giovedì 7 giugno 2018

La Stampa 7.6.18
Insulti e minacce a Liliana Segre
L’ultima vergogna negazionista
di Francesca Paci


Non sono solo quelle braccia incrociate sul petto dei deputati leghisti quando, annunciando la sua astensione al governo Conte, la senatrice a vita Liliana Segre ricorda l’infanzia nel campo di sterminio nazista e chiosa: «Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà democratica stia pensando a leggi speciali contro le popolazioni nomadi, se accadrà mi opporrò con tutte le mie forze». Sarebbe già enorme in un Parlamento in cui siede una delle ultime sopravvissute ad Auschwitz. Ma purtroppo non finisce qui. Perché dopo, a seduta conclusa, l’osceno e irresponsabile j’accuse alla memoria del genocidio si trasferisce sui social network, chiassoso, tracotante, incosciente come l’odio che intasa la piazza virtuale.
Il bersaglio, per quanto sia incredibile, è lei, Liliana Segre, una brava donna per carità, ma a giudizio dei suoi censori incapace di comprende il dolore delle vittime dell’immigrazione clandestina e dei rom.
«Quando ti ritroverai una porta sfondata, cassetti ribaltati per aria e derubata di tutto, soprattutto dei ricordi, cambierai idea», scrive uno che poi magari domani ci spiegherà mesto di essersi fatto prendere la mano. Un altro, anche lui fiero dietro la tastiera, rivendicativo, nome e cognome altro che troll: «L’unica persecuzione etnica in atto, cara Liliana Segre, è quella contro gli italiani». Seguono cuori, «I like», applausi virtuali. È uno sfogatoio che si auto-alimenta: «Venire rapinati, quello sì che ti cambia la vita, mica come finire in un campo di concentramento».
La matricola numero 75190, l’ex tredicenne deportata con il padre che non rivedrà mai più, tace. Non risponde a nessuno e giustamente. Gli altri però devono farlo, devono, puntellare gli argini per quando domani qualcuno minimizzerà definendo la polemica esagerata, permalosa, trito retaggio dell’ormai obsoleto politicamente corretto.