. Le pulsioni da nazionalismo sovranista e populista si sfogano piuttosto sulla questione macedone: grandi proteste venerdì e ieri in piazza Syntagma contro il premier Alexis Tsipras, che ancora una volta ha avuto il coraggio di sfidare l’impopolarità nel raggiungere un accordo sul contenzioso con la confinante Fyrom, che potrà chiamarsi “Repubblica della Macedonia del Nord” (accesa seduta-fiume ieri in Parlamento per consentirgli di andare a firmare oggi l’accordo). Un tradimento dell’identità e della patria, secondo gli oppositori, per i quali ogni Macedonia può esser solo greca: Constantinos Barbarousis di Alba Dorata (ora alla macchia per un ordine di arresto) ha invitato in pieno Parlamento le forze armate a un colpo di stato contro Tsipras. Impassibili come sempre, gli euzoni cadenzavano ieri il cambio della guardia davanti a un cartello offensivo: “Skopje Monkey-donia”. Non c’erano solo estremisti di destra tatuati, ma tanti cittadini comuni, anche tanti giovani.
Il ritorno degli expat
Con una disoccupazione giovanile doppia rispetto al poco più del 20% della media (dal 27,9% del 2013), in molti se ne sono andati. Ma appaiono segnali di un un ritorno di expat, con nuove idee specialmente nell’ambito della new economy. «Dal 2010 la crisi ha portato a un esodo verso altri Paesi europei in cerca di lavoro. Ma oggi vedo una controtendenza: la gente, soprattutto i giovani, ha la voglia e l’energia di reinventarsi senza lasciare il proprio Paese, dove la qualità della vita – specie in città più a misura d’uomo rispetto ad Atene, è ottima - afferma Sakis Lalas, fotografo e regista -. Sono nate molte start-up, c’è più attenzione e rispetto nei confronti di tutto quello che è made in Greece». La Grecia - aggiunge - potrebbe essere una di quelle mete molto amate dai new marketers, quelli che lavorano da qualsiasi angolo del mondo. «È quello che ho deciso di fare io con mia moglie, italiana: dividere la nostra vita fra Grecia, Italia e Los Angeles, gestendo la piattaforma online che qui abbiamo fondato, The Dark Candy, che mette in connessione Hollywood e l’industria della moda attraverso la figura dei costume designers».
il manifesto 17.6.18
Usa-Messico: duemila bambini separati dai genitori
American Psycho. Ma Trump non si ferma: prossima settimana sarà votata la legge che finanzia il muro
di Simone Pieranni
La politica di «tolleranza zero» di Trump – ovvero l’arresto dei migranti che tentano di attraversare il confine tra Usa e Messico – ha creato un dramma infinito per almeno duemila bambini, separati dai genitori. Numeri che si sarebbero realizzati in un lasso di tempo brevissimo: dal 19 aprile al 31 maggio. I minori, dopo l’arresto e il processo dei genitori, sono stati sottratti e trasferiti in centri gestiti dai servizi sociali, senza che si sappia nulla delle procedure eventuali per la loro riunificazione
Lo hanno reso noto i media Usa citando dati del Dipartimento per la sicurezza interna, dopo le polemiche per la violazione dei diritti dei bambini, denunciata anche dall’Onu. Trump non sembra esserne affatto colpito anzi: la prossima settimana sarà approvata la proposta di legge repubblicana che confermerà la volontà di costruzione del muro. Le elezioni di midterm si avvicinano e Trump vuole capitalizzare tutto quanto può: prima l’incontro con Kim Jong-un presentato come il viatico per la futura pace nel mondo, poi i dazi contro la Cina – giunti a sorpresa, ma non a Pechino che ieri ha risposto con 50 miliardi di dollari di contro-dazi – e ora il ritorno del suo grande cavallo di battaglia durante la campagna elettorale (proprio nel giorno in cui il capo di quella campagna, Paul Manafort, è finito dritto in carcere): nessuna pietà per i «Dreamers» e la costruzione del muro con il Messico.
Quanto sta accadendo «è immorale, atroce», ha scritto su Twitter l’influente senatrice democratica Dianne Feinstein, descrivendo a pieno una situazione che pare ormai senza ritorno. In più, i toni di tutto quanto, come sempre quando c’è di mezzo Trump e membri del suo staff, oscillano tra il terribile e il grottesco.
Nei giorni scorsi l’attorney general Jeff Sessions aveva scomodato perfino la Bibbia per giustificare la necessità di rispettare rigorosamente la legge, alla faccia dei diritti umani e dei diritti dei bambini. Come sottolineato infatti sul Guardian da Michael Paarlberg, columnist del quotidiano e professore di scienze politiche alla Virginia Commonwealth University «è impossibile guardare alla pratica della separazione della famiglia dei migranti da parte dell’amministrazione Trump e osservarla come qualcosa di diverso da ciò che è: un abuso sui minori istituzionalizzato». Per suffragare questa tesi, Paarlberg ricorda che i bambini sono raccolti in centri che il senatore dell’Oregon Jeff Merkley ha descritto come «canili». Il trama causato – prosegue l’editorialista – è voluto «per dare una avvertimento agli altri migranti».
La situazione sembra essere ormai sfuggita di mano, ma nonostante tutto l’amministrazione Trump non mostra segni di cedimento: il governo americano ha infatti annunciato che intende costruire un campo di accoglienza temporaneo a Tornillo, in Texas, per i minori separati dai genitori. Un portavoce del dipartimento della sanità e dei servizi umani degli Stati uniti ha spiegato all’agenzia Associated Press che la struttura «avrà lati morbidi», ma non ha chiarito se i bambini saranno stati ospitati in «tende».
E se tutto questo non bastasse ieri Trump ha gettato nel panico il partito repubblicano. Nella sua casa mediatica di Fox avrebbe infatti sostenuto che non supporterà una delle due proposte repubblicane, considerata troppo moderata. Pochi minuti dopo la Casa bianca ha dovuto correggerlo con un comunicato ufficiale: il presidente voterà entrambe le proposte. Anche quella più moderata che prevede tutele per i «Dreamers» ma prevede altresì il finanziamento del muro con il Messico tanto caro a «The Donald».
il manifesto 17.6.18
Henry Miller, carosello infoiato a Parigi
Miller, sesso e disperazione. «Giorni tranquilli a Clichy», Adelphi, composto a New York dopo il soggiorno francese, uscì nel ’56 per Olympia Press, con le foto di Brassaï
di Pasquale Di Palmo
«Il suo mondo di felicità erotica si muove nella suburbia in una società di falliti e disperati, di paranoici e impossibilitati come quella cara agli impressionisti tedeschi ma cantata con un ritmo e una figurazione cari ai surrealisti francesi; una società che Miller guardava con occhio realista tipicamente americano». Questa osservazione di Fernanda Pivano, nonostante il lapsus riguardante gli «impressionisti» anziché gli espressionisti tedeschi, può idealmente introdurre l’opera trasgressiva di Henry Miller (1891-1980) di cui Adelphi propone, nell’accurata traduzione di Katia Bagnoli, Giorni tranquilli a Clichy («Piccola Biblioteca», pp. 188, € 18,00). Il racconto fu composto nel 1940 a New York, subito dopo il soggiorno parigino dello scrittore, e rivisto nel ’56, anno in cui uscì in Francia, per i tipi dell’Olympia Press, in inglese (il progetto di copertina Adelphi riprende quello dell’edizione originale). Per vedere la luce negli Stati Uniti bisognerà attendere il 1965, quando terminò il travagliato processo per oscenità intentato a Tropico del Cancro che costituì un vero e proprio caso editoriale, diventando un best-seller internazionale, salutato enfaticamente da Orwell come il prodotto «dell’unico romanziere di valore che sia apparso in lingua inglese da parecchi anni a questa parte».
Giorni tranquilli a Clichy è ambientato a Parigi, la città della lost generation americana in cui Miller per quasi un decennio, quello degli anni trenta, visse come un clochard e che divenne lo scenario di molti suoi testi, dal succitato Tropico del Cancro al controverso Opus pistorum, redatto su commissione nel 1941, dove vengono descritti, con dovizia di particolari, tutti i gradi più rivoltanti dell’abiezione: dall’incesto allo stupro, dalla pedofilia ai rapporti contro natura, finanche con gli animali. Anche Giorni tranquilli a Clichy fu un lavoro nato su commissione: doveva trattarsi di un libro pornografico, pagato un dollaro a pagina, affidatogli da un miliardario dell’Oklahoma che non rimase soddisfatto del risultato e virò sugli scritti di Anaïs Nin, celebre amante di Miller. In questo racconto vengono narrate le vicissitudini di Joey, chiaro alter ego dello scrittore, scandite dagli incontri con varie prostitute, e la relazione che Carl intrattiene con Colette, adolescente che con i due amici condivide l’appartamento.
La sessualità, com’è tipico in Miller, ha un posto preponderante nell’economia del racconto, anche se qui risulta modulata, più che in altri topoi della sua sovrabbondante produzione, da un’attonita sorpresa per gli incontri prospettati e da una maggior distensione, anche se permangono le tipiche riflessioni esistenziali di indubbio taglio cinico. Lo stesso autore asserisce, a proposito di Carl, personaggio presente anche in altri libri di Miller: «La sua audacia (…) era generata dalla disperazione». Ed è proprio la disperazione a caratterizzare questo carosello di uomini e donne perennemente infoiati, in preda a un delirio alcolico che non conosce requie, trascinantisi alla stregua di automi, come osserva ancora la Pivano, in «camere squallide da pochi soldi o minuscoli appartamenti di periferia (…) nei quali il sesso sembra l’unica speranza, l’unica via di uscita dei diseredati». La stessa ville lumière che, come scrisse nel suo romanzo più famoso, «ti cresce dentro come un cancro, e cresce e cresce finché non ti ha divorato», vista attraverso alcuni splendidi scorci fotografici di Brassaï, definito dallo stesso Miller «l’occhio di Parigi», nel testo risulta riconoscibile solo a tratti.
È il paese di Bengodi dei bohémiens e dei depravati, in cui si passa da un bistrot malfamato a un appartamento anodino, relegando la sua magnificenza solo a qualche rapido, sbrigativo tratteggio: «Salimmo a zigzag su per la collina in direzione del Sacré Cœur. Ai piedi della cattedrale ci riposammo contemplando il mare di luci scintillanti. La notte esalta Parigi. L’illuminazione, più soffusa se la si vede dall’alto, attenua la crudeltà e lo squallore delle strade. Di notte, vista da Montmartre, Parigi è davvero magica; giace in una conca come un’enorme gemma scheggiata».
Nel libro figura un altro racconto scritto e riveduto da Miller nello stesso periodo, Mara-Marignan, di cui esiste anche una versione ridotta intitolata Berthe. La trama, dominata dall’incontro con una quasi irreale prostituta, sembra presentare più di un’analogia con la Nadja bretoniana, non a caso uno dei titoli elencati nei Libri della mia vita considerati fondamentali dallo scrittore (ma, rimanendo in ambito francese, non si può passare sotto silenzio il magistero di Cendrars, Céline e Rimbaud, sul quale egli scrisse Il tempo degli assassini, uno dei suoi saggi più avvincenti, scevro com’è di qualsiasi edulcorazione di carattere agiografico). E, ça va sans dire, quella linea «erotica» che da Sade e il suo acerrimo nemico Rétif de la Bretonne approda alle aporie di Bataille.
Guido Almansi, uno dei più convinti ammiratori di Miller, rilevava come «anche nelle sue opere migliori, la mistura di passi di alta letteratura e di zavorra è imbarazzante». Ma «l’unicità di ogni accoppiamento sessuale» che Almansi riscontra nell’opera del romanziere americano in realtà si riduce a una serie ininterrotta di coiti che, nonostante le infinite variazioni sul tema e le innumerevoli combinazioni descritte, appiattisce l’atto carnale all’espressione martoriata di «un mondo senza speranza», come osserva il protagonista di Tropico del Cancro. Il plot narrativo si dilata in meccanismi angusti e ripetitivi, il sesso è vissuto alla stregua di un’ossessione che abbisogna di una sequenza infinita di varianti mimeticamente descritte per poter assolvere al suo compito di programmatico scarto dalla norma. I rapporti tracciati da Miller hanno la stessa «bestialità» di quelli esibiti da Bacon nei suoi dipinti, con effetti allucinatòri che deformano le parti anatomiche rappresentate.
La prosa di Miller è contrassegnata da una carnalità endemica, vissuta «di pancia», che alterna momenti felici a frequenti cadute di gusto e stile. Fu molto ammirata da Lawrence Durrell e Norman Mailer e, stranamente, anche da un critico algido come Mario Praz, che osservò al riguardo: «Il mondo descritto dal Miller è davvero la carcassa, la carogna della civiltà in sfacelo, rappresentata dall’orrore delle sue città squallide e tentacolari, e dalla vuotaggine della vita meccanizzata». Nell’umorismo triviale di Miller, nei suoi inarrestabili flussi di coscienza, nella sua prosa brutale che si aggrappa al linguaggio parlato arrivando a influenzare in maniera decisiva Kerouac e la beat generation, spesso si nasconde una serie di criptocitazioni. Si pensi ad esempio, nel racconto che dà il titolo a questo libro, all’episodio dell’incontro tra la poetessa surrealista e i due protagonisti. Oltre alla tecnica dell’écriture automatique, richiamata sarcasticamente dal fatto di scrivere versi con il rossetto sulle pareti del bagno, non si può non attribuire alla rivoltella che la poetessa nasconde nella borsetta un preciso riferimento a quanto teorizzato da Breton, a sua volta memore di Jarry e Vaché, nel Secondo manifesto del surrealismo: «L’azione surrealista più semplice consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può, tra la folla».
Tuttavia il medesimo Almansi osserverà come quella di Miller sia «una scrittura realistica che arriva alla surrealtà della visione». Ma il movente è sempre quello della vita vissuta, polemicamente contrapposta alle derive della società consumistica americana, perbenista e intransigente. Scrisse Miller: «Se qualcosa merita il nome di “osceno” è proprio questo confronto obliquo e furtivo con i misteri, questo camminare sull’orlo dell’abisso godendo l’estasi della vertigine senza però cedere al fascino dell’ignoto».
il manifesto 17.6.18
Monet e gli americani
A Parigi, Musée de l'Orangerie, "Nymphéas. L’abstraction américaine et le dernier Monet", a cura di Cécile Debray
di Jolanda Nigro Covre
In "The late Monet", 1956, il critico americano e formalista Clement Greenberg vide nella Scuola di New York l’esito delle "Ninfee", sotto il segno del gesto pittorico e della spazialità ambientale. Alla luce di questa mostra, il nesso pone problemi...
Willem De Kooning, "Villa Borghese", 1960, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
PARIGI Nell’atrio antistante le due sale ovali con le Ninfee (1918-1926) di Monet, su una parete è il Quadro verde di Ellsworth Kelly del 1952, e di fronte le minimaliste sagome nere su bianco delle sue Ninfee. È l’omaggio di Éric de Chassey all’artista che, per primo, ha indicato nel vecchio impressionista un esplicito riferimento. Si scende poi al piano inferiore, dove Cécile Debray, direttrice del Museo dell’Orangerie, ha allestito la mostra Nymphéas. L’abstraction américaine et le dernier Monet (fino al 20 agosto) nel centenario della proposta comunicata a Georges Clemenceau di dipingere e donare allo Stato le grandi composizioni. Alcune Ninfee di Monet scandiscono la sequenza di quadri di artisti della Scuola di New York, operanti tra le definizioni di Espressionismo astratto e Action Painting. Ci sono i pittori considerati da Clement Greenberg nell’American-type painting pubblicato nel 1955 (Jackson Pollock, Mark Rothko, Willem de Kooning, Clyfford Still, Barnett Newman), i color-field (campi di colore) di Morris Louis e Helen Frankenthaler e i pittori riuniti da Lawrence Alloway nel 1958 nella mostra londinese Abstract Impressionism. A metà della compagine un pannello sottolinea come The Late Monet di Clement Greenberg (1956, ma su Monet si era espresso già nel ’48) sia al centro del tema della mostra.
La curatrice dichiara l’intenzione di mostrare affinità basate, più che sui non numerosi legami di fatto, su risonanze visive. Le riflessioni degli artisti sono per lo più successive alle scelte del direttore del MoMA Alfred Barr e di Greenberg, e la loro affinità con il tardo Monet è ricostruita «a posteriori» proprio su tali scelte; in realtà, le suggestioni che la mostra indubbiamente suscita andrebbero incanalate in una riflessione sul contesto storico-critico in modo più imparziale rispetto a quello, pur lodevole, rintracciabile nell’allestimento.
Nel 1955, parallelamente allo studio di Greenberg, il MoMA acquista un pannello di Ninfee, poi distrutto da un incendio e sostituito da altri due dipinti. Secondo Greenberg, «gli espressionisti astratti hanno realizzato qualcosa che, penso, è il progresso più radicale di questi ultimi vent’anni e che non ha equivalente a Parigi». Stabilisce quindi una nuova preminenza delle avanguardie americane sulla contemporanea arte francese, che non è più modello da seguire. Sono i pittori americani che hanno riscoperto come astrattista «il tardo Monet» dei pannelli donati allo Stato, che in effetti i francesi avevano accolto in gran parte malamente, come opera decorativa attardata o comunque non allineata alle tendenze degli anni venti. Nel ’52, alla riapertura dell’Orangerie già chiusa per restauri, André Masson, che tra l’altro aveva esportato l’esperienza surrealista negli USA influenzando artisti come Pollock, ha esaltato l’opera come «una delle vette del genio francese», posta in un museo che è «la Sistina dell’impressionismo». Greenberg sposta l’idea di capolavoro da Monet ai suoi pittori, che ha sempre letto, come è noto, in una concezione formalista, poi respinta dalla critica successiva.
La pennellata di un cieco
La rivendicazione di una priorità americana non sarà senza conseguenze nella storiografia. Ma, ritornando all’attenzione per il tardo Monet, i punti di contatto si dovrebbero cogliere nel gesto pittorico e nella spazialità ambientale. La pennellata del vecchio francese, ormai quasi cieco, non definisce più elementi individuali e individuati nella natura, e nemmeno un’impressione puramente ottica; ha una vita propria, creata dalla pasta pittorica, dalla mano e dall’immersione dell’artista in un paesaggio tanto amato. Nulla annuncia l’eroica affermazione esistenziale, né il gesto fortemente affermativo della Action Painting. La spazialità ambientale, poi, è maggiore nelle Ninfee, a patto che non le si consideri, erroneamente, opera decorativa. Quanto Monet disperde nell’aria il suo estremo capolavoro, tanto i cosiddetti astrattisti americani (che peraltro contestano di esser chiamati tali) vogliono uscire dal quadro per aggredire la realtà; quanto il fruitore, nelle due sale ovali, si perde nella freschezza di un’atmosfera colorata per taluni serena, per altri malinconica e cupa (la perdita della moglie, la coscienza della prossima fine), tanto, di fronte agli espressionisti astratti, si sente chiamato a pensare e reagire.
Il taglio della mostra è dichiarato, quindi per i francesi non ci sarebbe stato posto, ma ricordiamo che alla mostra Véhémences confrontées di Marcel Tapié del 1951, oltre a Riopelle, De Kooning, Pollock, esponevano Camille Bryen, Hans Hartung e Georges Mathieu. Siamo all’alba dell’affermazione del temine Informel, che coinvolgerà anche Fautrier, il quale conosceva bene Monet, come si è potuto riflettere alla mostra da poco conclusa, a lui dedicata al Musée d’Art Moderne de la Ville.
L’«eco» scatta comunque tra dipinti scelti ad hoc: un brano di Giverny al tramonto accanto a dipinti con toni caldi, salici a fianco di un dripping, uno sguardo d’insieme all’intera serie accanto ai più dilatati color-field e a Rothko, l’insondabile dell’acqua sotto una ninfea accanto a The Deep (1953) di Pollock, o a Blue (1958) di Sam Francis. Un confronto che spieghi la presenza di Tobey con la sua sottile e brulicante «scrittura», sinceramente, non l’ho trovato.
Il rapporto più pertinente è con la tendenza dell’«Impressionismo astratto», nonostante l’ambiguità del termine che includerà anche artisti di retroguardia; con il canadese Jean-Paul Riopelle (a Parigi dal 1947, di provenienza surrealista), con la più testualmente monettiana, malgré soi, Joan Mitchell, con Sam Francis, Philip Guston e altri, e la definizione si è estesa, ad esempio, al francese Alfred Manessier, che non gravitava propriamente nell’area informale. Sono gli artisti scelti da Alloway per la mostra del 1958; ma il termine è creato da Elaine de Kooning, moglie di Willem, nel 1955 e da Louis Finkelstein in un articolo del 1956, New look: Abstract-Impressionism.
La de Kooning sottolinea in realtà una divergenza: «Mentre gli impressionisti tendevano a operare sugli effetti ottici della natura, gli impressionisti americani si interessavano agli effetti ottici degli stati spirituali, applicando così un vecchio stile a un soggetto nuovo». L’indicazione di Finkelstein, invece, è più incondizionata e diretta proprio a Monet: connotando l’originalità di alcuni pittori dell’espressionismo astratto, ne distingue «la visione fondamentalmente impressionista», fondata «sulle qualità di percezione della luce, dello spazio e dell’aria piuttosto che sulla superficie pittorica». È la «sensibilità visiva» che collega le Ninfee a questi artisti e, aggiunge, a molti altri.
Il caso Sam Francis
Tra gli entusiasti di Monet si distingue al tempo stesso per qualità e affinità, a mio avviso, il californiano Sam Francis, che tra l’altro ha un particolare feeling con Parigi: vi trascorre, dal 1950, molti anni ed è in contatto con il critico Georges Duthuit, genero di Matisse. Il suo tributo a Monet, riferito alla sua visita all’Orangerie nel 1953, è tra i più espliciti: «Un grande shock, la scoperta delle Ninfee… Erano meravigliose, perché erano così libere, proprio come i dipinti di un cieco».
Il merito della mostra è forse soprattutto quello di aver chiarito, attraverso relativamente pochi esempi, differenze di tendenza nella Scuola di New York. Sarà meglio che il pubblico su questo rifletta, piuttosto che sul duplice effetto di aver concentrato l’attenzione sull’influenza di un museo americano (se mai ce ne fosse bisogno) e sulla riscoperta del metodo critico di Greenberg a essa connesso.
Il Fatto 17.6.18
Isola d’Elba, ritrovata la biblioteca perduta di Napoleone in esilio
Risolto il mistero dei libri di Napoleone Bonaparte all’isola d’Elba: 63 volumi appartenuti all’imperatore francese sono stati ritrovati in uno scatolone, dove erano stati dimenticati per errore. I volumi facevano parte dei 72 libri scomparsi nel 2013 da Villa dei Mulini, una delle residenze napoleoniche all’isola d’Elba durante l’esilio nel 1814. I volumi, che trattano vari argomenti e hanno un interesse culturale elevato, sono stati ritrovati grazie a un accurato sopralluogo che i carabinieri del Nucleo operativo di Portoferraio e i militari del Comando tutela patrimonio culturale di Firenze hanno effettuato in tutti gli ambienti e le stanze dei musei napoleonici all’Elba, rintracciandoli in scatoloni che si trovavano nella galleria Demidoff di Villa San Martino, la residenza estiva dell’imperatore. Dalle indagini è emerso che non si è trattato di una sparizione voluta, perché i volumi sarebbero erroneamente finiti in una scatola sbagliata durante un trasloco nel 2013. Le ricerche ora proseguono per rintracciare gli altri nove volumi ancora mancanti. A far emergere l’ammanco nel 2014 era stata una ditta incaricata dal Comune di Portoferraio di eseguire la catalogazione elettronica dei volumi all’interno dei musei.
Il Sole Domenica 17.6.18
Oltre le crisi
Fascino e debolezza del gioco democratico
di Paolo Pombeni
Aureo libretto, si sarebbe detto una volta, questo di Cassese sulla democrazia in un momento in cui questa parola riempie le bocche della politica a proposito, ma più spesso a sproposito. Gli Oscar Mondadori con scelta felice lo ripropongono in una nuova edizione perché è un testo molto agile, scritto in modo da rendersi leggibile, ma senza nulla togliere al rigore delle argomentazioni e alla ricchezza dei contenuti.
Il libro muove dal fare i conti con quella che ci si chiede se sia una nuova crisi della democrazia e si conclude con due densi capitoletti rispettivamente dedicati alle possibilità di andare «al di là della democrazia» e alle difficoltà di gestione di un sistema democratico nel contesto attuale.
Cassese è un autore che solo impropriamente si potrebbe definire “realista” nel senso corrente che viene dato al termine, che tende a connotare studiosi che in qualche misura si arrendono all’idea che le cose stanno come stanno ed è inutile illudersi che possano essere diverse. Altrettanto impropriamente lo si potrebbe definire “idealista”, nel senso di coloro che si abbandonano alla ricerca di modelli la cui mancata realizzazione genera sacri furori. Da giurista esperto della vita concreta delle istituzioni e da osservatore raffinato di quanto l’evolversi dei tempi mette davanti ai nostri occhi, Cassese si interroga sulla democrazia come strumento del “governo limitato” dove la sovranità popolare da un lato esercita un controllo sull’esercizio dei poteri dello Stato e dall’altro deve essere disciplinata in modo che non strabordi in uno strumento di appello ad un evanescente popolo con cui bloccare l’ordinato sviluppo della vita pubblica.
È nella dialettica tra queste due componenti che si colloca il fascino e al tempo stesso la debolezza del sistema democratico. Il nostro autore gioca con finezza su queste due polarità. Eccone un esempio sull’evoluzione del ruolo dei partiti: «Nella prima fase erano i partiti che sceglievano le alleanze e quindi i governi. Donde la cosiddetta “partitocrazia”. Nella seconda fase i partiti sono stati espropriati del potere di formare essi stessi i governi. Quindi i partiti, cacciati dalla porta, sono rientrati dalla finestra, prendendosi il potere di scegliere i parlamentari» (p. 29).
Cassese dedica adeguata attenzione ai contropoteri, da quelli per così dire esterni come lo sono le Corti costituzionali, a quelli che potremmo definire interni come lo è il sistema bicamerale. Tutto nasce da una considerazione sulla importanza del diritto. «Il diritto penetra in altro modo nell’area dell’autorità: non solo sottraendone parti affidate ad autorità non governative…, ma sottoponendone i processi di decisione al modello del contraddittorio. La decisione rimane affidata all’autorità, ma questa non può prenderla in modo solitario, deve informare gli interessati, discutere con loro, spiegare (motivare) la sua decisione» (p.66).
Viene poi una severa, ma al tempo stesso accorata disamina delle mitologie sulla democrazia diretta contrapposta alla democrazia rappresentativa. Parte da una costatazione: il ritorno di un uso della religione come principio alternativo all’applicabilità di un sistema di convivenza basato sulla condivisione delle sistemazioni giuridico-costituzionali a cui ogni Paese è giunto in autonomia lungo i secoli. Potrebbe sembrare una questione legata solo all’impatto dell’Islam radicale anche sulle società occidentali o occidentalizzate, ma in realtà, non appena del termine religione si dia una interpretazione un po’ più larga, si tratta del fenomeno per cui alla decisione politica come costruzione valutativa di opportunità e alternative si sostituisce la politica come scelta da parte di soggetti che devono mostrare la capacità di essere fedeli a “principi/scelte” imposti a priori come indiscutibili.
La democrazia insomma è la risorsa fondante del costituzionalismo occidentale, ma può tramutarsi anche nel grimaldello per segnarne se non la fine almeno il declino.
La democrazia e i suoi limiti
Sabino Cassese
Nuova edizione, Mondadori, Milano, pagg. 134, € 13
Il Sole Domenica 17.6.18
Paolo Matthiae.
Le scoperte, che bellezza!
L’archeologo italiano che ha riportato in luce la città di Ebla racconta le più clamorose campagne di scavo effettuate dall’Ottocento a oggi tra Egitto e Mesopotamia
di Marco Carminati
Paolo Matthiae è stato protagonista di una delle più clamorose scoperte archeologiche del secolo scorso: il ritrovamento della città e della civiltà di Ebla. Correva l’anno 1962. Matthiae aveva 22 anni e si trovava ad Aleppo per motivi di studio. Visitando il museo della città siriana il giovane archeologo venne attirato da un singolare bacile di basalto. Chiese la provenienza del reperto e gli venne indicato il nome (a lui sconosciuto) di Tell Mardikh, una località a 55 chilometri da Aleppo. Molto incuriosito, decise di andare a vedere personalmente il sito e lo fece prendendo un taxi (così facendo, senza saperlo, avrebbe stabilito un primato da guinness: la prima grande scoperta archeologica della storia effettuata usando un taxi!). Giunto a Tell Mardikh, Matthiae intuì subito che sotto quella strana collina a forma di cratere poteva celarsi qualcosa di importante. Tornò sul luogo più volte e nel 1964 riuscì a organizzare i primi scavi, indotto dal sospetto che quel sito potesse coincidere con l’antica città di Ebla, di cui parlavano molte fonti antiche ma che sembrava essersi dissolta nel nulla. Nel 1968 arrivò il primo indizio decisivo: emerse dalla terra una statua acefala recante questa iscrizione: «Ibbit-Lim, re della stirpe di Ebla». Il ritrovamento incoraggiò a continuare, e la città, piano piano, tornò alla luce. Si trattava di un grande agglomerato urbano risalente al 2400-2300 avanti Cristo, circondato da solide mura e caratterizzato da un grande Palazzo Reale posto sull’acropoli. E proprio nel Palazzo venne fatta nel 1974 la scoperta più sensazionale: emerse una quantità impressionante di tavolette cuneiformi che una volta lette si rivelarono essere nientemeno che l’archivio amministrativo della città. Dunque Ebla restituì non solo i suoi resti fisici ma anche la sua storia economica e sociale, tra l’altro in stretto legame con le grandi civiltà limitrofe dell’Egitto e della Mesopotamia.
Nel suo nuovo volume Dalla terra alla storia. Scoperte leggendarie di archeologia orientale, Paolo Matthiae ha ovviamente inserito la grande scoperta di Ebla, ma ha voluto che questo suo eccezionale successo professionale venisse incastonato nella strepitosa sequenza di altre leggendarie scoperte archeologiche che, dalla metà dell’Ottocento a oggi, hanno enormemente dilatato le conoscenze sulle civiltà preclassiche del vicino Oriente. Attraverso cinquecento pagine e centinaia di bellissime immagini (fotografie, disegni, mappe, piante e ricostruzioni), Matthiae ci guida in un viaggio davvero appassionante che tocca tutti i principali siti archeologici dell’Egitto e del Medio Oriente, dalla Valle dei Re a Tebe (in Egitto), da Qatna ad Aleppo (in Siria), da Nimrud a Sippar (in Mesopotamia), da Troia da Hattusa (in Turchia), da Abido ad Amarna (di nuovo in Egitto) fino agli scavi sensazionali nel sottosuolo di Gerusalemme.
Evidenti fili conduttori legano i dodici capitoli del libro. Tutte le scoperte sono definite “leggendarie” non solo perché inattese e sorprendenti, ma perché molto innovative per metodologie usate e interpretazioni offerte. Non basta scavare – sottolinea Matthiae – ma bisogna comprendere e interpretare la massa di informazioni emerse dagli scavi al fine di creare un quadro complessivo della storia economica, sociale, politica, diplomatica, religiosa, artistica, letteraria e culturale delle civiltà riscoperte.
I dodici casi affrontati da Matthiae non possono essere qui riassunti. Converrà citarne uno. Il caso di Amarna. Amarna è il nome moderno di Akhetaton, la città della Valle del Nilo eretta da Amenohotep IV (1352-1336 a. C.), il visionario e rivoluzionario faraone che, assumendo il nome di Akhenaton, fondò un nuova religione dedicata al dio solare Aton. Quest’audacia riformatrice costò cara al faraone e alla sua città, perché dopo la sua morte i successori ripristinarono l’antica religione e ordinarono la distruzione dei templi di Aton e la cancellazione del nome del sovrano eretico da tutti i monumenti dell’Egitto.
La damnatio memoriae durò millenni, finché a partire dalla metà dell’Ottocento alcune missioni archeologiche tedesche, attratte da casuali rinvenimenti effettuati dai contadini della zona, iniziarono sistematiche campagne di scavo ad Amarna. Nella missione diretta da Ludwig Borchardt (1911-1913) vennero esplorati i quartieri residenziali di Akhetaton, e nella casa di Thutmose, l’artista più talentuoso dalla città, venne rinvenuta una specie di testa-modello da tenere in bottega e da usare per le repliche, che corrisponde allo splendido e celeberrimo busto di Nefertiti (moglie di Akhenaton), oggi vanto delle collezioni berlinesi e al cui fascino irresistibile continuiamo, muti ed esterrefatti, totalmente a soccombere.
Dalla terra alla storia.
Scoperte leggendarie di archeologia orientale
Paolo Matthiae
Einaudi, Torino, pagg. 568, € 48
Il Sole Domenica 17.6.18
Julia Kristeva
De Beauvoir.Quando la donna diventò soggetto
di Francesca Rigotti
Il prossimo anno ricorrerà il settantesimo dalla pubblicazione di Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir (1949), ma non è una cattiva idea cominciare fin d’ora a celebrarlo. Perché quel libro ha rappresentato un evento culturale, una svolta antropologica, una rivoluzione copernicana: con esso, grazie ad esso il soggetto donna si afferma sulla scena dalla quale non sarà più possibile cacciarlo via. E questo per merito di una filosofa e scrittrice, aristocratica, esistenzialista e comunista nonché femminista dell’uguaglianza, il cui status di autrice originale, col suo approccio che è una sintesi di esistenzialismo, hegelianesimo, marxismo e antropologia, si è finalmente consolidato dopo decenni di alterna fortuna.
Lo riconosce Julia Kristeva, migrante venuta da lontano non normalista francese, a sua volta femminista differenzialista e teorica della psicoanalisi, disciplina verso la quale Simone de Beauvoir non nascondeva la propria antipatia e diffidenza. Eppure la vita e l’opera di De Beauvoir (1908-1986) hanno rivoluzionato mentalità e costumi, imprimendo «un’accelerazione all’emancipazione del secondo sesso dopo millenni di dominazione patriarcale e maschile» - riconosce Kristeva in questa raccolta di saggi che invita a rileggere le pagine di una filosofa dalla scrittura romanzesca e di una scrittrice dall’argomentazione filosofica proprio nella nostra epoca polverizzata, nella quale parecchie donne sembrano riadagiarsi nel conformismo sociale.
Alcune correnti femministe rimproverano a De Beauvoir di aver insistito sul registro universale dell’eguaglianza finendo per non vedere, se non negare, il corpo femminile con le sue caratteristiche specifiche tra cui la maternità e l’omosessualità femminile. Eppure ciò non è sufficiente – ribatte proprio Kristeva – a cancellare l’importanza del pensiero di De Beauvoir oggi, non come passaggio storico superato ma in quanto presentificazione degli atti di affermazione del soggetto donna. Operazione che Simone de Beauvoir conduce, sottolinea Kristeva, nei saggi come pure attraverso i romanzi, nei quali la singolarità individuale dei personaggi si trasforma in universalità collettiva politica. Una sfida raccolta anche da Il secondo sesso, ove si invita a singolarizzare il politico e a politicizzare il singolare.
Il lascito di De Beauvoir a tutte le donne è in ogni caso il culto della libertà: la libertà è la sua stella polare, la libertà di Socrate, di Pascal, dell’Illuminismo, di Hegel, di Marx, di Arendt. La libertà che spetta alle donne se riusciranno a uscire dalla condizione di minorità per ottenere la piena eguaglianza, nella polifonia delle posizioni delle donne, femministe o meno, universaliste, differenzialiste, #me too, femen, non una di meno, e se non ora quando. Si potrebbe credere che per riconoscere questo ruolo fondamentale a Simone de Beauvoir Kristeva la spinga verso criteri differenzialisti che non erano i suoi; a me sembra invece che Kristeva rimanga sempre rispettosa e attenta alle peculiarità del pensiero di De Beauvoir di cui affronta persino i sogni, quelli di cui la scrittrice fa dono al lettore in A conti fatti: sogni di cadute e voli, di maternità e fughe e di fughe dalla maternità, nei quali si mostra la geniale capacità dell’autrice di svelare ciò che è più intimo conciliandolo con i disagi dell’epoca per trasformarli in priorità politiche.
Simone de Beauvoir.
La rivoluzione del femminile
Julia Kristeva
trad. di Alessandro Ciappa,
Donzelli, Roma, pagg. 140, € 19
Il Sole 17.6.18
Un nuovo filone di ricerca per neurologi, cardiologi e dermatologi
È l’euforia naturale firmata «dopamina»
di Nicoletta Carbone
Lo avevano già intuito i nostri nonni e oggi anche la ricerca lo conferma. Ridere non solo “fa buon sangue”, ma aiuta anche a vivere meglio. «Una risata - spiega Giuseppe Alfredo Iannoccari, neuropsicologo, docente alla Statale di Milano e presidente dell’associazione Assomensana - incentiva la produzione di endorfine che stimola la sensazione di stare bene». E stare bene con noi stessi ci fa sentire meglio anche con gli altri. «Il potere del ridere insieme infatti - racconta il presidente di Assomensana - crea sintonia emotiva tra le persone, rafforza i legami e favorisce un clima disteso e sereno». Ma non sono solo i rapporti personali a beneficiare degli effetti positivi del sorriso. Anche il cervello infatti ne viene coinvolto. «Nello specifico - dice Iannoccari - ridere attiva la creatività nell’emisfero destro, e in quello sinistro aumenta la capacità di risolvere i rompicapo».
Ma i vantaggi del sorriso non finiscono qui. Un atteggiamento positivo è una vera e propria palestra per le nostre arterie. «Studi osservazionali – spiega Pablo Werba, responsabile dell’Unità di Prevenzione Arteriosclerosi del Centro Cardiologico Monzino – hanno evidenziato che chi ride di più va incontro a meno problemi cardiovascolari, e studi prospettici lo hanno confermato: il Columbia University Medical Center di New York ha seguito circa 1.700 persone sane nel tempo; dopo dieci anni è stato appurato che nel gruppo delle persone con carattere più ottimista si sono verificati significativamente meno problemi cardiaci». Della serie una risata al giorno toglie il medico di torno? «È un dato che non possiamo sottovalutare e che ci spinge a proseguire in questo filone di ricerca. Intanto – continua l’esperto del Monzino – gli studi hanno già dimostrato i benefici del buonumore sui fattori di rischio cardiovascolare. Sappiamo infatti che ridere migliora la pressione arteriosa, contrasta la depressione, riduce le catecolamine (gli ormoni dello stress), aumenta le endorfine (quelli associati al benessere) e migliora la funzione dell’endotelio: le arterie dopo una risata si dilatano di più. Al contrario chi soffre di disturbi psicologici, soprattutto la depressione, va incontro in misura maggiore a malattie cardiovascolari» conclude Werba. Chi ha a cuore il proprio cuore dunque sorrida perché con quel piccolo movimento delle labbra all’insù lo facciamo stare bene. E a essere più ottimisti ci guadagna anche il nostro aspetto, perché ridere aiuta a ossigenare la pelle e a renderla più tonica.
«Quando ridiamo la pelle risplende, il volto è radioso e acceso» spiega Adele Sparavigna, dermatologa a Milano e Salerno e presidente di Derming, istituto di ricerca clinica e dermatologica. Ma dietro la sensazione di benessere ed euforia c’è una pura e semplice spiegazione chimica, la produzione di dopamina. «Nota a tutti come molecola della felicità, la dopamina è il neurotrasmettitore del piacere e della ricompensa e viene sintetizzata ogni qualvolta ci troviamo in una condizione particolarmente gradita e soddisfacente. A livello cutaneo stimola la microcircolazione e favorisce la funzionalità della barriera di superficie, per una pelle sana e dal colorito roseo e luminoso». Ridere dovrebbe quindi di buon grado essere tra i primi ingredienti di un prodotto cosmetico. «In effetti – conclude la dermatologa – recentemente si sta studiando il modo di addizionare ai prodotti skincare, particolari ingredienti o oli essenziali in grado di stimolare la produzione di dopamina. Si tratta della “neurocosmesi”, che presto diventerà realtà per tutti. Nel frattempo continuiamo a pensare positivo».
Il Sole Domenica 17.6.18
Astrochimica in Italia
Normale di Pisa: nuove ricerche sull’origine della vita
Scienza e ricerca hanno intrapreso un viaggio senza precdenti. Anche l’Italia protagonista
di Vincenzo BaroneDirettore della Scuola Normale Superiore di Pisa
(nell’immagine: la distribuzione della densutà gasssa all’interno di una galassia)
Astrochimica. Lo studio delle basi molecolari dell’universo può dare il via a rivoluzioni che oggi non riusciamo neanche a immaginare
Verso l’origine della vita
Negli ultimi anni in ambito aerospaziale è stata fatta una scoperta che mette in discussione la nostra visione della vita nel Cosmo. Esseri viventi vegetali, come i licheni, e non vegetali, come alcuni batteri o il plankton, organismi quindi relativamente complessi, hanno trovato il modo di sopravvivere in ambienti non terrestri: per esempio all’esterno della International Space Station in orbita intorno al nostro pianeta, oppure sul frontale delle lenti delle telecamere lunari o, ancora, in laboratorio, in condizioni che simulano quelle tipiche di Marte. Riescono cioè a resistere all’assenza di ossigeno e, più in generale, di atmosfera, all’esposizione massiccia ai raggi ultravioletti e alle radiazioni ionizzanti; fattori che finora ritenevamo fossero i principali “nemici” della vita così come la conosciamo noi, e come la pensiamo su sistemi planetari extra-solari.
Come è possibile tutto questo? Non ci è forse stato sempre detto che la sopravvivenza degli organismi viventi è possibile esclusivamente in presenza di un’atmosfera protettiva? Solo lo studio della chimica dell’universo, l’astrochimica, potrà dare una risposta a queste domande. L’astrochimica è il viaggio affascinante verso l’origine della vita che la scienza ha deciso di intraprendere da qualche anno. Adesso questo viaggio della scienza farà scalo per la prima volta anche in Italia, a Pisa, dove sta nascendo il centro STAR, una partnership tra Scuola Normale Superiore, Università Federico II di Napoli e Università di Bologna. STAR, acronimo di Systems and Theories for Astrochemical Research, cercherà di comprendere le basi molecolari dell’evoluzione dell’universo: la formazione di molecole nello spazio, l’aggregarsi in sistemi complessi, ma anche la loro trasformazione e distruzione, l’interazione con la radiazione elettromagnetica. Lo scorso anno è stata osservata nello spazio intersiderale la prima molecola “chirale” (cioè non sovrapponibile alla propria immagine speculare, come sono le nostre mani), il metilossirano. Sappiamo che condizione necessaria all’affermarsi della vita è proprio la rottura della simmetria nelle biomolecole, cioè la chiralità. In altre parole, l’eccessiva simmetria non genera vita. Ancora prima su alcune meteoriti erano state rilevate tracce di glicina, il più semplice degli amminoacidi, cioè i mattoni fondamentali di molte biomolecole complesse, in particolare delle proteine. La glicina, però, presenta un problema affascinante: è l’unico amminoacido non chirale e va dunque capito come possa essere avvenuta la rottura della simmetria per la creazione della vita. Queste scoperte sono passi decisivi in direzione della scoperta dell’origine della vita nell’universo, come si sia sviluppata e trasmessa, una delle domande più affascinanti che l’uomo si sia mai posto. Un filosofo della scienza, Ashutosh Jogalekar, ha scritto che «i fisici hanno il loro Big Bang, i biologi hanno l’evoluzione per selezione naturale... L’origine della vita è la grande idea dei chimici, un piatto di prelibatezze interdisciplinari che affronta sia importanti enigmi chimici sia profonde filosofie».
Ma perché è importante dedicarsi a questo ambito? Cosa ci spinge a investire in questo tipo di studi che non hanno un ritorno immediato in termini economici, quando ormai sembra che l’accademia italiana (e internazionale) debba privilegiare solo ciò che può immediatamente tradursi in mercato e tecnologia? Non è solo l’impulso a varcare le colonne d’Ercole della conoscenza che ha spinto la Normale a fondare il centro STAR (che, tra parentesi, metterà a bando già da ora alcune borse di dottorato). C’è anche un altro aspetto, che riguarda una fetta consistente dell’accademia e della scuola Italiana: se continuare a dare o meno importanza alle discipline “pure”, come la matematica, la fisica, la chimica, e di ambito umanistico, oppure privilegiare esclusivamente le discipline “applicate”, accodandoci definitivamente alla moda anglosassone, così come alle università asiatiche. Dobbiamo disconoscere la nostra stessa identità, rinunciando a discipline che costruiscono capacità interpretative dei dati e, soprattutto, capacità di spingere il limite un po’ più in là, immaginando scenari non ancora visibili, disegnando un orizzonte verso il quale muoverci e identificando problemi sui quali cercare dati, oppure dobbiamo continuare ancora a puntare su di essa anche per il nostro futuro?
La Scuola Normale, che contempla quasi esclusivamente ambiti disciplinari “teorici”, quale ruolo può avere nel contesto universitario italiano, in cui gli investimenti sono sempre più determinati da programmi governativi incentrati su progetti industriali?
A mio parere, indagini apparentemente sganciate da un ritorno economico immediato sono invece quelle che in una scala temporale più lunga sono più redditizie.
Pensiamo a internet, che nasce perché abbiamo saputo incanalare reti di dati in linguaggi “trascrivibili”. Alla base di internet c'è la matematica, dunque una disciplina “pura”, e teorie nate dal Settecento in poi. Pensiamo alla telefonia, possibile grazie alle scoperte sull’elettromagnetismo, dunque sostanzialmente della fisica dell’Otto e Novecento.
La ricerca sull’astrochimica, che è un mix di chimica e fisica degli astri, a che cosa ci condurrà? Al momento non lo sappiamo, ma tra 50 anni potrebbe dare il via a rivoluzioni che adesso non siamo in grado neanche di immaginare. È questo il punto: se dedicarsi esclusivamente al mondo che conosciamo, all’utile, e condannarsi alla miopia, oppure scommettere su quello che sembra visionario, forse inutile, ma che potrebbe far scaturire cambiamenti epocali. O darci via di fuga.
STAR inizia le sue attività con più modeste ambizioni. Confronteremo dati che arrivano dai moderni strumenti di osservazione delle cosiddette iCOM, l’acronimo inglese che identifica le molecole organiche complesse interstellari. Grazie ai grandi progressi nella modellizzazione della fase gas e della chimica di superficie, attraverso i lavori di laboratorio e i calcoli di chimica quantistica, oggi infatti abbiamo nuovi strumenti per studiare le vie di formazione degli iCOM nello spazio, che rappresentano gli elementi costitutivi delle molecole pre-biotiche. Ma da questo confronto di dati e dalle proiezioni teoriche che siamo in grado di fare con la nostra strumentazione ci attendiamo qualche notizia in più.
Tornando agli scenari possibili dovuti alla scoperta della resistenza di certi organismi alle condizioni fisiche presenti nello spazio, le implicazioni potrebbero essere affascinanti: i progenitori di questi organismi potrebbero essersi sviluppati direttamente sulla Terra, ma in un ambiente del tutto diverso da quello in cui ritenevamo avesse avuto origine la vita; oppure possiamo persino arrivare a immaginare che questi nostri lontanissimi antenati siano arrivati da fuori, da qualche altro luogo dell’universo, trasportati da meteoriti o detriti atterrati sulla Terra, e qui si siano poi adattati a vivere.
Sia in un caso che nell’altro, è evidente che la complessità chimica della nostra galassia è probabilmente molto maggiore di quella che si riteneva solo fino a qualche anno fa e che la vita, così come la conosciamo, non solo è possibile altrove, ma sarebbe forse teoricamente “ricostruibile” altrove. A questo tipo di sfide luoghi come la Scuola Normale guardano e continueranno a guardare: per provare a disegnare gli orizzonti verso cui camminare e identificare, con anticipo, i territori della ricerca applicata.
Il Sole Domenica 17.6.18
A colloquio con Amos Oz. Il «bisturi» dei letterati è la curiosità e il sapersi immedesimare negli altri
Gli strumenti di un grande scrittore
di Giulio Busi
«Subito» non è una parola che gli piaccia. Se vi sedete al tornio della scrittura, e cominciate a dar forma a un racconto, vi accorgerete di quanto tempo ci voglia. Un movimento dopo l’altro, con fatica, lentamente, la ruota delle parole scava nei suoni, nell’animo, negli eventi. Un personaggio nasce frase dopo frase, un rammarico dopo l’altro, una sconfitta che segue la successiva. Il martello del «subito» non è tra gli strumenti di un grande scrittore.
Amos Oz ha una bella voce profonda. Mi risponde dalla sua casa di Tel Aviv. Io sono a Berlino, in una stanza del campus universitario di Dahlem. Per superare la distanza geografica basta il telefono. Due città possono essere però distanti in molti modi. Non è facile andare da Berlino a Tel Aviv nella storia. O forse, non è facile andarci «subito». Credo che sia per questo che Oz comincia il nostro colloquio parlando di rivoluzioni. E lo fa con una professione di fede. Anzi, di non fede. «In politica, nel mio lavoro letterario, non sono un rivoluzionario», mi dice con tono pacato. E poi, con un guizzo d’ironia, aggiunge: «Anche se nel mio paese molti mi considerano un rivoluzionario pericoloso. Chi non lo è, un pericoloso agitapopolo, negli occhi di qualcuno, là fuori nell’oscurità?» È bastato un attimo e la frase ha attraversato politica, letteratura, Israele, per finire nel dissidio tra l’io e i molti, e approdare al buio dei sospetti, del si dice. Mi viene alla mente l’oscurità del deserto, che in qualche pagina memorabile di Oz avvolge, attenua, redime il teatro delle passioni. Cos’ha a che fare la letteratura con la rivoluzione? Oz mi risponde con un filosofo. Il vecchio Kant risuona familiare qui, nella luce di Berlino, anche se la sua frase mi giunge adesso da quell’altra, distante luce di Tel Aviv: «Da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto». Penso mentalmente che l’originale tedesco suona ancora più nodoso: «Aus so krummem Holze». È una stortura antica, irrimediabile, stupefacente. Un difetto di natura, quello di un legno piegato, trovato così com’è, che bisogna usare in mancanza di meglio. Oz non lo dice al telefono - la nostra non è una dissertazione ma una chiacchierata informale - ma nella sentenza di Kant si nasconde una frase ancora più antica, che viene proprio dalla storia ebraica: «Ciò che è storto non si può raddrizzare e ciò che manca non si può contare». Non l’ha affermato forse Qohelet? In tutta la sua sapienza, saggio di giorni, affranto di esperienze, l'Eccelesiaste si è fermato, anche lui, a raccogliere un legno storto. Ha soppesato l’uomo, l’ha osservato con la più profonda attenzione, senza scartarlo, senza lodarlo, senza immaginarselo diverso da com’è. Amos Oz non sceglie la strada della Bibbia, che pure avrebbe a portata di mano. Da Kant passa a Isaiah Berlin, il pensatore politico e sociale che tanto ha influenzato il secondo Novecento. Sì, il cognome suona come la città, quella in cui ora mi trovo. Berlin, con il suo fulmineo senso dell’ironia, si sarebbe sicuramente divertito per il bisticcio. Un ebraista italiano che da Berlino discorre di rivoluzioni con uno scrittore israeliano che cita un pensatore di nome Berlin… Non ci sono coincidenze nella vita.
La coincidenza è la vita. Il legno storto dell'umanità, è il titolo di una celebre raccolta di saggi di Isaiah Berlin. Con il bastone storto, Berlin ha bacchettato i promettitori di tutto e niente, i rovesciatori di futuro che, nella storia convulsa del XX secolo, hanno rovesciato la ragione in violenza e terrore. Amos Oz continua: «L’idea che si possa compiere un’operazione chirurgica e rimuovere l’egoismo, sradicare le ambizioni, cancellare le gelosie, è semplicemente infantile». Ma allora, mi chiedo e gli chiedo, perché scrivere? Se uno scrittore non può operare come un chirurgo, che possibilità ha di guarire, di risanare se stesso e gli altri? Il bisturi dello scrittore, mi dice Oz, si chiama curiosità. «La curiosità non è solo uno strumento intellettuale. È un dovere morale. Una persona curiosa è anche una persona un poco migliore». È questo ciò che lui chiama il «dono della letteratura». Non vuol saperne di un ruolo o di funzioni sociali dello scrittore. Gli basta avere il carisma antico della curiosità, della capacità di mettersi nella pelle dei personaggi, di entrare nei corpi e nelle menti degli altri, di muoversi come loro, di pensare e di agire come se fosse nei loro panni. Mentre Amos Oz parla, mi passano davanti agli occhi alcune azioni dei suoi libri, i monologhi, i paesaggi pietrosi, il contrasto tra il mondo ordinato e urbano e la sfrangiata libertà dei luoghi inabitati. «La letteratura è un invito – continua Oz. Prendi il posto altrui, mimetizzati, prova come ci si senta in paesaggi estranei». Impara com’è bello essere diversi. O com’è pauroso, soffocante, storto. Eccolo di nuovo, il legno storto. All’inizio della nostra chiacchierata, la metafora mi ha messo un po’ a disagio, per il pessimismo che credevo contenesse. Se non si può raddrizzare nulla, che senso ha affaticarsi tanto? C’è voluto un po’ di tempo. Lentamente, il pensiero di Oz s’è dipanato. Il legno storto è il messaggio, l’oggetto, la trama, la descrizione. Non c’è un altro legno possibile, così come non c’è una lingua che non batta ritmicamente sui nodi, sulle tortuosità e sui serpeggiamenti. La curiosità dello scrittore, dell’uomo, del politico, prende in mano il legno con cautela. Non lo si può sforzare, altrimenti si spezza irrimediabilmente.
È così e non altrimenti, ma proprio per questo è importante descriverlo, in tutte le sue imperfezioni. «Immagina di essere in un tempo diverso, in un altro luogo, in una discordante situazione. Non per sacrificarti, ma per incontrare l’altro a metà strada». Questo, secondo Amos Oz, è il dono della letteratura. Non è un sacrificio né una costrizione. Né una rivoluzione. Chi ha fretta lasci perdere novelle, romanzi, poesie. Si scelga dei bei bastoni diritti e non stia tanto a cavillare su dolori, sentimenti, dubbi. Ammesso che un legno così, senza nemmeno un nodo, lo si possa mai trovare. A Tel Aviv, a Berlino, nel mondo intero.
Il Sole Domenica 17.6.18
In fuga dal tempo arido e mediocre
Saggistica. Omero, Cicerone, Virgilio. Oppure Corneille, Racine, Moliére. Sono gli amici intimi di Marc Fumaroli, esule volontario nella «Repubblica delle lettere», animato da un dichiarato rigetto verso i miti della modernità
di Lina Bolzoni
Ci può essere un legame molto forte tra autobiografia e ricerca, tra i ricordi dell’infanzia e quello che si decide di studiare, di far rivivere nei propri libri. È il caso di Marc Fumaroli, già professore di Retorica e società in Europa al Collège de France, membro dell’Académie francese e di molte altre accademie, fra cui l’Accademia Nazionale dei Lincei. Ce lo testimonia il suo ultimo libro, la poderosa raccolta di saggi che Adelphi, suo fedele editore italiano, ha pubblicato di recente e che reca il titolo di La repubblica delle lettere. «All’esterno, - leggiamo nella Prefazione- sono vissuto nell’epoca in cui l’espressione “Repubblica delle Lettere” sta a indicare, più o meno ironicamente, la piccola scacchiera esclusivamente parigina o festivaliera, sempre alquanto agitata, in cui le pedine della sfida annuale sono rappresentate da centinaia di romanzi, e la vittoria da decine di premi letterari. Interiormente, sono malgrado tutto vissuto, per più di mezzo secolo, in compagnia di pochi amici intimi…in una Repubblica europea delle Lettere di tutt’altro genere e di tutt’altra epoca». Di questi amici intimi fanno parte i grandi scrittori classici, quella piccola biblioteca, altamente selezionata, che la madre aveva portato con sé in Marocco, dove Fumaroli è cresciuto: «Sono state le mie prime letture.- ha raccontato in una intervista al Venerdì di Repubblica- Mi sono sentito salvato da Omero, Cicerone, Virgilio, oppure Corneille, Racine, Molière, senza accorgermi che erano così démodé. Per me non erano, e non sono tuttora personaggi defunti, lontani nel tempo. Sono contemporanei, e la consolazione di chi è nato tardi, nell’epoca sbagliata. La mia cittadinanza letteraria mi ha salvato dal sentimento di decadenza provocato dal tempo arido e mediocre nel quale siamo immersi».
È un ritratto fedele dello spirito che anima i diversi saggi, le varie incursioni in opere e personaggi più o meno noti. C’è il senso di un distacco dal presente, c’è una visione molto critica verso il mondo moderno che cerca conforto nel passato e che in questo modo vuol rendere consapevoli dei prezzi pagati al progresso, di quanto si è perso o trascurato. Vengono in mente, leggendo le parole che Fumaroli dedica alla sua amicizia con personaggi di altri tempi, alcuni celebri passi di Petrarca, che si sente in esilio dal proprio tempo e nelle Familiares racconta che Cicerone è lieto di andare con lui a Valchiusa e che là, nello spazio magico della sua biblioteca, egli può conversare con gli amici migliori che tutte le età e tutti i paesi gli hanno inviato. Anche per i diversi protagonisti della Repubblica delle Lettere che Fumaroli ci presenta, infatti, essenziale è il rapporto con il mondo classico e Petrarca è punto di riferimento fondamentale per gli umanisti. A uno di loro, il veneziano Francesco Barbaro, leggiamo, risale l’invenzione, nel 1417, dell’espressione Respublica litteraria: la usa in una lettera indirizzata a Poggio Bracciolini, prendendo come modello la Respublica christiana della tradizione medioevale.
Nell’Europa di Ancien Régime, caratterizzata da sistemi politici certo non caratterizzati dalla democrazia, Fumaroli ripercorre le tracce, ridisegna i volti di una società di uguali e di amici, di persone legate fra loro da forti legami di amicizia e dal culto delle lettere, una specie di confraternita internazionale di missionari umanistici, che praticano un intenso scambio epistolare, che coltivano il dialogo e l’arte della conversazione, che viaggiano molto e si accolgono e si sostengono a vicenda, che trovano nei circoli e nelle Accademie le loro istituzioni ideali. Le loro capitali si ridispongono via via sullo scacchiere europeo: da Firenze, a Roma, a Venezia, a Parigi. È uno sguardo attento e fortemente selettivo quello che anima queste pagine, dove il confronto col passato è animato da una forte diffidenza, spesso da un dichiarato rigetto verso i miti della modernità. Così ad esempio Fumaroli prende le mosse da un celebre libro di Elizabeth Eisenstein, The Printing Press as an Agent of Change, uscito nel 1979 e tradotto in Italia dal Mulino (La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento)per sostenere che «con il pretesto di celebrare i vantaggi rivoluzionari della stampa e del libro stampato, poneva le basi di un’altra apologetica, quella dei nuovi media che stavano sorgendo in America e quella di Internet, ancora poco nota negli anni Ottanta». È in questa prospettiva che acquistano un senso polemico e contemporaneo le pagine in cui sono puntualmente registrate le resistenze che la diffusione del libro a stampa registra presso gli umanisti, in nome della qualità contrapposta ai rischi della quantità.
È un panorama molto ricco quello che il libro ci presenta, a cui non possiamo che invitare i lettori. Ci limiteremo qui a ricordare alcuni eroi di questa storia, di cui l’autore rivendica con orgoglio la riscoperta, al di là di una storiografia che l’ha a lungo ignorata o sottovaluta. Ad esempio Aldo Manuzio, il grande editore veneziano che ricrea la biblioteca antica e celebra con grande consapevolezza il senso della propria opera nelle dediche dei vari libri; oppure Erasmo, il principe della Repubblica delle Lettere, che ne sancisce la dimensione europea e la tiene unita al di là delle divisioni religiose; oppure ancora Nicolas Claude Fabri de Peiresc, suo “procuratore generale”, che «incoraggiava gli autori, forniva loro lumi e materiali, usava il proprio denaro per fare acquistare le opere antiche più rare e più utili», e morì esaltato dai dotti di diversi paesi, celebrato dalla Accademia romana degli Umoristi, «sconosciuto a molti francesi, anche importanti e dotti», come scrive nella voce a lui dedicata nel suo Dizionario storico e critico Pierre Bayle, il pensatore fuggito dalla Francia per motivi religiosi, che pubblica a Amsterdam le Nouvelles de la République des Lettres.
Tornano in questo libro alcuni dei temi che hanno caratterizzato la ricca produzione di Fumaroli. Ad esempio la riscoperta di una Repubblica delle Lettere che ha avuto come propria lingua il latino umanistico comporta la messa in luce di opere che sono state a lungo trascurate, proprio perché scritte in neolatino, come Argenis, il romanzo allegorico in latino che John Barclay pubblica a Parigi nel 1621 e che era fra le letture predilette di Richelieu. E soprattutto la rivendicazione dell’importanza della retorica, del ruolo centrale che ha svolto nell’Ancien régime. Che l’arte dell’eloquenza sia per Fumaroli tuttora vitale lo sa bene chi ha avuto il piacere di ascoltarlo: la pratica come i classici che gli sono cari.
La Repubblica delle lettere
Marc Fumaroli
Adelphi, Milano, pagg. 460, € 32
Il Sole Domenica 17.6.18
Misticismo
Simone Weil e il Dio che abdica al divino
di Armando Torno
Simone Weil, nata a Parigi in una famiglia dell’alta borghesia ebraica nel 1909 e morta a soli trentaquattro anni in Inghilterra, ad Ashford, è considerata una delle figure più fascinose della cultura del Novecento. Anche se i suoi libri da noi uscirono, sino alle iniziative dell’editore Adelphi, quasi con la sordina, giacché non fu autrice collocabile tra quelle politicamente gradite. La tragedia in tre atti Venezia salva, nella versione di Cristina Campo, vedeva la luce da Morcelliana nel 1963 ma se ne accorsero anime isolate. Poi la Weil entrò nel catalogo di Borla, casa editrice diretta dal 1966 al 1969 da Alfredo Cattabiani, che avviò la collana Documenti di cultura moderna, curata da Augusto Del Noce ed Elémire Zolla. In essa nel 1967 uscì un testo rilevante di Simone, La Grecia e le intuizioni precristiane.
Tuttavia, i nomi citati appartenevano a una cultura non particolarmente gradita; anzi, per taluni si potevano considerare dei reazionari. La Weil pagò lo scotto e gli “impegnati” sentirono crescere il loro disagio quando nacque la Rusconi Libri, alla direzione della quale nel 1969 fu chiamato Cattabiani. Ancora lui! La Weil entrava nel catalogo con titoli come Attesa di Dio (1972), già pubblicato da Casini nel 1954, ma che in quel momento assumeva altri significati. Aveva fatto l’operaia? Diviso il suo stipendio con i disoccupati? Era stata sindacalista e collaboratrice con riviste di sinistra? Si preferì dimenticare tutto questo e anche altro; piuttosto destava sospetto il suo misticismo, l'amore per filosofie allora guardate in cagnesco o le religioni orientali. I Quaderni (tradotti da Adelphi) sono gremiti di spunti religiosi che richiamano tesi della Cabbala o degli gnostici.
Il discorso sulla fortuna in Italia di Simone Weil riflette partigianerie e piccolezze; quel poco accennato desidera rendere omaggio, dopo non poche incomprensioni, a una figura di primaria grandezza. A essa Giancarlo Gaeta, massimo esperto e tra i migliori curatori delle sue opere, ha ora dedicato un saggio: Leggere Simone Weil. E a proposito di Venezia salva egli scrive che può essere considerata l’equivalente moderno dell’Antigone di Sofocle: due tragedie del potere, «e in quanto tali senza via d’uscita».
Gaeta accompagna il lettore nelle molteplici situazioni vissute dalla scrittrice. Dai banchi di scuola sino all’influsso di un pensatore come Alain, dagli ideali per una società libera al radicamento nella politica questo conoscitore della Weil documenta un’esistenza densissima con la quale lei cercò di «far si che il soprannaturale possa circolare nel tessuto sociale in modo da nutrire i rapporti umani e le espressioni del pensiero in tutte le sue forme» (p. 249).
Storico del cristianesimo, Gaeta ha posto in luce il desiderio della Weil di essere riconosciuta dalla Chiesa come credente, ma «senza aderirvi». E informa puntualmente sui tormentati colloqui che si svolsero con amici religiosi, il problema del battesimo, altre questioni “sulla soglia della Chiesa”.
Chi scrive, più semplicemente, ha sempre subito il fascino del concetto di “decreazione”, presente nell’ultima Weil. È un paradigma cosmologico e morale con cui poteva spiegare molte contraddizioni del mondo reale. Accogliere la “decreazione” diventa conseguenza inevitabile dell’atto creativo, inteso come una sorta di abbandono. Scrive la Weil: «Creando ciò che è altro da Lui, Dio l’ha necessariamente abbandonato. La creazione è abdicazione». E ancora, con un affondo: «Dio si è svuotato della sua divinità e ci ha riempito di una falsa divinità. Svuotiamoci di essa. Questo atto è il fine dell’atto che ci ha creati».
Leggere Simone Weil
Giancarlo Gaeta
Quodlibet, Macerata, pagg. 320, € 22
Il Sole Domenica 17.6.18
E la bellezza diventò politica
Toni Morrison. Un Meridiano celebra la scrittrice afroamericana che ha saputo usare la grande letteratura come strumento di denuncia della condizione dei neri senza snaturarla
di Lara Ricci
«La grande letteratura non può essere impegnata», «l’arte deve essere gratuita», «la politica inquina la produzione estetica»: sono alcune delle affermazioni da cui devono difendersi ancora oggi gli autori africani o afroamericani che si confrontano con lo sfruttamento, la colonizzazione, lo schiavismo e in generale tutti quegli scrittori impegnati contro le discriminazioni razziali, sociali, sessuali oppure a descrivere un passato o presente di ingiustizie.
Negli anni Cinquanta, quando Toni Morrison era una studentessa alla Howard University, la situazione era ancora peggiore: solo il fatto che l’autore o il suo personaggio avessero la pelle nera condannava il romanzo a un’analisi esclusivamente politica del suo valore. Eppure, con una mossa tutt’oggi non sufficientemente sottolineata, nel momento stesso in cui si accinge a diventare un’icona della letteratura afroamericana, Morrison pone le basi per non esservi relegata. Non lo fa sminuendo o mettendo in secondo piano il suo impegno politico, che anzi sbandiera, lo fa ribaltando la questione: chiedendosi se non sia l’estetica a inquinare la politica, addirittura l’etica, domanda che le permette di indagare la natura stessa di politica ed estetica e le fornisce un grimaldello per accedere alla grande letteratura.
Il ribaltamento di prospettiva è già presente nel primo romanzo, in cui il futuro premio Nobel mostra di avere chiara consapevolezza di come la bellezza sia, o possa diventare, una questione squisitamente politica. «I Breedlove non vivevano in un negozio per via di difficoltà temporanee dovute ai tagli della manodopera in fabbrica. Vivevano lì perché erano poveri e neri e vi restavano perché pensavano di essere brutti»: afferma l’allora trentanovenne Morrison in L’occhio più blu (1970).
Nel descrivere il padre Cholly (la cui bruttezza era una «conseguenza della disperazione, della dissipazione e della violenza verso cose insignificanti e persone deboli») e Pecola cui invece, come alla madre e al fratello, la bruttezza non apparteneva, la indossava soltanto, l’autrice lascia poi intendere di non sottovalutare le relazioni pericolose che legano etica ed estetica, la conoscenza emotiva e il pensiero razionale.
«Ritengo che l’arte migliore sia politica, e che si debba riuscire a renderla al contempo indubbiamente politica e irrevocabilmente bella» affermerà successivamente nel saggio Rootedness: The Ancestor as Foundation del 1984, prendendo il diavolo per le corna. «Perché, se quando scrivo romanzi, non parlo del villaggio, della comunità o di voi, allora non parlo di niente» aggiungerà ancora. Poi, con ironia sorniona, sottolineerà nella prefazione Vintage all’edizione di Sula come la convinzione che la narrativa politica non sia arte «non apparteneva a Chaucer, a Dante, a Catullo, a Sofocle o a Shakespeare».
Consapevole dell’effetto di sottomissione e colpevolizzazione che la cultura e i canoni estetici dei dominatori bianchi producevano sulla popolazione nera privata di una memoria e di un sapere dalla deportazione, dalla vendita dei figli, dalla cancellazione dei nomi, dei paesi e delle lingue d’origine che aveva seguito la riduzione in schiavitù, a Morrison è apparso subito chiaro come per scardinare il pregiudizio razziale che aveva intaccato la stessa comunità afroamericana fosse necessario passare attraverso la rifondazione di un’estetica e di una cultura nera. Meticolosamente cercherà dunque di recuperare le origini tramite un lavoro di studio, valorizzazione e riformulazione delle slave narratives, i racconti degli schiavi; di raccolta degli articoli di giornale, delle canzoni, dei rituali; tramite la ricerca di uno stile e una lingua (indimenticabili) che non avrebbero tradito ma anzi valorizzato la tradizione orale e lo slang afroamericano. Tentando infine anche di inglobare nella sua narrativa l’estetica della musica nera, esperimento che culminerà con Jazz, «un libro che non si legge ma si ascolta», che «non ha un accordo finale» perché - spiega - «questo è il motivo per cui il jazz tiene gli ascoltatori appollaiati sul bordo delle sedie, in spasmodica attesa. C’è sempre qualcos’altro che vorresti da quella musica».
Da L’Occhio più blu e Sula, in cui è descritta la vita nella prima metà del ’900, al Canto di Solomon in cui l’ambientazione passa dal Nord industriale al Sud rurale, ancestrale e mitologico, a Beloved che fa parte della trilogia che con Jazz e Paradise si estende dalla guerra di secessione ai diritti civili, fino a Il dono (A mercy ) in cui la storia si svolge alla fine del ’600 o all’ultimissimo Prima i bambini, che ha luogo ai giorni nostri, Morrison ha cercato di colmare con la narrativa gli abissi di dimenticanza e di follia lasciati dallo schiavismo. Del resto l’esergo del Canto di Solomon (1977): «Possano i padri alzarsi in volo e i figli conoscere il proprio nome» - come fa il bisnonno del protagonista Milkman, uno schiavo sfuggito alle catene e tornato volando in Africa - è una dichiarazione d’intenti politica ma anche poetica, un inno alla letteratura e al suo valore etico e politico che trasforma il lettore nero in un uomo capace di librarsi e riappropriarsi delle origini, della cultura e dell’identità che non solo la cultura e l’estetica bianca avevano estirpato, ma anche perfuso di un alone di bruttezza e bestialità.
Profondamente conscia della forza della bellezza, e dell’arte che ne è la sublimazione, Morrison ne fa un uso doppiamente sapiente nella sua narrazione. È infatti attraverso la magnificenza della natura descritta con un lirismo che commuove fino alle lacrime (mentre la brutalità dei gesti è raccontata con espressioni scarne perché «i neri non si prendono sul serio», per andare avanti, e per «l’orgoglio potente dei maltrattati») che l’autrice fa esplodere il contrasto tra la miseria dei protagonisti e la bellezza che sono, siamo, in grado di riconoscere; tra la realtà e ciò che potrebbe essere. Ed è qui, di nuovo, in questo scarto, che la politica ritorna in gioco. L’estetica chiama la politica, fa immaginare un mondo migliore, possibile.
Rileggendo L’occhio più blu, Sula, Il canto di Solomon, Beloved, Jazz e Il dono, romanzi ora riuniti in un Meridiano (curato da Alessandro Portelli, con uno scritto di Marisa Bulgheroni e le splendide traduzioni di Franca Cavagnoli, Silvia Fornasiero, Chiara Spallino) che finalmente celebra, per volontà di Renata Colorni, una scrittrice ancora sottovalutata in Italia pur essendo ormai un classico, si rimane stregati. Stregati di fronte alla maestria con cui Morrison ha saputo utilizzare la storia dei neri d’America non solo per imprimere indelebilmente nella memoria «che questo è stato», ma anche per farci capire cos’è l’uomo (come del resto aveva fatto Primo Levi), impiegando ad esempio la riflessione sugli effetti della violenza inaudita dello schiavismo che portò una madre a uccidere i figli per proteggerli - storia vera che ispirò Beloved - per indagare il senso di stare al mondo e l’amore, quello tra madre e figli in particolare, i suoi modi e i suoi limiti, forse pure quelli del devastante paternalismo dei bianchi, mossi, anche, da un mal riposto senso di superiorità morale. Del resto lo scrittore nero è costretto a capire le motivazioni del bianco per non ripeterne l’errore: la disumanizzazione dell’altro. Per quanto atroce può essere ciò che ha compiuto il bianco, chi lo ha causato deve restare nei limiti dell’umano. Necessità di inclusione che non ha fatto che approfondire l’indagine di Morrison, aumentandone, fra l’altro, la portata politica.
E forse il lascito maggiore di questa scrittrice, in un’epoca in cui gli intellettuali hanno abdicato al ruolo di interpreti della realtà in nome di una terzietà della letteratura e dell’arte tanto ridicola quanto ipocrita, sarà proprio l’averci richiamato all’importanza dell’impegno politico, che non significa avere una tesi precostituita e piegare l’arte per dimostrarla, ma usare tutti i mezzi che il cervello razionale ed emotivo ci offre per capire il mondo e l’uomo ed agire di conseguenza.
Romanzi
Toni Morrison
a cura di A. Portelli, con uno scritto
di M. Bulgheroni, trad. di F. Cavagnoli,
S. Fornasiero, C. Spallino Rocca,
Meridiani, Mondadori, pagg. 1664, € 80
Il Sole Domenica 17.6.18
Francesco Malgaroli
Tra i vivi e i non morti, raccontare l’ictus
di Raffaele Liucci
«Uno sparo nel buio, all’improvviso». Quando alla fine del 2003 il giornalista Francesco Malgaroli viene colpito a poco più di quarant’anni da un ictus devastante, si risveglia prigioniero di una campana di vetro dalla quale non può chiamare aiuto. La mente è lucida, il mondo là fuori risplende cristallino, ma le parole per interpretarlo e comunicare con gli altri sono scomparse. Un ronzio sordo e monotono risuona ininterrottamente dentro la sua testa, soffocando ogni voce.
Il ritorno alla vita, narrato in questo memoir, assomiglia a un «tuffo senza fine e senza sponde a cui aggrapparsi». Nessun logopedista, per quanto bravo, potrà guarirti magicamente dalle piaghe che ti porti addosso. Piaghe visibili: l’andatura claudicante, lo sguardo perso nel vuoto, il ghigno sulla bocca. E invisibili: «Difficile da comprendere, da spiegare, l’afasia è inafferrabile. C’è. È silenziosa. E riduce al silenzio». Può migliorare, persino scomparire, ma anche riaffacciarsi a tradimento.
Forse non riusciremo mai a penetrare i pensieri che rimbalzano nella mente di quanti sono colpiti da un ictus. Eppure Malgaroli cerca di colmare questo fossato tra i vivi e i non morti, aprendoci, giorno dopo giorno, il suo universo interiore durante l’estenuante riabilitazione. È come se un torrente in piena avesse spazzato via il puzzle della tua esistenza. Ogni mattina riaffiorano brandelli sparsi e lesionati, che occorre rimettere faticosamente insieme: «Ero una specie di archeologo in cerca della memoria perduta». Si dice che il cervello sia come una spugna, capace di assorbire tutto, ma dopo un ictus è solo una tabula rasa, da riempire daccapo, senza però l’agilità cerebrale di uno scolaro adolescente.In una società sempre più veloce e iperconnessa, in cui si vive con l’orologio alla tempia, il reduce da un ictus riscopre, suo malgrado, la lentezza. Nessun salto in avanti, nessun «grande balzo» verso la guarigione, solo l’attesa di un infinitesimale progresso. Per amici e parenti è arduo adeguarsi al suo nuovo «passo». Gli unici a proprio agio sembrano i compagni quadrupedi, forse i soli acconci a ritmi di vita più umani: una cagnetta bastardina, una gatta di grondaia e un paio di felini casalinghi. Per un giornalista come Malgaroli, perdere le parole ha significato anche smarrire il senso della scrittura. Riappropriarsene è stato ancor più penoso che ricominciare a parlare, come testimoniano i brogliacci dei suoi esercizi di riabilitazione (qui riprodotti). Ha dovuto rassegnarsi a fissare sulla carta, nei momenti di massima ispirazione, solo due o tre frasi smozzicate al giorno, magari prive di senso compiuto. Per scrivere il primo vero articolo, riga dopo riga, ha impiegato un paio di mesi, forse tre. Il dattiloscritto di quel pezzo ci appare come un bagliore nella tenebra dalla quale Malgaroli è alfine uscito, visto che oggi possiamo leggere il racconto compiuto della sua lunga, vittoriosa, ma non trionfale impresa.
Passo
Francesco Malgaroli
Robin Edizioni, Torino, pagg. 281, € 15
Il Sole Domenica 17.6.18
La mutevolezza dell’essere
Michel de Montaigne. Un libro pieno di sapienza: Nicola Panichi esamina il pensiero che conferma l’«imaginativa», l’alterità e l’altrove dello spirito umano tra bizzarria e bellezza
di Carlo Ossola
«Non abbiamo alcuna comunicazione con l’essere, poiché ogni natura umana è sempre a metà tra il nascere e il morire, non manifestando di sé che un’oscura apparenza e un’ombra, e un’opinione incerta e debole. E se, per caso, fissate il vostro pensiero per voler afferrare il suo essere, sarà né più né meno che se voleste afferrare l’acqua: poiché quanto più esso serrerà e stringerà ciò che per sua natura cola via dappertutto, tanto più perderà ciò che voleva tenere e stringere in pugno. Così, essendo tutte le cose soggette a passare da un cambiamento all’altro, la ragione, cercandovi una reale consistenza, si trova delusa, non potendo afferrar nulla di consistente e permanente» (Montaigne, Saggi, II, XII: Apologie de Raimond Sebond, nella traduzione di Fausta Garavini).
Il meditato e articolatissimo volume di Nicola Panichi si fonda su questa costante attenzione di Montaigne non tanto alla nostra «incostanza» (che è una delle conseguenze) ma alla mutevolezza del nostro essere-qui; tutta l’Apologia citata è un continuo ricorso ai limiti della nostra mutevolezza: «Quel venerabile senato dell’Areopago giudicava di notte, per paura che la vista delle parti in causa corrompesse la sua giustizia. Perfino l’aria e la serenità del cielo causano in noi dei cambiamenti. […] Del resto questa malattia non si scopre tanto facilmente, se non è proprio gravissima e irrimediabile: poiché la ragione va sempre storta e zoppicante e sciancata, e con la menzogna e con la verità. Così è difficile scoprire il suo errore e traviamento» (Saggi, II, XII).
Da Ovidio a Eusebio di Cesarea, questo «carpere aquam» è, in Montaigne, il nostro segnacolo: tutto defluisce, nulla tratteniamo; così - concludendo con Pitagora - : «Toute matiere est coulante et labile ». Egli radicalizza quel principio d’instabilità che, dall’Ariosto a Tomaso Garzoni, era stato il perno del Rinascimento inquieto (per definire il XVI secolo con Ezio Raimondi) e che culminerà con un lettore, avido e critico, di Montaigne, con le Pensées di Pascal: «La raison de cette extrême difficulté vient de ce que les principes du plaisir ne sont pas fermes et stables. Ils sont divers en tous les hommes, etvariables dans chaque particulier avec une telle diversité, qu’il n’y a point d’homme plus différent d’un autre que de soi même dans les divers temps» (De l’Esprit géométrique, II, De l’art de persuader). Tale il bel capitolo, nel saggio della studiosa : Mobilitate viget. La crisi del concetto di natura umana (secondo un paradigma già illustrato da Michel Jeanneret nel suo Perpetuum mobile: métamorphoses des corps et des oeuvres, de Vinci à Montaigne, 1997).
A fronte di tale «labilità» sta tuttavia - ed è il fascino potente di questa rappresentazione contrappesata degli Essais - la forza dell’ «imaginativa» umana, Fortis imaginatio generat casum. La puissance de l’imagination (con il capitolo successivo: Immaginare l’altrove). Qui Montaigne dispiega tutta la sua arte d’incantagioni mentali: «Qual artigiano di miracoli, lo spirito umano!» (Saggi, II, XII), che fabbrica cose diverse nello stesso luogo e cose identiche in un’infinita pluralità di mondi: «[Epicuro diceva] che mentre le cose sono qui come noi le vediamo, sono del pari, e identicamente, in parecchi altri mondi. Cosa che avrebbe detto con maggior sicurezza se avesse visto la somiglianza e conformità di quel nuovo mondo delle Indie occidentali con il nostro, presente e passato, in così strani esempi.
In verità, considerando quello che è venuto a nostra conoscenza dell’andamento di questa società terrestre, mi son spesso meravigliato di vedere, a una grandissima distanza di luoghi e di tempo, le coincidenze di un gran numero di opinioni popolari bizzarre e le usanze e credenze selvagge e tali che non sembrano confarsi, in nessun verso, alla nostra ragione naturale. Qual grande artigiano di miracoli, lo spirito umano!». Ma qual è, allora, «nostre naturel discours»? Che cosa regola la nostra “imaginativa” della quale già Dante doveva esclamare:«O imaginativa che ne rube / talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge / perché dintorno suonin mille tube, / chi move te, se ’l senso non ti porge?» (Purgatorio, XVII, 13-16). E qui sottilmente si disgiunge il pensiero, così affine, di Montaigne e di Pascal: per l’uno l’«imaginativa» conferma «un’alterità e un altrove», scrive l’autrice, che conferma l’ «heteroclite» dello spirito umano, nella sua “bellezza e bizzarria” come dirà Mario Praz; per l’altro, Pascal, in una scommessa vertiginosa, la «imaginativa» deve forzare i limiti ai quali s’arresta ragione: «Mais si notre vue s’arrête là, que l’imagination passe outre», perché quell’oltre è più rivelatore che il qui della misura: «Mais si notre vue s’arrête là, que l’imagination passe outre; elle se lassera plutôt de concevoir que la nature de fournir. Tout ce monde visible n’est qu’un trait imperceptible dans l’ample sein de la nature. Nulle idée n’en approche, nous avons beau enfler nos conceptions au-delà des espaces imaginables, nous n’enfantons que des atomesau prix de la réalité des choses. C’est une sphère infinie dont le centre est partout, la circonférence nulle part. Enfin c’est le plus grand caractère sensible de la toute puissance de Dieu que notre imagination se perde dans cette pensée» (Pensées, Disproportion de l’homme).
In quella « sfera infinita, il cui centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte » scorre smarrita la nostra imaginativa : lo confermerà, in un saggio mirabile, Jorge Luis Borges, commentando proprio quella formula: «”… e la circonferenza da nessuna parte”». Tale il testo che pubblica Brunschvicg, ma l’edizione critica di Tourneur (Parigi 1941) che riproduce i pentimenti e le esitazioni del manoscritto, ci rivela che Pascal aveva cominciato con lo scrivere: «effroyable»: «Una sfera che sgomenta, il cui centro è dappertutto, la circonferenza da nessuna parte». Forse la storia universale non è che la storia delle diverse intonazioni di qualche metafora» (La sfera di Pascal, 1951; da Altre inquisizioni).
Dobbiamo a questo libro pieno di sapienza il merito ulteriore, e non piccolo, di permettere a ciascuno di aprire la propria «librairie», di citazioni e di amici, passati al vaglio – lungo e benefico – di tutta una tradizione (qui generosamente raccolta), poiché solo così, conclude Montaigne, rimane ciò che veramente si deposita nel cuore; per il resto e dintorno, «la doctrine qui ne leur a pu arriver en l’âme, leur est demeurée en la langue» (Essais, III, 3).
Ecce homo.
Studi su Montaigne
Nicola Panichi
Edizioni della Normale, Pisa, pagg. 452,€ 35
Il Sole Domenica 17.6.18
Gianni Vattimo. Le geniali provocazioni d’un ottantenne dall’indomabile spirito
Vade retro sionista di un metafisico!
di Maria Bettetini
«Se la risposta è no, vuol dire che è un problema metafisico, tipo religioso, quindi non vale manco la pena pensarci» dice Secco a Zero Calcare, che disegna entrambi. La domanda era sulla possibile soluzione di un problema con l’uso di un paio di bombe. Il tono ironico e intelligente di questa striscia mi è tornato alla mente leggendo l’ultimo libro di Gianni Vattimo, una raccolta assai godibile di trentuno brevi interventi, alcuni inediti, altri pubblicati in libri o giornali, in italiano o altre lingue, tutti scritti in anni recenti.
Il tono in certo senso leggero del volume, senza note, con brevissime bibliografie alla fine, contrasta con i contenuti che ci si aspetta da uno dei filosofi italiani più noti all’estero: antisionismo, anticlericalismo, la difesa di Heidegger e Marx, le accuse all’occidente, e quell’essere «contro ogni tentativo di metafisica» che lo accomuna a Secco, se mi è consentito l’azzardato confronto. Non sarà la metafisica a intervenire sulla storia, sostengono entrambi. Ecco perché alla filosofia (ai filosofi) oggi tocca interrogare il presente, proporre prassi, non scrivere trattati ma romanzi da cui il lettore possa trarre indicazioni per il qui e ora. Anche se “non si arriva da nessuna parte e ci si aggira sempre nei dintorni”, come ricorda il titolo della raccolta (che si legge proprio come un romanzo).
Piaccia o no, questo è il portato di quel pensiero debole che nel 1983 arrivava a sconvolgere la filosofia italiana e poi tedesca e francese. Studiare Nietzsche e Heidegger, lavorare con Gadamer, che sempre grazie a Vattimo divenne noto e poi amato in Italia, aveva condotto il filosofo torinese a pubblicare con Pier Aldo Rovatti una famosa antologia intitolata, con fortunata intuizione, al pensiero debole. Uno scardinamento di ogni sistema, di ogni certezza incontrovertibile, di ogni vittoria della razionalità impositiva, contro i totalitarismi e le chiese di qualsivoglia genere. Si eclissavano le ideologie, si scopriva l’importanza di riconoscersi piccoli di fronte a una storia infine non gestibile da parte di alcun potere “forte”, non giustificabile, non comprensibile a partire da concetti certi e immutabili.
Al di là degli estremismi e dei gusti personali, questo è stato un grande regalo per chi senza accorgersene stava per essere trascinato nella liquidità di cui oggi tanto si parla, ma che allora ebbe origine. Gli strumenti di un’ermeneutica che non è relativismo, bensì comprensione di come ogni interpretare lavori sull’essere di ciò che ha interpretato, non sono inutili mentre tutto sembra sgretolarsi, si tratti della fiducia nella politica, nella solidità di una Chiesa che oggi per esempio a molti sembra essere messa in discussione da questo papa (e invece solo dal suo scardinare si potrà fortificare), nel benessere o nella famiglia.
Come si sa e come si ritrova in queste pagine, il pensiero di Vattimo è sempre anche autobiografico, anzi, meglio, forse è la biografia che si adegua al pensare e al sentire. L’occasione del libro, per esempio, è il resoconto della crisi sopravvenuta con la pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger. Vattimo non nega le parole (abbastanza poche, peraltro) in cui si vede negli ebrei e nella loro cultura l’origine di ogni male. Certo non per questo – e sarebbe davvero assurdo – si permette di invocare una censura su tutto quello che Heidegger ha scritto, oppure giustifica i decenni di silenzio che la Germania sconfitta impose al più grande dei suoi filosofi del Novecento.
Vattimo si proclama, con la pervicacia di chi sa di provocare ed è contento di scandalizzare, antisionista, non antisemita. Israele – afferma Vattimo - è uno stato fondato sulla religione (lui parla di razza, ma mi rifiuto anche solo di trascrivere quelle sue parole), per questo non potrà mai convivere pacificamente con altri, per questo cerca di eliminare i palestinesi, per questo è strettamente legato al potere economico statunitense e a Hollywood che mantiene viva l’epopea della nascita di Israele come novella resistenza, nonché rinfocola il senso di colpa dell’intero occidente per l’Olocausto.
Non è la prima né sarà l’ultima sortita dell’indomabile ottantenne, che in queste pagine mostra come sempre fortissimo il legame con una spiritualità ufficiosa, che molto sa di cattolicesimo della nonna, con tutto il rispetto per le nonne. Gli hanno dato del marcionita, lui si dice credente, chissà. Ricordo che si era candidato, lui, figlio di un poliziotto calabrese, a sindaco di San Giovanni in Fiore, il paesino della Sila sorto dove Gioacchino da Fiore fondò il primo monastero. Amato da Dante e dai papi, Gioacchino dopo la morte fu alternativamente giudicato eretico e santo, oggi siamo in fase di processo di beatificazione. Sic transit quella gloria mundi di noi deboli umani.
Essere e dintorni
Gianni Vattimo, a cura di Giuseppe Iannantuono, Alberto Martinengo, Santiago Zabala,
La nave di Teseo, Milano, pagg. 426, € 22
Il Sole Domenica 17.6.18
Incroci di civiltà. Repubblica culturale arabo-europea
Tra il Cinquecento e il Settecento i musulmani furono una presenza costante nel Vecchio continente. Tra loro figuravano raffinati intellettuali che, con grande rigore, operarono per avvicinare l’Europa ai capolavori della letteratura araba
di Franco Giudice
A differenza di quanto forse si pensa, non è affatto vero che il massiccio ingresso delle popolazioni musulmane in Europa iniziò durante la grande guerra, per poi ampliarsi subito dopo il secondo conflitto mondiale. Come ha documentato la storica francese Lucette Valensi nel suo bel libro tradotto anche in italiano da Einaudi nel 2013, Stranieri familiari. Musulmani in Europa (XVI-XVIII secolo), tra il Cinque e il Settecento i musulmani furono una presenza costante nel vecchio continente. Dal Baltico alla Gran Bretagna, dai Paesi Bassi a Malta, centinaia di migliaia di musulmani vissero a stretto contatto con gli europei cristiani. Stranieri familiari appunto, ma la cui familiarità quasi mai si traduceva in una conoscenza approfondita dell’Islam, della sua storia e delle sue tradizioni culturali. A circolare erano piuttosto pregiudizi e false leggende su Maometto, alimentati da secoli di propaganda politica e religiosa che istigava all’odio e alla paura.
Ma accanto a questa immagine ideologica e distorta, tra il XVII e il XVIII secolo ne emerse un’altra meno stereotipata e più attendibile, che rendeva finalmente giustizia al mondo islamico. E che scaturiva dal faticoso e paziente lavoro di una particolare Repubblica delle lettere, una sorta di sua provincia: The Republic of Arabic Letters, come recita il libro che Alexander Bevilacqua vi ha dedicato, ricostruendone con intelligenza e raffinata erudizione la storia in tutte le sue pieghe.
I suoi “membri” appartenevano a stati nazionali diversi, ed erano sia cattolici sia protestanti, ecclesiastici e laici, ma tutti legati alla tradizione dell’umanesimo rinascimentale, da cui avevano ereditato il rispetto per i testi e il rigore filologico. Avevano appreso una lingua difficile per interpretare il Corano, per studiare la storia di Maometto e dell’Islam, per capire i costumi sociali dei musulmani e per introdurre gli europei ai capolavori della letteratura araba. Rappresentano quello che Bevilacqua chiama l’«Illuminismo che legge l’arabo». Un Illuminismo che è rimasto sottotraccia, così come gli studiosi che lo avevano animato e che oggi, fuori dalla ristretta cerchia degli specialisti, sono pressoché sconosciuti: Edward Pococke, Simon Ockley, Johann Jacob Reiske, Barthélemy d’Herbelot, Ludovico Marracci e diversi altri. Eppure, anziché i più celebri philosophes dell’Illuminismo canonico, furono proprio loro che contribuirono a trasformare la percezione che fino ad allora si aveva del mondo islamico. In tal senso quindi, i protagonisti di questa particolare Repubblica delle lettere consentono di delineare una storia per certi aspetti inedita, o comunque poco esplorata, dell’Islam e dell’Illuminismo europeo. Tanto più se consideriamo che autori quali Voltaire e Edward Gibbon, le cui influenti opere sono accreditate di solito come le prime a concepire le origini dell’Islam in termini storici, non avevano fatto altro che appropriarsi dei risultati delle ricerche di questi studiosi, che conoscevano e citavano in note a piè di pagina.
La rivalutazione dell’Islam fu anzitutto resa possibile dall’acquisizione di una più ampia gamma di testi rispetto a quelli disponibili in passato. Dalla metà del XVII secolo si scatenò infatti un’autentica gara tra le potenze occidentali ad accaparrarsi manoscritti arabi, turchi e persiani, provenienti dai mercati del Medio Oriente. Manoscritti che poi, nella maggior parte dei casi, confluivano nelle grandi collezioni “orientali”, come quelle della Bodleian Library di Oxford, della Bibliotèque Royale di Parigi, dell’università di Leida e della Vaticana, diventando così accessibili agli studiosi.
Fu da queste imponenti dotazioni documentarie che i membri della Repubblica delle lettere arabe trassero il materiale per produrre le loro edizioni e traduzioni di testi e per proporre un nuovo modo di pensare e di scrivere la storia. Così, nel 1650 Pococke, professore di arabo a Oxford, pubblicò il suo Specimen Historiae Arabum: una storia degli arabi, della loro religione e della nascita dell’Islam basata su una cronaca del XIII secolo, ma che utilizzava anche numerose altre fonti. Un libro di rottura che, come mai in precedenza, attribuiva a tale storia la stessa dignità tradizionalmente riservata a quella dei greci e dei romani, inaugurando un metodo d’indagine ben visibile nelle successive opere di Ockley sulle conquiste arabe (1708) e di Reiske sui musulmani in Asia, in Europa e in Africa (1766). E lo stesso era accaduto alla Bibliothèque Orientale di d’Herbelot, apparsa a Parigi nel 1697, che offriva per la prima volta ai lettori europei un florilegio di testi della letteratura araba, persiana e turca, da cui avrebbero attinto poeti e scrittori come Goethe, Lord Byron, Flaubert e molti altri. Ma non meno significativa fu la traduzione latina del Corano, con a fronte il testo arabo, realizzata dal dotto orientalista e consultore del Sant’Uffizio Marracci, che apparve a Padova nel 1698 dopo un lavoro durato più di quarant’anni.
Anche se questi studiosi negavano la pretesa che il Corano fosse il frutto di una rivelazione divina al profeta Maometto, lo consideravano tuttavia un testo imprescindibile per presentare un’immagine accurata di ciò in cui i musulmani credevano, nella convinzione che i cristiani per confutarlo dovessero anzitutto conoscerlo. Un’idea fatta propria da George Sale, quando nel 1733 presentò la sua traduzione inglese del Corano, pensata non solo per gli specialisti, ma anche per il grande pubblico. E che ebbe un enorme successo editoriale, tanto da essere più volte ristampata nel corso del XVIII secolo, rimanendo la traduzione inglese standard fino agli anni Cinquanta del secolo scorso.
In questo libro, appassionato, lucido e di godibile lettura, Bevilacqua insegue con successo la stretta connessione tra storia intellettuale e storia materiale dei libri, mostrando come furono i nuovi testi e le nuove informazioni a cambiare la tradizionale conoscenza dell’Islam. E nel farlo considera, a ragione, la nascita della Repubblica delle lettere arabe un episodio nella storia dell’Illuminismo globale o, quantomeno, «un capitolo decisivo nel lungo e diligente progresso globale della cultura filologica e della conoscenza interreligiosa».
The Republic of Arabic Letters: Islam and the European
Enlightenment
Alexander Bevilacqua
Harvard University Press, Cambridge (Mass.), pagg. 360, $ 35
Il Sole Domenica 17.6.18
Tutta «colpa» del cervello
Adolescenza. Oggi riusciamo a spiegare dal punto di vista neuroscientifico come molti dei tipici comportamenti dell’età dipendano da un processo di sfoltimento sinaptico
di Vittorio Lingiardi
Incomprensibili, pigri, scostanti, maleducati, superficiali, poco studiosi: degli adolescenti si parla spesso male. Anche se messo a dura prova dai vizi della natività social e digitale, non è però solo l’adolescente di oggi a dar filo da torcere agli adulti sapiens. Socrate: «I giovani oggi amano il lusso. Hanno cattive maniere, disprezzano l’autorità; mostrano scarso rispetto per gli anziani e adorano chiacchierare invece di esercitarsi». Aristotele: «I giovani sono mutevoli e presto sazi nei loro desideri, impetuosi e facili al seguire l’impulso». E così via, Shakespeare compreso: «Sarebbe bene che l’età degli uomini dai dieci ai ventitré non esistesse, perché non fanno altro che pensare a ingravidar ragazze, fare ogni sorta di soprusi ai vecchi, rubare e azzuffarsi».
Una bella scienziata inglese, Sarah-Jayne Blakemore, ricercatrice della Royal Society University e docente allo University College di Londra, ci spiega che non è così e, nel caso, perché è così. Nel suo primo libro rivolto al grande pubblico (un dubbio: è l’approccio disciplinare a render tutto così “semplice” o la buona scrittura divulgativa?) ci racconta che l’adolescenza non è «un’aberrazione» ma un passaggio obbligato del cervello per tutti gli animali, umani e non umani. L’adolescenza, dice, è affascinante non perché irrazionale o enigmatica, ma perché mostra come i cambiamenti naturali nella fisiologia cerebrale si riflettano nei nostri comportamenti, aiutandoci a capire come saremo da grandi. Il cervello degli adolescenti, insomma, è assai diverso da quello degli adulti: è in pieno cambiamento. Da cui il titolo, Inventare se stessi, ma soprattutto il sottotitolo Cosa succede nel cervello degli adolescenti. Già, cosa succede? Molte cose, di cui una delle più importanti è il pruning, lo «sfoltimento sinaptico», una sorta di «potatura» (il termine è quello che usano i giardinieri). In base alle esperienze ambientali, alcune aree cerebrali si rinforzano, altre, meno utilizzate, vengono eliminate o ridimensionate.
Fino a non molto tempo fa, neuroscienziati e psicologi pensavano che il cervello, con la fine dell’infanzia, cessasse di svilupparsi. Grazie alle tecnologie di scansione cerebrale oggi sanno però che nel corso dell’adolescenza il pruning contribuisce a dar forma alla struttura definitiva del cervello adulto. Insomma, come spesso mi capita di dire a genitori esasperati da figli «sdraiati», il cervello di questi ragazzi, anche quando sembra «spento» o «staccato», è invece al lavoro. Un lavoro impegnativo chiamato maturazione cerebrale. Il fatto di pensare, con gli psicoanalisti, che sono i primi anni di vita, forgiando il dialogo tra temperamento (la «dotazione« caratteriale) e ambiente, a dare l’impronta a molte nostre traiettorie future di personalità non deve impedirci di considerare l’adolescenza come momento di ridefinizione della personalità, con continuità ma anche discontinuità importanti rispetto all’infanzia.
Molti dei tipici comportamenti adolescenziali (dall’attrazione per le azioni rischiose alla difficoltà di vedere le cose dal punto di vista degli altri) possono essere letti anche come conseguenza di un’architettura cerebrale in movimento. Dagli studi risulta che i cambiamenti sono particolarmente evidenti nella corteccia prefrontale: cosa che non sorprende se pensiamo che è qui che troviamo le aree responsabili delle decisioni, della pianificazione, dell’inibizione dei comportamenti inopportuni, della valutazione dei rischi e della comprensione dello stato d’animo altrui. «Fino a circa vent’anni fa – scrive Blakemore – il lato spiacevole del comportamento adolescenziale veniva attribuito agli ormoni impazziti e ai cambiamenti che i giovani affrontano a scuola e nella vita sociale. Oggi sappiamo che il loro cervello va incontro a uno sviluppo sostanziale e che questo probabilmente contribuisce all’insorgere dei comportamenti tipici degli adolescenti».
Al racconto scientifico Blakemore intreccia quello personale. Così, sotto i nostri occhi, l’adolescente bionda fotografata a pagina 10 mentre suona la chitarra a piedi nudi diventa la studentessa che, guanti di lattice, nei laboratori di psicologia sperimentale dell’università di Oxford, prende in mano un cervello umano sotto formalina e capisce che quella “persona” sarà la sua carriera. Cioè la scienziata di oggi, stimata in tutto il mondo.
Inventare se stessi. Cosa succede nel cervello degli adolescenti
Sarah-Jayne Blakemore,
Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 246, € 24
Il Sole Domenica 17.6.18
Filosofia della scienza. Un viaggio da forme di vita elementari fino ai robot
Evoluzione della mente tra andata e ritorno
L’intreccio tra competenza senza conoscenza e la coscienza
di Paolo Legrenzi
Frank Plumpton Ramsey, professore a Cambridge, alla fine dei suoi scritti, pubblicati a Londra nel 1931, si scusa. Come parlare ai membri dell’Aristotelian Society da pari a pari? La filosofia è ormai diventata un sapere per specialisti, molto vasto e articolato, come le scienze della natura e la logica matematica.
L’ultimo libro di Daniel Dennett non è un’opera divulgativa. Al contrario è la sintesi di tutto quello che Dennett, dal 1971 all’università di Tufts nei pressi di Boston, ha imparato fin dal 1963, quando era allievo di Gilbert Ryle a Oxford. Egli cerca di superare la difficoltà di Ramsey con un libro profondo e labirintico, come ha osservato Maurizio Ferraris nella postfazione. Lo studio dell’evoluzione delle menti, quelle naturali e da mezzo secolo quelle artificiali, si ricollega a classici problemi filosofici che risalgono a Cartesio e Hume.
Il libro è ricco di digressioni interessanti ma segue un filo conduttore. La percezione del mondo esterno e quanto scopriamo dentro di noi con gli occhi della mente - per usare le parole di Orazio ad Amleto – sono entrambe visioni illusorie, «utili illusioni» nella vita quotidiana e nella psicologia «popolare». Ci servono, esistono e resistono, non ne siamo vittime.
In una famosa pagina del Saggiatore, Galileo osserva che la natura intrinseca delle cose è un fraintendimento: «…avendo già veduto come molte affezzioni, che sono reputate qualità risedenti ne’ soggetti esterni, non ànno veramente altra essistenza che in noi, e fuor di noi non sono altro che nomi». Imboccata questa via, Dennett prosegue con Darwin e con Turing. A loro dobbiamo le più «strane inversioni del ragionamento», per usare la terminologia di Dennett.
La prima «strana»contro-intuitiva e stupefacente insieme - «inversione» consiste nel confutare l’assunto del senso comune che tende a interpretare opere perfette e complesse come il risultato di progetti intenzionali. Questo è vero solo in alcuni casi, come quando Bach crea le sue opere. Perché proprio Bach, e non Shakespeare, Picasso, Jane Austin o altri artisti a metà strada tra caso e intenzione, come Jackson Pollock? Per Dennett l’allitterazione è irresistibile. Anche a lui piace stupire e incuriosire. Sceglie il titolo From Bacteria to Bach and Back perché con sole tre parole sintetizza il lungo libro del 2017: da forme di vita elementari fino ai pinnacoli della creazione intelligente (Bach), per poi tornare indietro (Back). Si torna indietro e si va verso il futuro con la seconda e conclusiva «strana inversione del ragionamento» di Alan Turing. Turing teorizza e costruisce macchine che pensano senza sapere di farlo, prive cioè di coscienza come i batteri.
Turing è così visionario che gli sta succedendo quello che è già capitato all’evoluzionismo. Le idee di Darwin sono così potenti da andare oltre le intenzioni di chi, nel 1859, aveva pubblicato: «L’origine delle specie ad opera della selezione naturale». Con l’azione di due soli meccanismi, variazione casuale e selezione degli adattamenti vantaggiosi, Darwin risolve il problema dei multiformi rami e rametti dell’albero della vita. Dopo di lui i meccanismi evolutivi sono stati estesi agli adattamenti di quanto crea l’uomo, non solo la natura vivente. L’estensione diventa una rivoluzione che penetra nelle nostre vite quotidiane perché gli sviluppi della «strana inversione» di Turing permettono di fabbricare i robot, apparecchiature dotate di muscoli e cervelli artificiali.
Molte forme di evoluzione darwiniana, guidate da variazioni casuali e selezioni, sono operate dai mercati e non dagli ambienti naturali. Si va dai cambiamenti dei gusti e della moda ai prodotti industriali, alle traiettorie tecnologiche, alle innovazioni. Giovanni Dosi, della Scuola Sant’Anna di Pisa, è un pioniere in questo campo di ricerca. Nei recenti lavori sperimentali della sua scuola si mostra che è vantaggioso decidere secondo modelli semplici e rapidi da calcolare (Dosi et al., 2017). Risultati che rendono confinanti gli studi economici con quelli delle scienze cognitive, come Chomsky fece per la competenza linguistica.
A Milano, a metà maggio, alcune aziende hanno presentato a un convegno i loro modi di comunicare in un’epoca dominata dal digitale: conviene piazzare la pubblicità sulla rete, nei luoghi più frequentati ogni giorno, per ore e ore. Banale. Meno ovvio è il quadro teorico utilizzato oggi dalle aziende. Spesso si progettano consapevolmente messaggi facendo leva sull’inconscio cognitivo, cioè sui meccanismi di attenzione, memoria e pensiero che funzionano in assenza di comandi e controlli consapevoli. Alla conferenza i pubblicitari hanno fatto pubblicità a se stessi e non hanno parlato di ciò che la selezione del mercato elimina, l’altra faccia della medaglia. Entrambi i versanti sono studiati dal centro dell’università romana LUISS coordinato da Michele Costabile che ha chiuso i lavori della conferenza. Una rapida selezione negativa è presente anche in natura. Se il mondo cambia troppo svelto, non si fa tempo ad adattarsi.
A metà del secolo scorso, l’austriaco Ernst Dichter, emigrato in America, scrisse manuali di successo rifacendosi all’inconscio freudiano per sedurre i consumatori. Daniel Dennett, in un libro interamente dedicato all’inconscio, non nomina mai Freud. A lui interessa l’intreccio tra la competenza senza conoscenza e la coscienza. Dennett confronta a lungo la costruzione di un termitaio, opera meravigliosa di formiconi istintivi, e la progettazione di Antoni Gaudì della Sagrada Familia, a Barcellona. Talvolta, dietro le apparenze di una creazione intelligente, si mostra la potenza ciclopica e cieca del saper fare senza rendersi conto di saper fare.
Resta una domanda: perché l’evoluzione, nel caso dell’uomo, ha premiato l’emergere della coscienza dal cervello? Quali i vantaggi? Perché non bastano le operazioni automatiche e silenti del cervello? Dennett non affronta il problema (che resta un mistero, commenta Ferraris). In realtà lo abbiamo scoperto da poco, da quando abbiamo perfezionato complicati esperimenti in cui qualcosa di cui non siamo, e mai potremo essere consapevoli, produce effetti misurabili. Semplificando un poco, il cervello ha bisogno della coscienza per controllare e mettere ordine con calma tra automatismi rapidi ed efficienti ma isolati.
Forse Ramsey non aveva tutti i torti. Forse non è facile per un uomo solo padroneggiare scienze sempre più estese e specialistiche. In fondo anche le termiti si mettono insieme per costruire le loro piramidi.
Dai batteri a Bach
Daniel Dennett
Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 551, €32
Rational Heuristics? Expectations and Behaviors in Evolving Economies with Heterogeneous Interacting Agents
Giovanni Dosi, Mauro Napoletano, Andrea Roventini, Joseph Stiglitz, Tania Treibich
LEM S. Anna, 26 agosto 2017
Lethal trap created by adaptive evolutionary response to an exotic resource
Michael Singer, Camille Parmesan
Nature, maggio 2018, 557, pagg. 238-241