La Stampa 6.6.18
Non siamo Stato noi
di Mattia Feltri
Permettete il riassuntino: sabato sera Luigi Di Maio presenta alla piazza galvanizzata un imprenditore fallito per l’insolvenza dello Stato. La piazza rumoreggia e Di Maio la placa: «Non fischiate, adesso lo Stato siamo noi» (e si badi all’uso di «adesso»). Una blasfemia. Lo Stato non siamo noi che abbiamo vinto le elezioni, noi al governo: lo Stato siamo noi tutti quanti. Lo Stato siamo noi, come la intende Di Maio, declinata al plurale, è roba da Re Sole, che la declinò al singolare. Bene, il giorno dopo salta su Carla Ruocco, simpatica pasionaria, e ci dà delle capre, siccome quella di Di Maio era «una citazione in onore di Piero Calamandrei, uno dei nostri padri costituenti»; e posta la copertina di un libro di Calamandrei il cui titolo è, appunto, «Lo Stato siamo noi». Solo che dei libri non bisogna leggere la copertina e basta, sennò si rischia di cadere in equivoco. Bisogna leggere anche tutte quelle parole fitte fitte che vengono dopo, sebbene occupino tante tante pagine. Se la nostra Carla lo avesse fatto, avrebbe scoperto due cose. Prima: Calamandrei non ha mai detto né scritto «lo Stato siamo noi», quello è il titolo applicato a una raccolta definitiva e postuma dalla editrice Chiarelettere. Seconda: l’idea di Calamandrei, ben spiegata nell’introduzione del professore Giovanni De Luna, era l’opposto di quella di Di Maio, inclusiva e non esclusiva: nessuno è lo Stato, tutti devono essere lo Stato, un caposaldo della religione civile repubblicana. Però, visti i tempi, non avevano ragione né il Re Sole né Calamandrei ma, parafrasandolo, Caparezza: «Non siamo Stato noi».
il manifesto 6.6.18
I paradisi artificiali del cambiamento
di Norma Rangeri
Il professore si è fatto aiutare dalle citazioni, l’avvocato ha fatto la relazione sul contratto, il politico ha guadagnato qualche punto nella replica. Ma è evidente che con Giuseppe Conte, il 65° governo della Repubblica cambia registro rispetto alle stagioni dei presidenti del consiglio leader unti dal popolo (di destra o di sinistra).
Paradossalmente, con i populisti al governo, il nuovo inquilino di palazzo Chigi si presenta come primus inter pares, con i ministri e i partiti nel ruolo di veri protagonisti della scena. A cominciare dai due vicepresidenti, gli artefici del governo che ieri ha chiesto e ottenuto la fiducia del senato.
Un ruolo tecnico, ribadito nella puntigliosità dei temi toccati dal lungo intervento, con qualche raro infervoramento. Un’immagine neutra in coerenza e in compagnia del 40% di ministri tecnici disseminati nella squadra di palazzo Chigi.
Se c’è un elemento politico, tipicamente grillino, che, invece, ha connotato il discorso di Conte, per il resto mero atto notarile, è l’insistenza sulla perdita di credibilità della politica e sul «vento nuovo» che ha determinato una «geografia inedita». In rappresentanza del cambiamento e in risposta a una politica malata grave, come la natura del voto e del governo di questa XVIII° legislatura dimostrano. Quindi l’insistito auspicio di una politica con la «p» maiuscola, declinata con la citazione del filosofo Hans Jonas sull’etica della responsabilità, sulla necessità di non giocare sul terreno facile «dell’immediato tornaconto». E forse a Di Maio e Salvini, seduti il primo a sinistra il secondo a destra del professore, saranno fischiate le orecchie.
Le tematiche del M5Stelle hanno attraversato e cucito insieme i passaggi più insistiti e sottolineati. La corruzione nella pubblica amministrazione, i privilegi della politica di fronte a un paese afflitto dalle diseguaglianze e della povertà, il conflitto di interessi che come un tarlo ne mina la credibilità, la priorità delle priorità dei diritti sociali (dal reddito e dalla pensione di cittadinanza alla sanità pubblica) indicati come «la prima preoccupazione del governo».
Musica per l’elettorato grillino di sinistra, che ha abbandonato le vecchie bandiere e i vecchi partiti perché, secondo il presidente del consiglio, oggi non ci sono forze che esprimono una visione del mondo dal momento che «le ideologie forti non esistono da decenni». La questione sociale al primo posto è la promessa delle promesse visto che, annota Conte, oggi è la finanza a comandare la politica, e, per invertire la rotta, non basta guardare solo al proprio paese, ma a un’Europa «che è la nostra casa ma deve diventare più equa».
Nessuno strappo sulle alleanze internazionali dell’Italia, paese atlantico e nella Nato, ma esplicita richiesta all’Europa di rivedere le sanzioni contro la Russia e di essere non più il guardiano dell’austerità ma il motore di un nuovo sviluppo capace di riformare il capitalismo. Naturalmente è lecito nutrire seri dubbi su come tutto questo si concilii con le parole d’ordine della destra: meno tasse a chi è già benestante, più armi per la legittima difesa, respingimenti per i migranti e ruspe per i ghetti dei rom, integralismo cattolico. E, sul nodo cruciale dell’immigrazione, che ieri ha spaccato il vertice europeo, non può bastare il doveroso richiamo alla tragica morte del bracciante maliano ucciso nelle campagne di Vibo Valentia, accompagnato dall’applauso di Salvini. Fare peggio di Minniti è difficile ma non impossibile.
A ravvivare con un fuori programma la meticolosa rassegna programmatica a un certo punto del discorso, al capitolo tasse, è intervenuto il classico lapsus. Nell’intemerata contro gli evasori gli è scappato un «paradisi artificiali» anziché «fiscali». Forse l’inconscio del presidente per caso lo ha voluto mettere in guardia dall’eccessiva benevolenza con cui aveva dipinto il salvifico governo del cambiamento. Meglio tornare con tutti e due i piedi dalle mirabolanti promesse alla dura realtà del Bengodi degli evasori.
Le opposizioni hanno criticato, attaccato, annunciato una leale dialettica parlamentare. Come peraltro aveva sollecitato lo stesso presidente del consiglio promettendo, a sua volta, ascolto e apertura verso chi, in corso d’opera, decidesse di aderire alla maggioranza.
In attesa di assistere a qualche passaggio sul carro del vincitore, per le opposizioni, in particolare per il Pd, si prospetta una lunga attesa di tempi migliori.
il manifesto 6.6.18
La sinistra ridotta a pensiero unico delle élites
Populismo. Sono stupefatto di vedere che il buonismo di sinistra si limita all’accoglienza ma non si pone mai il problema delle cause. Perché ci sono oggi tanti migranti? Perché siriani e libici che fino all’intervento dell’Occidente godevano di un tenore di vita elevato, sono oggi profughi in terra straniera?
di Carlo Freccero
La sinistra è oggi in crisi e si chiede come potrebbe parlare ai nuovi populismi per ricondurli nei binari di una democrazia elitaria che assomiglia più ad un’oligarchia che ad una democrazia in senso proprio.
Viceversa, anche quando dice di voler ascoltare il malessere di cui i populismi sono espressione, la sinistra si trincera nei luoghi comuni del politicamente corretto. Mentre, secondo me, basterebbe un’autoanalisi oggettiva per capire le cose da un’altra angolazione. La domanda è cos’è oggi la sinistra e cos’era una volta la sinistra? Perché c’è stato un così radicale cambiamento? So già la risposta. Ci sbagliavamo. E se ci sbagliassimo adesso?
In ogni caso riflettere su cosa sia stata la sinistra alle sue origini, contiene già la risposta al problema del populismo oggi.
Prima il populismo di destra non c’era perché molte delle istanze del populismo di oggi erano a sinistra. E la crescita dei diritti del popolo non era considerata reazionaria, ma progressista.
La grande frattura a sinistra inizia con la cosiddetta terza via e la resa completa dai progressisti nei confronti del neoliberismo. Da allora siamo immersi nel pensiero unico tanto da aver perso la memoria di noi stessi.
Nel 1968 avevo vent’anni ed ero di sinistra. Cosa significava allora essere di sinistra? Credere nella lotta di classe e nella coscienza di classe. Nessuno pensava allora che nel popolo ci fosse qualcosa di sbagliato che le élites dovevano “raddrizzare” per il bene del popolo stesso. Era il popolo che, assumendo coscienza, poteva e doveva guidare la società. E questo concetto, prima che di sinistra, è democratico.
Cos’è oggi essere di sinistra?
Essere politicamente corretti. Accettare il pensiero unico in maniera acritica e credere, presuntuosamente che, in quanto detentrici del pensiero unico, le élites devono guidare un popolo ignorante e rozzo, irritante per la sua mancanza di educazione.
È vero, questo popolo, il popolo che si raccoglie sotto l’etichetta di “populismo” non ha nulla a che fare con il concetto di “coscienza di classe” sulla base della quale, invece il proletariato marxista era considerato in grado di fare le scelte migliori per la società tutta. Ma è comunque un popolo che esprime un malessere, che coglie delle contraddizioni che sono reali e drammatiche, nella narrazione idilliaca del pensiero unico che vede nel neoliberismo e nei suoi diktat “il migliore dei mondi possibili”.
In quanto poi all’educazione al “politicamente corretto” che distingue le élites del popolo e che dovrebbe costituire la ragione della loro superiorità rispetto al popolo, siamo sicuri che sia “vera” e non sia piuttosto frutto di propaganda?
Da quando studio la propaganda non credo più al politicamente corretto. I diritti umani a cui abbiamo sacrificato i diritti sociali, mi sembrano usciti direttamente dalla Finestra di Overton, una metodologia per condizionare l’opinione pubblica con un graduale e progressivo lavaggio del cervello.
Cosa resta di sinistra a sinistra?
L’apparente solidarietà per gli ultimi. Oggi l’attenzione che ieri si tributava al proletariato, viene tributata ai migranti. È evidente che usare un linguaggio come quello della Lega e negare ogni forma di solidarietà è disturbante, scandaloso.
Ma almeno attrae l’attenzione su un fenomeno su cui, come altri considerati “naturali” dal pensiero unico, non ci poniamo alcun interrogativo. Per le élites i migranti non costituiscono problema perché risiedono in altri quartieri e insidiano posti di lavoro e salari che sono appannaggio delle classi più impreparate alla competizione neoliberista. Ma proprio ponendoci dal lato dei migranti e dei loro diritti, quale maggior diritto dovremmo riconoscere loro, se non il diritto a non emigrare, a non rischiare la vita su barconi improvvisati, a non subire violenze ed abusi, a non conoscere il disprezzo e il razzismo delle società che non vorrebbero accoglierli?
Sono stupefatto di vedere che il buonismo di sinistra si limita all’accoglienza ma non si pone mai il problema delle cause. Perché ci sono oggi tanti migranti? Perché siriani e libici che fino all’intervento dell’Occidente godevano di un tenore di vita elevato, sono oggi profughi in terra straniera? Non sono forse vittime di quel “politicamente corretto” che ci obbliga, come occidentali a continue missioni di pace e di solidarietà per restituire la democrazia ai paesi ancora al di fuori delle regole del neoliberismo? Non si tratta di “aiutarli a casa loro” ma di lasciarli in pace a casa loro.
L’ottusa opposizione populista all’immigrazione, segnala comunque un problema che alle sinistre tradizionali sfugge, perché, nell’ordine del discorso del pensiero unico dove tutto è “naturale”, e tutto è “irriformabile” e l’unica risposta possibile non è la coscienza, ma la carità.
Ma essere di sinistra non può ridursi ad un atteggiamento caritatevole, richiede piuttosto una visione diversa della società, rispetto all’ordine vigente.
il manifesto 6.6.18
Il ministro Salvini tra false emergenze e razzismo crescente
di Filippo Miraglia
vicepresidente nazionale Arci
Le esternazioni di Salvini sono coerenti col personaggio costruito in questi anni, questo bisogna riconoscerlo. Solo che adesso è ministro dell’Interno. E questo fa una differenza.
Dice di essere contro la riforma del regolamento di Dublino, proposta oggi nella riunione dei ministri dell’Interno dell’Ue, che nella sua attuale formulazione penalizza i paesi di primo approdo dei richiedenti asilo, come l’Italia, e quindi andrebbe modificato. Ma c’è già il documento approvato di recente dal Parlamento europeo, che responsabilizza tutti i Paesi e introduce l’idea che chi arriva in Italia o in Grecia arriva in Europa ed è l’Ue a doversene farse carico con un proprio piano d’accoglienza. Una proposta che la Lega non ha votato e che – questo Salvini omette di dirlo o non lo sa – non favorirebbe l’Italia perché in una divisione equa dei richiedenti asilo, sulla base di criteri oggettivi, l’Italia, sul lungo periodo, dovrebbe accoglierne più di quanti ne ha finora accolti. Negli ultimi 10 anni infatti (2008-2017), l’Ue ha accolto circa 5 milioni di richiedenti asilo, pari all’1% della popolazione.
Poiché l’Italia ha una popolazione pari al 12% di quella dell’Ue, in una divisione basata solo sulla quantità di popolazione, a noi ne sarebbero toccati 600 mila, più di quelli che abbiamo accolto.
Se poi parliamo di chi ha ottenuto un permesso di soggiorno regolare, i dati dicono che l’Italia fa meno di tanti altri. Nel solo 2017 la Germania ha riconosciuto un numero di rifugiati dieci volte più alto rispetto all’Italia (325 mila contro 35 mila). Anche la Francia ne ha riconosciuto un numero più alto del nostro, e Austria e Svezia, paesi molto più piccoli del nostro, un numero vicino a quello dell’Italia.
Il ruolo della vittima, inaugurato da Renzi e sviluppato con grande impegno dall’ex ministro Minniti, poco si adatta alla realtà e ai numeri che con testardaggine raccontano una storia diversa dalla propaganda elettorale leghista e non solo.
Salvini ripete le stesse cose dette con altre parole dal suo predecessore. Nel campo delle politiche anti immigrati Minniti però non è secondo a nessuno: accordi con le milizie e con la guardia costiera libica per bloccare i flussi o riconsegnare ai loro torturatori chi riesce a scappare. Infatti, nonostante la polemica perpetua con il Pd, Salvini ha tributato un elogio all’ex ministro, sostenendo che andrà avanti nella stessa direzione, con maggiore efficacia.
In particolare Salvini sostiene di voler aumentare i rimpatri e diminuire le risorse per l’accoglienza. L’accordo con le bande libiche ha già ridotto drasticamente i flussi, ma non si tratta di un dato di cui vantarsi, viste le conseguenze sulla vita di decine di migliaia di persone.
Per aumentare i rimpatri, il neo ministro ricorre agli insulti nei confronti dei tunisini: poiché dalla Tunisia non ci sarebbe alcuna ragione per fuggire (lo dicevano anche quando c’era Ben Ali), i tunisini vanno rimpatriati (cosa che peraltro già avviene da mesi, spesso con rimpatri collettivi illegittimi), anche perché, sostiene Salvini, a noi mandano i galeotti. Un modo per facilitare le relazioni diplomatiche e ottenere collaborazione, come si è già visto!
La riduzione della spesa per l’accoglienza è un’ipotesi totalmente astratta e propagandistica. Se diminuisce il numero delle persone, diminuirà la spesa. Ma a numeri invariati la spesa non può diminuire perché gli obblighi previsti dalla legge, per fortuna, non consentono ulteriori risparmi. Si può risparmiare rendendo i centri invivibili. L’esperienza ci insegna che le politiche di criminalizzazione dei richiedenti asilo e dell’accoglienza hanno portato a un aumento della spesa pubblica e dei tempi dell’accoglienza.
L’ossessione per il controllo orienta verso i grandi centri (e il capitolato del ministero dell’Interno sui centri d’accoglienza Cas esistenti va esplicitamente in questa direzione) che sono più costosi, hanno un impatto negativo sui territori e allungano i tempi dell’accoglienza.
Tra propaganda razzista e falsità l’avvio è degno senz’altro del personaggio.
Noi siamo preoccupati, perché se già si respira un clima di rancore diffuso, che spesso si traduce in violenza, come è successo in Calabria (vedremo cosa accerteranno gli inquirenti, ma è fuor di dubbio che in nell’omicidio si Soumalya Sacko ci sia una componente importante di razzismo). E il fatto che un esponente del governo tanto acclamato soffi sul fuoco dell’odio popolare non fa che confermare queste preoccupazioni.
Oltre a denunciare quel che di falso e strumentale c’è nelle parole del ministro Salvini, occorrerà mettere in campo un’opposizione sociale all’altezza della sfida. Presto, molto presto.
Il Sole 6.6.18
Migranti, Ue spaccata sulla nuova Dublino
Roma-Visegard. No di Italia, Spagna, Austria, Romania, Ungheria, Slovenia e Slovacchia alla revisione che disciplina il diritto d’asilo
Il ministro Salvini. «È una vittoria per noi, sono molto soddisfatto. Significa che non è vero che non si può incidere sulle politche Ue»
di Beda Romano
BRUXELLES L’annosa riforma del Regolamento di Dublino, che dovrebbe regolare l’accoglienza di rifugiati nell’Unione europea, è ancora in alto mare.
L’obiettivo di trovare una intesa tra i Ventotto entro giugno appare difficile da raggiungere, tanto più che ieri in Lussemburgo si sono moltiplicate le critiche di numerosi ministri degli Interni. La questione dell’immigrazione verrà comunque discussa dai capi di Stato e di governo nel loro consueto vertice di fine mese.
Parlando alla stampa nel Granducato, Valentin Radev, il ministro degli Interni della Bulgaria, presidente di turno dell’Unione, ha parlato di «discussione franca» tra i ministri, facendo capire chiaramente le molte divisioni nazionali. Ha commentato dal canto suo il commissario all’immigrazione Dimitri Avramopoulos: «Il Regolamento di Dublino è morto, per questo dobbiamo riformarlo velocemente. Ma la riforma non è morta, a meno che non la vogliano uccidere». Il pacchetto sul tavolo rivede solo parzialmente il Regolamento di Dublino che prevede la responsabilità del paese di prima accoglienza nella gestione dei profughi. Tra le altre cose, la proposta di riforma stabilisce che nei casi di flussi particolarmente elevati vi possa essere un ricollocamento dei rifugiati in tutta l’Unione europea. Il pacchetto riprende a grandi linee l’iniziativa del 2015 che ha creato un meccanismo provvisorio di ricollocamento, criticato da alcuni stati membri.
Secondo un diplomatico, una decina di paesi si è detta contraria ieri all’attuale proposta di riforma: tra questi, Italia, Spagna, Austria, Ungheria, Slovenia, Germania e le tre repubbliche baltiche, mentre gli altri paesi hanno lasciato la porta aperta al negoziato. Rappresentato in Lussemburgo dall’ambasciatore presso l’Unione Maurizio Massari, il ministro degli Interni Matteo Salvini ha affermato da Roma che l’emergere di un fronte opposto alla riforma «è una vittoria per noi, sono molto soddisfatto, significa che non è vero che non si può incidere sulle politicheeuropee». A dire il vero, da mesi ormai la riforma del Regolamento di Dublino è osteggiata da numerosi paesi, non solo dall’Italia ma anche da governi dell'Est Europa, radicalmente contrari al ricollocamento di rifugiati. Da notare è che nella discussione in Lussemburgo alcuni paesi che in un primo tempo si erano detti contrari al pacchetto – Grecia, Cipro e Malta – hanno preferito tenere la porta aperta alle trattative, astenendosi da una oposizione netta. Berlino «è aperta a una discussione costruttiva» sulla più recente proposta della presidenza bulgara per la riforma del Regolamento di Dublino, «ma com’è attualmente non la accettiamo» ha detto dal canto suo il segretario di stato tedesco Stephan Mayer.
Due in particolare gli aspetti che non piacciono all’Italia: il perdurante onere di gestire l’arrivo di immigrati sulle sue coste così come un ricollocamento che nella proposta non è sufficientemente automatico e obbligatorio. Il ministro Salvini ha parlato questa settimana con il premier ungherese Viktor Orbán nel tentativo di creare un fronte comune. L’alleanza appare ai più sorprendente. Li accomuna il desiderio di frenare l’immigrazione, ma sulla questione del Regolamento di Dublino le loro visioni sono diverse.
L’Ungheria infatti è contraria a qualsiasi ricollocamento, mentre il governo italiano vorrebbe che i ricollocamenti dei richiedenti l’asilo fossero obbligatori e automatici.
«Penso che sia positivo se l’Italia inizia a rifiutare i migranti sulle proprie coste», ha detto riferendosi alla nuova linea italiana il sottosegretario belga all’immigrazione Theo Franken, esponente tra i più conservatori del governo Michel. Intanto, a complicare ulteriormente il dossier, è la presenza al Parlamento europeo di una deputata-relatrice, la svedese Cecilia Wikström, assai più liberale di molti governi. Un eventuale futuro accordo tra i Ventotto dovrà essere approvato dalla stessa Strasburgo.
Il Fatto 6.6.18
Migranti, Salvini come Minniti. Vuole chiudere i porti alle Ong
Impossibile moltiplicare i rimpatri, le Regioni non vogliono i Cpr (ex Cie). Il ministro e i prefetti al Viminale studiano come negare l’attracco in Italia alle navi umanitarie
di Alessandro Mantovani
Pochi giorni al Viminale sembrano aver convinto Matteo Salvini che “fate le valigie” e “rimandiamoli a casa” sono slogan buoni per i comizi che parlano alle paure del Paese, tantopiù in vista delle Comunali di domenica, ma non facilmente realizzabili. Mancano gli accordi con i Paesi d’origine; anche pochi rimpatri (se ne fanno non più di tremila l’anno, 7.000 con i respigimenti alle frontiere, su 3-400 mila migranti irregolari stimati sul territorio nazionale) comportano spese significative e peraltro le Regioni – anche quelle del Nord a trazione leghista – si oppongono a costruire nuovi Cie, che oggi si chiamano Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio) già previsti dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, nei quali “trattenere” i migranti nella fase di identificazione e riconoscimento da parte delle autorità dei loro Paesi. E così il leader leghista, con i prefetti e i tecnici del ministero dell’Interno, sta studiando misure per ridurre gli sbarchi sulle coste italiane, che, come sappiamo, sono diminuiti del 78 per cento se si confrontano i primi cinque mesi del 2017 con quelli dell’anno in corso (60 mila contro 13.303), ma nelle ultime settimane sono ripresi, con il loro carico di sofferenze e di naufragi, con partenze dalla Libia ma anche dalla Tunisia.
Torna così il tema della chiusura dei porti italiani alle imbarcazioni delle Organizzazioni non governative che soccorrono i migranti in mare. Salvini l’aveva detto subito, nella prima uscita da ministro a Pozzallo (Ragusa): “Nessun vice scafista deve attraccare nei porti italiani”, aveva dichiarato il neoministro dell’Interno qualificando con eleganza le Ong. La materia del soccorso in mare però è delicata, l’Italia ha un’ampia zona Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) della quale è responsabile e nella quale, fin qui, ha coordinato le attività delle imbarcazioni delle Ong, quelle militari dei diversi partner europei e anche quelle dei guardacoste libici dopo gli accordi stretti proprio da Minniti con il governo di Tripoli e i relativi aiuti in termini di forniture e assistenza. Tutto è regolato da convenzioni internazionali che nel Canale di Sicilia individuano nel nostro Paese i “porti sicuri” nei quali far sbarcare i naufraghi dopo il soccorso. Come è noto Malta non li accetta sul suo territorio ma non ha neppure sottoscritto tutti gli impegni internazionali che vincolano le autorità italiane.
Anche la strada della chiusura dei porti era già stata esplorata da Minniti, esattamente un anno fa di fronte a un’impennata degli sbarchi. Era stato però l’allora ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, competente per le Capitanerie di porto, a stoppare il titolare del Viminale. Salvini invece non ne ha ancora parlato con il nuovo responsabile delle Infrastrutture, Danilo Toninelli del M5s, a quanto si apprende dallo staff di quest’ultimo che certamente condivise in linea generale la campagna di Luigi Di Maio contro i “taxi del mare”, che se non sono “vice scafisti” poco ci manca.
Salvini peraltro nei giorni scorsi ha riconosciuto il “discreto lavoro” svolto da Minniti sull’immigrazione ma non ne ha ancora parlato con lui. L’ha raccontato il suo predecessore ieri sera: “Ho chiamato Salvini appena è stato nominato ministro per complimentarmi con lui – ha spiegato l’ex ministro dell’Interno a ‘Otto e mezzo’ su La7 –. L’ho chiamato dalla batteria del Viminale perché non mi permetto di chiamarlo direttamente. E aspetto ancora una sua risposta”. Salvini ha risposto a strettissimo giro di agenzie: “Sono ministro solo da quattro giorni, ma ho già incontrato decine di persone di grandissimo valore, sicuramente avrò modo di incontrare anche l’ex ministro Minniti”. Certamente lo farà, tra un comizio e l’altro.
La Stampa 6.6.18
Nella Slovenia a profughi zero dov’è nato il patto dei sovranisti
di Niccolò Zancan
Viaggio nella Slovenia dove trionfa il fronte xenofobo. Domenica l’ex premier Jansa ha vinto le elezioni grazie anche alla «benedizione» del leader ungherese Orban.
Il castello medioevale. I campi di luppolo. I vitigni del riesling. E poi, su tutte le cose, questo silenzio impressionante: cinguettio di passeri e silenzio.
Il patto dei sovranisti è stato siglato qui. Dentro il piccolo palazzetto dello sport con le sedie blu e le bandiere gialle. La sera dell’11 maggio, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha voluto benedire personalmente il candidato premier sloveno Janez Janša. È andato sul palco: «Signori e signore, se l’Europa si arrenderà all’immigrazione di massa, il nostro stesso continente andrà perduto. Cari amici, il 2015 è stato solo il precursore di quello che presto seguirà. Decine di milioni di migranti vogliono partire dall’Africa verso l’Europa. E dobbiamo capire che continueranno a venire finché l’Europa non proteggerà i suoi confini, e fintantoché continueremo ad invitarli. Se non concentriamo la nostra attenzione su questo problema, potremmo perdere i nostri Paesi, e le nostre stesse terre potrebbero finire in mani straniere».
Tre giorni fa, il candidato premier Janez Janša ha vinto le elezioni con il Partito Demoratico sloveno: 23% a Lubiana, 25% a Maribor. Ma qui a Celje, nelle regione della Bassa Stiria, nel silenzio delle campagne, ha preso il massimo dei voti: 29%. La benedizione di Orban ha dato i suoi frutti. «Io c’ero» dice il signor Bostian Novak, seduto ai tavolini del bar Cannon One. È un meccanico in pensione di 71 anni, borsello alla vita, cappellino da baseball nero: «Sono felice della vittoria di Janša perché sono d’accordo con Orban. Dobbiamo difenderci dai migranti. Costano troppi soldi, più di quelli che prendo io di pensione. Vogliono rubare il lavoro ai nostri figli e sostituire il nostro modo di vivere».
Non è stata soltanto una comunione, per così dire, politica. Un giornalista del settimanale Mladina ha scoperto che diversi imprenditori ungheresi, molto vicini a Orban, hanno finanziato i media di proprietà di Janša. Ora ci sono capitali ungheresi nelle società che controllano Nova24TV, il quotidiano Demokracija e un portale web. Persino la foto usata da Janša per il suo manifesto elettorale è stata copiata di sana pianta da quella di Orban. È la stessa foto che rappresenta un’orda di barbari che preme ai confini.
Qui a Celje non è mai passato un migrante. Questa cittadina non era sulla strada del grande esodo. Nell’estate del 2015, quando più di un milione di profughi percorse la rotta balcanica, in Slovenia chiesero di fermarsi in tutto 380 persone. A tanto ammontano le richieste di asilo politico. Oggi, hanno varcato la frontiera in due. È la media. Dall’inizio dell’anno sono passati 1200 migranti. E senza la minima intenzione di fermarsi. A questa contabilità, vanno aggiunti i cinque ragazzi morti annegati nel fiume Kolpa, al confine con la Croazia, nell’unico tratto dove la rete metallica è più bassa e senza filo spinato.
Janez Janša ha 59 anni. È stato in carcere per corruzione, le accuse contro di lui sono cadute in secondo grado per prescrizione. Tutti lo conoscono. È già stato primo ministro due volte. Mai mai con questa linea politica incentrata sulla paura dell’invasione. Non è ancora detto che riuscirà a trovare la maggioranza per governare. Ma è a lui che il presidente sloveno, Boruth Pahor, sta per affidare l’incarico.
C’è quindi, da Ovest verso Est, come una specie di nuovo ritratto di famiglia: Matteo Salvini, Janez Janša, Viktor Orban. Il corridoio d’Europa che rinnega l’idea stessa dell’Unione. Oltre ai temi della campagna elettorale, i tre condividono anche lo stesso segreto. Prima di diventare maestri di sovranismo, erano agli antipodi. Salvini nella Lega del federalismo e di «Roma ladrona», Orban dissidente liberale, Janša comunista: famoso per aver partecipato alla Primavera di Lubiana del 1988.
«Il successo elettorale di Janša è qualcosa che non riesco a spiegarmi» dice Anze Jevsenak manager dell’Hotel Europa. «Usa la parola democratico, ma lui non lo è», dice la studentessa Ina Pondkoritnik. E aggiunge: «Ma il peggio, a pensarci bene, è che non è stato neppure il primo a pensare di costruire un muro al nostro confine». Già, è stato il governo uscente di centrosinistra ad alzare 170 chilometri di reti metalliche e filo spinato intorno a tutta la Slovenia. Ora Janša promette di rafforzare i controlli. E annuncia di essere pronto a riaprire il centro di detenzione per migranti di Šenptij chiuso dal 2015.
A Celje la vita procede ordinatamente. Alle sei di sera scoppia un temporale. I camerieri ritirano i tavolini dei bar del centro storico. Non si vede un migrante nemmeno a cercarlo con il lanternino. Smette di tuonare. Di nuovo silenzio. Piazza Krekov è lucida di pioggia, al centro c’è la statua in memoria di Alma Karlin. Ha una valigia in mano. Partendo da qui, negli Anni Venti ha girato il mondo intero. Conosceva dodici lingue. La Cina. L’Australia. Le Americhe. Il suo scritto più famoso si intitola: «Odissea di una donna solitaria».
La Stampa 6.6.18
Sovranismo, muri e il flirt con la Russia
L’Ungheria di Orban che piace a Salvini
di Monica Perosino
Dopo otto anni di potere ininterrotto la «visione» di Viktor Orban ha dato prova definitiva di aver travalicato i confini della sua Ungheria. Definito un «eroe» dall’ex stratega di Trump, Steve Bannon, chiamato «dittatore» dal presidente della Commissione Ue Juncker, la sua politica sovranista «fondata sui valori cristiani» non è più un modello solo per l’alleata Polonia. Traino e ispirazione dei Paesi Visegrad, l’ammirazione per la sua «democrazia illiberale» ha contagiato Austria, Slovenia e Italia.
All’indomani del plebiscito elettorale di aprile, che ha consegnato nelle mani di Orban il suo terzo mandato consecutivo (il quarto in assoluto), era stato Matteo Salvini tra i primi a congratularsi, assieme alla leader del Front National Marine Le Pen. Il neo ministro dell’Interno aveva festeggiato la vittoria con un post su Facebook: «L’Ungheria ha votato con il cuore e con la testa, ignorando le minacce di Bruxelles e i miliardi di Soros. Buon lavoro presidente Orban, spero di incontrarla presto da presidente del Consiglio italiano».
Orban ha conquistato la fiducia degli Ungheresi con una campagna quasi interamente incentrata sui migranti e sui pericoli che «terroristi islamici» potessero «distruggere e contaminare i valori Ungheresi».
La barriera anti migranti
Da quando Budapest ha deciso di chiudere la rotta balcanica sigillando la frontiera con la Serbia con 175 chilometri di barriera presidiata da 15 mila agenti - i «migrants hunters», i cacciatori di migranti -, c’è un solo modo per entrare legalmente nel Paese e proseguire il viaggio verso l’Europa: passare dalle due zone di transito autorizzate, una è a Horgos, l’altra è Kelebia. Fino all’anno scorso passavano 30 persone al giorno, oggi due. La stretta di Orban, approvata dalla stragrande maggioranza del Paese, ha aggiunto un altro tassello alla sua battaglia con la legge approvata il 30 maggio nel pacchetto «Stop Soros»: dal 20 luglio aiutare un profugo sarà reato. In carcere chi offre cibo, riparo o assistenza legale, ma anche chi soltanto stampa volantini informativi o dà sostegno ai richiedenti asilo. Pene più severe se l’azione è reiterata. Come nel caso delle ong, «braccio esecutivo» di potenze straniere che «attaccano pervicacemente l’Ungheria», ripeteva quasi ossessivamente in campagna elettorale Orban. Sulla lotta ai migranti e sulla «difesa dei confini» il premier magiaro ha costruito il suo consenso. Aiutato anche dall’individuazione di un nemico, «il nemico numero uno dell’Ungheria», il filantropo americano-ungherese George Soros, accusato di essere al centro di un piano pro immigrati, e in Italia messo al bando da Salvini che lo definisce «speculatore senza scrupoli».
Lo scontro con l’Ue
L’intesa tra sovranisti si compie appieno contro i piani europei sull’immigrazione «al limite della follia», dice Orban, che rifiuta ogni proposta sulle quote e la ricollocazione dei rifugiati tra i Paesi membri. Salvini, che ha trasformato la Lega Nord in una Lega nazionale, tiene assieme sovranismo, identità italiana e valori cristiani. Orban in Ungheria ha messo in pratica la difesa di questi valori con il muro e i veti anti ong, le leggi restrittive contro i media «ostili», il sostegno alle famiglie «tradizionali» e un’economia che predica «L’Ungheria per prima». Per questo entrambi non vedono di buon grado le sanzioni contro Putin che penalizzano il «made in Italy» da una parte, e le forniture energetiche a Budapest dall’altra.
Mentre l’Ue decideva di colpire Mosca con le sanzioni Orban allacciava rapporti sempre più stretti con Putin. Legami sanciti con il gas russo che copre circa l’85% del fabbisogno nazionale e un prestito di 10 miliardi di euro per la modernizzazione, affidata ai russi, dell’unico impianto nucleare ungherese.
La Stampa 6.6.18
Nella Slovenia senza profughi dove trionfa la xenofobia
di Niccolò Zancan
Il castello medioevale. I campi di luppolo. I vitigni del riesling. E poi, su tutte le cose, questo silenzio impressionante: cinguettio di passeri e silenzio.
Il patto dei sovranisti è stato siglato qui. Dentro il piccolo palazzetto dello sport con le sedie blu e le bandiere gialle. La sera dell’11 maggio, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha voluto benedire personalmente il candidato premier sloveno Janez Janša. È andato sul palco: «Signori e signore, se l’Europa si arrenderà all’immigrazione di massa, il nostro stesso continente andrà perduto. Cari amici, il 2015 è stato solo il precursore di quello che presto seguirà. Decine di milioni di migranti vogliono partire dall’Africa verso l’Europa. E dobbiamo capire che continueranno a venire finché l’Europa non proteggerà i suoi confini, e fintantoché continueremo ad invitarli. Se non concentriamo la nostra attenzione su questo problema, potremmo perdere i nostri Paesi, e le nostre stesse terre potrebbero finire in mani straniere».
Tre giorni fa, il candidato premier Janez Janša ha vinto le elezioni con il Partito Demoratico sloveno: 23% a Lubiana, 25% a Maribor. Ma qui a Celje, nelle regione della Bassa Stiria, nel silenzio delle campagne, ha preso il massimo dei voti: 29%. La benedizione di Orban ha dato i suoi frutti. «Io c’ero» dice il signor Bostian Novak, seduto ai tavolini del bar Cannon One. È un meccanico in pensione di 71 anni, borsello alla vita, cappellino da baseball nero: «Sono felice della vittoria di Janša perché sono d’accordo con Orban. Dobbiamo difenderci dai migranti. Costano troppi soldi, più di quelli che prendo io di pensione. Vogliono rubare il lavoro ai nostri figli e sostituire il nostro modo di vivere».
Non è stata soltanto una comunione, per così dire, politica. Un giornalista del settimanale Mladina ha scoperto che diversi imprenditori ungheresi, molto vicini a Orban, hanno finanziato i media di proprietà di Janša. Ora ci sono capitali ungheresi nelle società che controllano Nova24TV, il quotidiano Demokracija e un portale web. Persino la foto usata da Janša per il suo manifesto elettorale è stata copiata di sana pianta da quella di Orban. È la stessa foto che rappresenta un’orda di barbari che preme ai confini.
Qui a Celje non è mai passato un migrante. Questa cittadina non era sulla strada del grande esodo. Nell’estate del 2015, quando più di un milione di profughi percorse la rotta balcanica, in Slovenia chiesero di fermarsi in tutto 380 persone. A tanto ammontano le richieste di asilo politico. Oggi, hanno varcato la frontiera in due. È la media. Dall’inizio dell’anno sono passati 1200 migranti. E senza la minima intenzione di fermarsi. A questa contabilità, vanno aggiunti i cinque ragazzi morti annegati nel fiume Kolpa, al confine con la Croazia, nell’unico tratto dove la rete metallica è più bassa e senza filo spinato.
Janez Janša ha 59 anni. È stato in carcere per corruzione, le accuse contro di lui sono cadute in secondo grado per prescrizione. Tutti lo conoscono. È già stato primo ministro due volte. Mai mai con questa linea politica incentrata sulla paura dell’invasione. Non è ancora detto che riuscirà a trovare la maggioranza per governare. Ma è a lui che il presidente sloveno, Boruth Pahor, sta per affidare l’incarico.
C’è quindi, da Ovest verso Est, come una specie di nuovo ritratto di famiglia: Matteo Salvini, Janez Janša, Viktor Orban. Il corridoio d’Europa che rinnega l’idea stessa dell’Unione. Oltre ai temi della campagna elettorale, i tre condividono anche lo stesso segreto. Prima di diventare maestri di sovranismo, erano agli antipodi. Salvini nella Lega del federalismo e di «Roma ladrona», Orban dissidente liberale, Janša comunista: famoso per aver partecipato alla Primavera di Lubiana del 1988.
«Il successo elettorale di Janša è qualcosa che non riesco a spiegarmi» dice Anze Jevsenak manager dell’Hotel Europa. «Usa la parola democratico, ma lui non lo è», dice la studentessa Ina Pondkoritnik. E aggiunge: «Ma il peggio, a pensarci bene, è che non è stato neppure il primo a pensare di costruire un muro al nostro confine». Già, è stato il governo uscente di centrosinistra ad alzare 170 chilometri di reti metalliche e filo spinato intorno a tutta la Slovenia. Ora Janša promette di rafforzare i controlli. E annuncia di essere pronto a riaprire il centro di detenzione per migranti di Šenptij chiuso dal 2015.
A Celje la vita procede ordinatamente. Alle sei di sera scoppia un temporale. I camerieri ritirano i tavolini dei bar del centro storico. Non si vede un migrante nemmeno a cercarlo con il lanternino. Smette di tuonare. Di nuovo silenzio. Piazza Krekov è lucida di pioggia, al centro c’è la statua in memoria di Alma Karlin. Ha una valigia in mano. Partendo da qui, negli Anni Venti ha girato il mondo intero. Conosceva dodici lingue. La Cina. L’Australia. Le Americhe. Il suo scritto più famoso si intitola: «Odissea di una donna solitaria».
Corriere 6.6.18
Noi e l’Unione
L’Ungheria di Orbán , L’alleato sbagliato
di Franco Venturini
Non è esattamente la stessa cosa, voler migliorare la «casa» Europa o allearsi con quel gruppo di Visegrad che da tempo respinge i valori di solidarietà sostenuti da Bruxelles. Proprio sui migranti, oltretutto.
È troppo presto per criticare l’operato del governo. Il voto di ieri contro una modifica degli accordi di Dublino contraria agli interessi italiani sarebbe stato tale anche prima delle elezioni. Ma la «tentazione Visegrad» esiste davvero, e non corrisponde ai tanto decantati interessi nazionali italiani.
Cominciamo dal principio, cioè da quei migranti il cui contenimento rappresenta l’indiscussa priorità del ministro dell’Interno Salvini. Cosa mai può avere in comune l’Italia con il preannunciato compagno di strada Viktor Orbán? L’Ungheria non è circondata dal mare, lì non arrivano barconi. L’Ungheria non ha davanti l’Africa, con le sue massicce correnti migratorie. Quando si è sentita minacciata dai rifugiati siriani e afghani che tentavano di raggiungerla attraverso i Balcani, l’Ungheria di Orbán ha creato un «muro» al confine con la Serbia. Cosa che si può eventualmente fare soltanto alle frontiere terrestri. Quando Bruxelles ha proposto di aiutare Italia e Grecia dividendo i rifugiati per quote nei Paesi europei, l’Ungheria ha detto un sonoro «no» portando su questa posizione tutto il gruppo di Visegrad. Davanti alle proteste della Ue (e in particolare dell’Italia, visto che la via balcanica era stata chiusa), le autorità ungheresi hanno avanzato motivazioni anche religiose e razziali. Dobbiamo aggiungere che in Ungheria come in Polonia è ancora forte l’antisemitismo, e che la bestia nera di Orbán è il finanziere Soros, troppo ricco e forse troppo ebreo?
Viene da chiedersi quale sia la vera priorità di Salvini, se voglia giustamente che l’Italia venga aiutata dall’Europa sulla questione migranti, oppure se intenda prima di tutto colpire l’Europa. Nel primo caso farebbe bene a parlare con Merkel, con Macron, con il governo austriaco a partecipazione «populista» , insomma con coloro che hanno interesse a collaborare per affrontare un problema comune. Se invece vuole colpire l’Europa senza interessarsi più di tanto alla questione migranti, la scelta di Orbán e dei «quasi-scissionisti» di Visegrad è quella giusta. Come avrebbe consigliato Steve Bannon, se non lo ha fatto davvero.
Quasi scissionisti, perché i Paesi di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) guardano sì a Washington e alla Nato ben più che a Bruxelles. Rappresentano sì per l’Europa un problema ben più grave del divorzio negoziato della Gran Bretagna. Ma restano in Europa perché a trattenerli c’è una montagna di soldi che nel 2004 è stata tolta ad altri Paesi, Italia in primis, per favorire la «coesione» dei nuovi soci poveri. Il minimo sarebbe stato mostrarsi a loro volta solidali con l’Italia sul tema dei migranti, ma la risposta, come abbiamo ricordato, è stata picche.
La memoria degli italiani sembra essere talmente corta che quasi non vale la pena di ricordare, oltre ai nostri interessi, anche la nostra storia. Siamo, come ha ricordato ieri Conte, tra i fondatori dell’Europa. Siamo fino a prova contraria un Paese democratico, diverso dagli autoritarismi di Budapest e di Varsavia finiti sotto procedura disciplinare a Bruxelles. E il nostro risorgente nazionalismo, o sovranismo, sconta sì gli errori e le debolezze europee, ma non ha le giustificazioni storiche che possono essere individuate nella parte orientale dell’Europa. La Comunità europea nacque dopo la guerra per placare i nazionalismi tedesco e francese e scongiurare nuovi conflitti. Chi rimase intrappolato nell’impero sovietico, invece, dovette aspettare la fine del 1989 per dare sfogo al nazionalismo che Mosca aveva represso. Forse vanno capiti, in questo. Ma imitarli, o mettere in cantiere una alleanza paradossale e inutile, per l’Italia può essere soltanto un danno.
Il Fatto 6.6.18
Il silenzio infastidito del Pd di fronte alla parola “mafia”
di Peter Gomez
È certamente normale ed è sempre accaduto. In passato, anzi, durante alcuni passaggi dei discorsi per la richiesta di fiducia dalle opposizioni erano addirittura arrivati fischi e insulti. Eppure, visto che a parole tutti in Parlamento si dicono antimafia, ci è dispiaciuto vedere l’infastidito silenzio con cui quasi tutto il Pd e ovviamente Forza Italia hanno reagito alle tante frasi dedicate dal neo presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, alla lotta alla criminalità organizzata. Quando il premier ha detto “combatteremo con ogni mezzo le mafie aggredendo le loro finanze e la loro economia” i rappresentanti di M5S e Lega si sono alzati in piedi e mezzo Senato è esploso in un lungo e scrosciante applauso. Il forzista Paolo Romani invece armeggiava con il telefonino ostentando disinteresse. Altri suoi colleghi chiacchieravano tra loro, mentre gli esponenti dem restavano immobili, con le braccia conserte o le mani appoggiate sugli scranni, seguendo l’esempio di Matteo Renzi. Una scelta precisa, testimoniata dal fatto che proprio l’ex segretario del Pd avrebbe poi applaudito per primo e convintamente le parole di Conte dedicate alla permanenza dell’Italia nella Nato e all’alleanza con gli Usa.
Il contrasto tra i due atteggiamenti è stato plateale. E a rimarcarlo ancor più si è aggiunta pure la richiesta, rivolta dal senatore di Scandicci alla presidente Elisabetta Alberti Casellati, di stoppare lo slogan “Fuori la mafia dallo Stato” urlato dai banchi della maggioranza.
Come è giusto che sia, noi il nuovo governo giallo-verde, anche in fatto di lotta alle cosche e alla borghesia mafiosa, lo giudicheremo dai fatti e non dalle parole. Ci chiediamo, però, sulla base di quali valori il Partito democratico intenda rifondarsi. Stare semplicemente all’opposizione, scommettendo che i propri avversari portino il Paese al fallimento come più volte vaticinato, non ci pare la strategia migliore per sperare di risalire la china. Davvero Renzi e i suoi credono di riuscir a rappresentare la sinistra dimenticando che nel pantheon ideale di quella parte politica c’è, o ci dovrebbe essere, Pio La Torre? Fino a qualche anno fa chi votava per il Pd credeva e pensava che l’antimafia fosse uno degli elementi fondanti di quel partito. Certo, qualunque elettore vedeva che anche da quelle parti i casi di collusione c’erano (come vi sono nella Lega), ma un po’ come i cattolici, i simpatizzanti del Pd ripetevano “non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa”. Poi però anche la fede ha preso a vacillare. Il dogma dell’antimafia è stato dimenticato e negato. Il primo segnale è arrivato proprio con il discorso con cui Renzi aveva chiesto nel 2014 la fiducia per il suo governo. Allora i riferimenti alle mafie erano stati minimi, mentre non era stata spesa nemmeno una frase per ricordare l’enorme flusso di denaro (170 miliardi di euro) gestito ogni anno dai clan. Così Roberto Saviano aveva protestato. Ma dopo una lettera di Renzi piena di rassicurazioni, mattone dopo mattone, la narrazione antimafiosa del Pd era stata smontata. Dall’interno. Con gli attacchi a Rosy Bindi mossi dai suoi colleghi di partito; le alleanze siciliane con gli uomini di Totò Cuffaro; le ri-candidature di parlamentari indagati per reticenza durante il processo Mafia Capitale. E con lo stesso Renzi che definiva “una rappresentazione macchiettistica” una circostanza incontestabile: vi sono intere zone del Paese in mano alla criminalità organizzata. Poi è arrivato l’infastidito silenzio di ieri. Che ora pesa più di mille parole.
il manifesto 6.6.18
Liliana Segre: mi opporrò alle leggi contro i rom
In aula. Duro intervento della senatrice che ha risposto all'appello del professor Alberto Melloni,su Repubblica
di Liliana Segre
«Mi rifiuto di pensare che la nostra civiltà democratica sia sporcata da leggi speciali, se dovesse accadere mi opporrò con tutte le forze che mi restano». Ha preso per la prima volta la parola in aula al senato, Liliana Segre. E lo ha fatto per difendere i rom e i sinti. Rispondendo all’appello rivoltole dal professor Alberto Melloni, esperto di storia del cristianesimo, sulle pagine di Repubblica la senatrice a vita ha ricordato la sua esperienza ad Auschwitz. «Inizialmente suscitavano la nostra invidia di prigioniere perché nelle loro baracche le loro famiglie erano lasciate unite, ma presto all’invidia seguì l’orrore perché una notte furono portati tutti al gas e il giorno dopo in quelle baracche vuote regnava un silenzio spettrale».
Il riferimento era naturalmente alle parole del neo ministro dell’Interno Matteo Salvini che parla continuamente di ruspe per abbattere i campi rom. Lo stesso Salvini ha cercato di assicurarla rispondendo alle domande dei cronisti durante il voto di fiducia: le sue paure «sono infondate. Mi basterebbe solo il rispetto delle leggi normali e faremo di tutto per ottenere questo, ad esempio nel divieto di sfruttamento dei minori», ha detto Salvini. «A questo dedicherò particolare attenzione e penso che su questo sia d’accordo anche la senatrice Segre».
L’intervento di Liliana Segre – che poi ha deciso di astenersi nel voto di fiducia – è iniziato con un ringraziamento al presidente Mattarella che l’ha nominata «con una scelta sorprendente».
Poi la sua autodefinizione – «Una vecchia signora, una delle pochissime ancora viventi che porta sul braccio il numero di Auschwitz» – ha provocato l’applauso tutti in piedi dei senatori e dei banchi del governo.
«Si dovrebbe dare la parola a quei tanti che non sono tornati dai campi – ha continuato l’87enne milanese -, quelli che non hanno tomba, che sono cenere nel vento: salvarli dall’oblio non è solo un debito storico nei loro confronti ma serve ad aiutare gli italiani a reagire contro l’indifferenza a non anestetizzare le coscienze e ad essere più vigili nelle responsabilità verso gli altri».
Nella sua replica anche il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha voluto menzionarla: «La senatrice Segre ci ha fatto un grande regalo, ci ha restituito una pagina dolorosa della nostra storia. Non dobbiamo mai consentire l’oblio».
Il Fatto 6.6.18
Segre: “Mi opporrò a leggi speciali”. Salvini: “Paure infondate”
Per il premier Giuseppe Conte è stato “un grande regalo”: nel suo intervento in Aula, la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, ha rinfrescato la memoria sugli orrori del passato augurandosi che non si ripetano più: “Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra società democratica possa essere sporcata da leggi speciali nei confronti delle popolazioni nomadi. Se dovesse accadere, mi opporrò con tutte le forze che mi restano”. Nonostante la standing ovation dell’aula del Senato e il ringraziamento ufficiale di Conte, il ministro dell’Interno – a cui era chiaramente riferito l’intervento della senatrice a vita – non ha mancato di replicare a modo suo: “Sono paure infondate – ha detto Salvini –. Faremo in modo che rom e sinti rispettino le leggi normali, ad esempio per quanto riguarda il divieto di sfruttare i minori. Penso che su questo la senatrice Segre sia assolutamente d’accordo con me”. Quanto alla fiducia, Liliana Segre ha motivato così la sua astensione: “Ho conosciuto la condizione di clandestina e richiedente asilo, il carcere e il lavoro operaio, essendo stata schiava minorile. Per questo svolgerò l’attività di senatrice senza legami politici, ma seguendo la mia coscienza”.
Il Fatto 6.6.18
Per gli F-35 sono 1,3 miliardi. Che faccio ministro, lascio?
Acconto - Il 25 aprile Roma paga un piccolo anticipo per un nuovo lotto dei Caccia Usa. La nuova responsabile della Difesa confermerà l’acquisto?
di Enrico Piovesana
Cosa farà con gli F-35 la nuova ministra della Difesa Cinquestelle Elisabetta Trenta? Li taglierà come prevedeva la versione originaria del programma elettorale M5S? O andrà avanti sulla strada segnata dal precedente governo?
In attesa di scoprirlo, l’osservatorio MILX sulle spese militari italiane dà notizia di un nuovo ordine italiano a Washington per altri 8 F-35, forse qualcuno in più.
Il contratto, figlio della programmazione stabilita dall’ex ministra Pinotti, è stato firmato tra Pentagono e Lockheed Martin lo scorso 25 aprile, mentre l’Italia ancora senza governo celebrava la festa della Liberazione. Si tratta di un piccolo acconto da 10 milioni di dollari relativo ai velivoli dei lotti produttivi a basso rateo (Lrip) 13 e 14, vale a dire per almeno altri 8 nuovi aerei (6 F-35A convenzionali e 2 F-35B a decollo corto e atterraggio verticale) stando al più recente profilo di acquisizione reso noto l’anno scorso dalla Corte dei Conti – in cui compare il lotto 13 ma non il 14, che potrebbe essere uguale o maggiore. Nessun chiarimento è giunto dalla Difesa, interpellata in merito.
Gli 8 nuovi F-35 ordinati ci costeranno 730 milioni di dollari secondo le previsioni di Lockheed Martin (85 milioni di dollari per la versione A e 110 per la B, cifre fortemente contestate dagli esperti del settore), circa 1,3 miliardi di dollari secondo stime indipendenti (150 milioni di dollari per la versione A e 180 per la B tenendo conto dei costi del motore e degli interventi correttivi di retrofit).
Sommati ai 3 velivoli del lotto 12 ordinati un anno fa (contratto N00019-17 -C-0001 del 28 aprile 2017), il totale degli F-35 finora acquistati sale ad almeno 26, di cui 10 già consegnati (9 all’Aeronautica e uno alla Marina).
Il costo medio reale di ogni aereo è stato finora di circa 150 milioni di euro, ma per rendere pienamente operativi i velivoli pre-serie già consegnati e in consegna sarà necessario aggiornarne il software (la parte più importante e costosa) allo standard Block 4 spendendo circa 40 milioni di dollari in più per ogni aereo.
Il costo complessivo dei 90 cacciabombardieri F-35 che Roma prevede di comprare è di almeno 14 miliardi di euro (di cui 4 già pagati), più altri 35 miliardi di costi operativi e di supporto logistico per i trent’anni di vita operativa.
Il programma, come confermato dall’ultima relazione della Corte dei Conti, produce ricavi per l’industria (non per lo Stato) nell’ordine del 57% dei costi sostenuti (la metà del previsto) e a oggi ha una ricaduta occupazionale complessiva di 1.500 posti di lavoro, 900 a Cameri di cui 600 precari (ben lontani dai 6.400 posti promessi).
Un primo segnale delle intenzioni della neo-ministra Trenta sugli F-35 potrebbe venire già dal prossimo Documento Programmatico Pluriennale della Difesa: l’ultimo, redatto dalla Pinotti, stanziava per il programma 727 milioni quest’anno, 747 milioni nel 2019 e 2.217 milioni tra il 2020 e il 2022.
Il Fatto 6.6.18
Il silenzio infastidito del Pd di fronte alla parola “mafia”
di Peter Gomez
È certamente normale ed è sempre accaduto. In passato, anzi, durante alcuni passaggi dei discorsi per la richiesta di fiducia dalle opposizioni erano addirittura arrivati fischi e insulti. Eppure, visto che a parole tutti in Parlamento si dicono antimafia, ci è dispiaciuto vedere l’infastidito silenzio con cui quasi tutto il Pd e ovviamente Forza Italia hanno reagito alle tante frasi dedicate dal neo presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, alla lotta alla criminalità organizzata. Quando il premier ha detto “combatteremo con ogni mezzo le mafie aggredendo le loro finanze e la loro economia” i rappresentanti di M5S e Lega si sono alzati in piedi e mezzo Senato è esploso in un lungo e scrosciante applauso. Il forzista Paolo Romani invece armeggiava con il telefonino ostentando disinteresse. Altri suoi colleghi chiacchieravano tra loro, mentre gli esponenti dem restavano immobili, con le braccia conserte o le mani appoggiate sugli scranni, seguendo l’esempio di Matteo Renzi. Una scelta precisa, testimoniata dal fatto che proprio l’ex segretario del Pd avrebbe poi applaudito per primo e convintamente le parole di Conte dedicate alla permanenza dell’Italia nella Nato e all’alleanza con gli Usa.
Il contrasto tra i due atteggiamenti è stato plateale. E a rimarcarlo ancor più si è aggiunta pure la richiesta, rivolta dal senatore di Scandicci alla presidente Elisabetta Alberti Casellati, di stoppare lo slogan “Fuori la mafia dallo Stato” urlato dai banchi della maggioranza.
Come è giusto che sia, noi il nuovo governo giallo-verde, anche in fatto di lotta alle cosche e alla borghesia mafiosa, lo giudicheremo dai fatti e non dalle parole. Ci chiediamo, però, sulla base di quali valori il Partito democratico intenda rifondarsi. Stare semplicemente all’opposizione, scommettendo che i propri avversari portino il Paese al fallimento come più volte vaticinato, non ci pare la strategia migliore per sperare di risalire la china. Davvero Renzi e i suoi credono di riuscir a rappresentare la sinistra dimenticando che nel pantheon ideale di quella parte politica c’è, o ci dovrebbe essere, Pio La Torre? Fino a qualche anno fa chi votava per il Pd credeva e pensava che l’antimafia fosse uno degli elementi fondanti di quel partito. Certo, qualunque elettore vedeva che anche da quelle parti i casi di collusione c’erano (come vi sono nella Lega), ma un po’ come i cattolici, i simpatizzanti del Pd ripetevano “non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa”. Poi però anche la fede ha preso a vacillare. Il dogma dell’antimafia è stato dimenticato e negato. Il primo segnale è arrivato proprio con il discorso con cui Renzi aveva chiesto nel 2014 la fiducia per il suo governo. Allora i riferimenti alle mafie erano stati minimi, mentre non era stata spesa nemmeno una frase per ricordare l’enorme flusso di denaro (170 miliardi di euro) gestito ogni anno dai clan. Così Roberto Saviano aveva protestato. Ma dopo una lettera di Renzi piena di rassicurazioni, mattone dopo mattone, la narrazione antimafiosa del Pd era stata smontata. Dall’interno. Con gli attacchi a Rosy Bindi mossi dai suoi colleghi di partito; le alleanze siciliane con gli uomini di Totò Cuffaro; le ri-candidature di parlamentari indagati per reticenza durante il processo Mafia Capitale. E con lo stesso Renzi che definiva “una rappresentazione macchiettistica” una circostanza incontestabile: vi sono intere zone del Paese in mano alla criminalità organizzata. Poi è arrivato l’infastidito silenzio di ieri. Che ora pesa più di mille parole.
Repubblica 6.6.18
I nuovi profeti di Israele
di Amos Oz
Mi chiedo spesso perché organizzazioni israeliane quali Breaking the Silence (Shovrim Shtika, “ Rompere il silenzio”), B’Tselem e Peace Now suscitino in tante persone sentimenti di paura, rabbia e ostilità. E non solo tra i simpatizzanti dell’estrema destra, ma anche tra molti che dicono di collocarsi al centro dello spettro politico. Questa ostilità non può essere spiegata soltanto sostenendo che chiunque si opponga a Breaking the Silence è un razzista, né che si stia cercando di far tacere le nostre voci: la stragrande maggioranza dei nostri avversari non lo fa. Neppure possiamo dire che tutti i nostri avversari odino gli arabi, perché, in gran parte, non è così.
Qual è il problema allora? Gli israeliani vogliono sentirsi in pace con se stessi e Breaking the Silence impedisce loro di stare bene. Le persone vogliono che lo Stato di Israele goda di una buona immagine, ma, a loro avviso, Breaking the Silence e B’Tselem ne promuovono una negativa. È ben comprensibile che una maggioranza degli israeliani provi disagio davanti a un’immagine negativa dello Stato di Israele. Essi credono, sbagliando, che a promuovere l’immagine negativa sia chi denuncia le distorsioni morali del Paese. Invece, una delle ragioni per cui il popolo ebraico non è stato sradicato in migliaia di anni è che nella nazione ebraica da sempre sono stati numerosi i coraggiosi pronti a denunciare le distorsioni sociali e le ingiustizie.
Tutti quelli che odiano Breaking the Silence dovrebbero riflettere su una cosa: la forza morale è necessaria per la sopravvivenza di una nazione. La nostra grandezza morale non è una sorta di gioiello da tenere in cassaforte e da brandire con splendore soltanto quando sarà finita la guerra, sarà ripristinata la normalità o ci saranno stati quarant’anni continuati di pace.
No. La forza morale, specialmente in tempo di guerra, è urgente tanto quanto i primi soccorsi su un campo di battaglia. Non dovremmo svilire chi desidera sentirsi in pace con se stesso. Tuttavia, forse sarebbe bene fare loro familiarizzare con qualcosa che quasi tutto il mondo sa: che uno dei pochi motivi per i quali gli israeliani possono ancora sentirsi in parte in pace con se stessi e davanti agli altri paesi è proprio che abbiamo organizzazioni quali Breaking the Silence, B’Tselem e Peace Now, che la lotta per raggiungere la giustizia sociale non si ferma mai e che continuiamo ad avere una stampa più o meno libera. Nonostante l’ingiustizia e lo sfruttamento degli svantaggiati, io continuo ad amare Israele. Amo questo Paese anche nei momenti in cui non lo sopporto. Lo amo per la sua lunga tradizione di accesi dibattiti interni e per la sua ricerca della giustizia. Sono molte le persone che si domandano: « Perché non possiamo risolvere le nostre differenze in modo discreto?». Ebbene, perché i tempi sono cambiati e gli “occhi del mondo” non sono più discreti. Sono finiti i giorni in cui si poteva sussurrare qualcosa in cucina senza che tutti lo sapessero il giorno dopo. Fa bene aprire le ferite appena possibile davanti a tutto il mondo, non solo per le vittime, ma anche per il bene di tutti. Per il bene della società israeliana. Accade qualche volta nella storia che qualcuno qualificato dalla maggior parte della sua gente come un traditore finisca per essere considerato un maestro.
È il caso di chi si schierò con il profeta Geremia, che disse ai figli di Gerusalemme: «Non dovete credere che il vostro alleato eterno sia veramente il vostro alleato eterno, perché improvvisamente egli potrebbe diventare uno di cui non ci si può fidare». I contemporanei di Geremia li tacciarono di essere «traditori» e di «sinistra» e le autorità li gettarono in un pozzo. Oggi, tuttavia, il popolo di Israele ricorda con affetto Geremia, non i suoi accusatori.
La storia dell’avventura sionista inizia con Benjamin Ze’ev Herzl, il visionario che concepì lo Stato ebraico, l’uomo onorato persino dal movimento di destra Im Tirtzu.
Forse scordano che fu proprio Herzl a pensare all’Uganda come alternativa a Israele per ospitare la patria ebraica. David Ben-Gurion, il fondatore dello Stato ebraico, fu per qualcuno un traditore. Menahem Begin, che si ritirò dal Sinai perché ci fosse pace, fu per i membri del suo movimento un traditore.
Shimon Peres e Yitzhak Rabin, che strinsero la mano a Yasser Arafat alla ricerca di un accordo che ponesse fine al conflitto tra Israele e i palestinesi, furono definiti da molti « traditori » . Da parte sua, anche Anwar el Sadat, che si recò a Gerusalemme, parlò davanti alla Knesset e firmò la pace con Israele, era ed è considerato da milioni di arabi un traditore. Ariel Sharon, i cui bulldozer rasero al suolo gli insediamenti ebraici a Gaza che lui stesso aveva approvato, fu definito anch’egli un traditore.
È evidente che i cittadini hanno un debito molto più grande verso chi ha rotto il silenzio che non verso chi ha taciuto. Rompere il silenzio non è necessariamente una questione di schieramento di sinistra o di destra. Al contrario. Anche nella sinistra israeliana continuano a esserci dei silenzi che dovrebbero essere rotti una volta per tutte. Noi ebrei abbiamo una lunga tradizione che ci insegna che tutti quanti hanno il diritto e persino il dovere di censurare il popolo e i suoi leader e chiunque faccia versare sangue innocente. La nostra tradizione ci permette persino di insultare Dio. Ci sono accuse contro Dio fin dai tempi della Bibbia. E dunque? L’Esercito israeliano è il solo a godere d’immunità eterna e assoluta? Non sto dicendo che un giorno la storia vedrà gli attivisti di Breaking the Silence come discendenti dei profeti: forse sì, forse no. Il tempo lo dirà. Quello che invece possiamo affermare ora è che chi oggi lancia pietre discende da chi lanciò pietre contro i profeti di Israele.
Traduzione di Guioma Parada
Repubblica 6.6.18
Homi K. Bhabha “Ibridi e cosmopoliti così sfideremo l’onda populista”
Intervista di Giancarlo Bosetti
Homi Bhabha, 68 anni, tra le figure intellettuali più note al mondo degli studi post-coloniali (quella ispirata a Franz Fanon, Edward Said), indiano di Mumbai, formazione inglese, poi naturalizzato americano, in cattedra a Harvard; identità “ibrida”, direbbe lui — «non appartengo a una nazione, ma a una comunità, a molte comunità sovrapposte» — ; di casa dove c’è poesia, arte, letteratura (tradotto in italiano il suo I luoghi della cultura, Meltemi, 2001). È un campione riconosciuto di quelle “élite cosmopolitiche”, additate dai nemici come colpevoli, perché troppo attente ai diritti delle minoranze e poco, dicono, alle sofferenze delle maggioranze, bianche e occidentali.
Caro professor Bhabha, oggi è cosmopolitiche in America e in Europa non è più un complimento. Il postcolonialismo e con lui la cultura dei campus americani (la differenza, il politically correct) sono tra i “soliti sospetti”, quando si cercano le cause dell’onda populista.
«Ah certo, i “maggioritari” puntano il dito in questo modo, ma quelli che parlano a nome delle maggioranze religiose (come Modi e il suo partito in India) o di pelle bianca (come Trump in America e i populisti europei), sono loro a rappresentare oggi le élite, economiche e politiche. A chi punta il dito verso di me rispondo che non ci sto. Per essere più chiaro, dobbiamo dirci che oggi il linguaggio delle élite è quello di Steve Bannon, è quello di Trump. Ed è il linguaggio della barbarie».
Ma come spiega che questo estremismo riesca a prevalere?
«Quelli come Trump prevalgono perché hanno deciso di affrontare fallimenti e frustrazioni provocate da globalizzazione e iniquità sociali ricorrendo al “nazionalismo tribale” (parole che prendo da Hannah Arendt), un tipo di nazionalismo in cui la maggioranza si deve sempre presentare come la minoranza oppressa. E funziona molto bene. Alla sua domanda risponde perfettamente lo stesso Bannon, che lo ha spiegato in una intervista all’Economist: per quanti cambiamenti i politici tradizionali, di sinistra o di destra, cerchino di fare, con la sanità, il welfare e le infrastrutture, niente è più potente di questo ultranazionalismo. Per questo, ha confessato, hanno deciso “to go barbarian”, di diventare barbarici. La frase è proprio sua».
La politica democratica e liberale aveva dimenticato le maggioranze?
«Davvero difficile sostenerlo. Le riforme fatte e tentate negli Stati Uniti e altrove per aiutare le minoranze non hanno in nessun luogo rovesciato i sistemi economici. Nessuno può dire che la affirmative action in favore dei neri sia il motore fondamentale del sistema educativo americano, idem per la sanità.
Ma in una situazione di contesa politica in cui la democrazia non è più un metodo deliberativo, un confronto sul bene comune, ma un tit for tat, quel che non è mio è tuo, un gioco a somma zero, allora si affermano movimenti concentrati su un punto: per l’antisemitismo erano gli ebrei, per i maggioritari di oggi è l’emigrazione internazionale».
Da qui i muri. Lei parla di un “labirinto di filo spinato”.
«È un’altra immagine coniata dalla Arendt per i regimi totalitari. È un aspetto molto specifico delle migrazioni, quello del linguaggio con cui migranti e rifugiati parlano della loro esperienza che è allo stesso tempo di vita e di morte, come uno stare da qualche parte negli interstizi tra l’una e l’altra. C’è una crisi molto più lunga e profonda di quella che la parola “migrazioni” indica, c’è un intero mondo vitale di minoranze senza patria e senza stato, esseri umani denigrati, discriminati, menomati. Il problema che voglio illustrare è quello di come trattiamo linguisticamente, filologicamente, eticamente questa condizione, non la politica».
Ma la questione politica si impone, perché il problema migrazioni è diventato un fattore determinante che condiziona le società occidentali.
«In ogni situazione di integrazione o assimilazione (e comunque la chiamiamo è un processo relazionale) se non prendiamo sul serio il senso di ansia della popolazione ospitante, allora siamo politicamente irresponsabili.
Perciò credo che ogni politica intorno ai migranti e all’accoglienza dei rifugiati deve affrontare seriamente le paure di popolazioni residenti che vedono un mondo che gli sta cambiando intorno».
Dunque condivide le preoccupazioni delle maggioranze ospitanti.
«Sì ma mi chiedo perché in tutte le situazioni di crisi il punto di rottura avviene intorno a differenze etniche, di colore e razza. Sarebbe perfettamente ragionevole per la maggioranza dire: non abbiamo lavoro, il nostro nemico è la disoccupazione. Perché invece ansia e antagonismo prendono forma discriminatoria e razzista? Qualunque cosa si pensi dell’epidemia di oppioidi e psicofarmaci in America, messicani e neri americani stanno peggio dei disoccupati bianchi e non si possono indicare come la causa del problema».
Un legame di identità nazionale vale per i mondi colonizzati dei suoi studi, ma anche per le società occidentali, vale per il West come per il “Rest”. Non è possibile una versione liberale del nazionalismo?
«A certe condizioni è certo possibile con riforme, educazione, sanità, con più equità sociale. Quello che ci servirebbe oggi è un “cosmopolitismo vernacolare”, capace di tenere insieme migranti e diversità di classe, di etnia, di lingua, in uno spirito che sappia alzare lo sguardo oltre i confini. In diversi momenti del XX secolo questo è stato possibile quando è prevalsa una apertura mentale al fatto che la tua nazione era inserita in un mondo e che tu non potevi davvero godere della tua libertà se c’erano altri paesi in cui la libertà era negata. Dobbiamo rifiutare la visione barbarica e soprattutto l’idea che le differenze di razza e di genere, che le minoranze, le donne, possano essere viste come la causa del collasso dell’ordine pubblico».
Il Sole 6.6.18
Starbucks perde il suo presidente Howard Schultz sarà l’anti-Trump
di Riccardo Barlaam
Sotto la sua guida la catena in quarant’anni è passata da undici locali a 28mila
Dopo la notizia dell’addio il titolo a Wall Street è caduto di oltre il 3%
«È arrivato il momento di pensare a una serie di cose per me, dalla filantropia al servizio verso la comunità. Ma la strada per capire quale sarà il mio futuro è ancora lunga». Howard Schultz, 64 anni, presidente e da quarant’anni in Starbucks in una lettera ai dipendenti ha annunciato la sua intenzione di lasciare la guida della multinazionale del caffè. Dal 26 giugno non sarà più presidente esecutivo e si occuperà solo dei programmi di social responsibility. Sotto la sua guida Starbucks è passata da undici a 28mila caffetterie in 77 paesi. Nel 2017 si era già dimesso da amministratore delegato. Lasciando la carica al suo fedele collaboratore Kevin Johnson. L’uscita di scena di Schultz è la fine di un’era per Starbucks, che ha portato la società a diventare un simbolo della cultura americana. Dopo la notizia le azioni a Wall Street sono affondate, arrivando a perdere oltre il 3%.
Secondo molti osservatori Schultz si prepara a entrare in campo con i democratici alle prossime elezioni presidenziali americane, il 3 novembre 2020, per sfidare Donald Trump. Già nel 2016 il manager fu sul punto di presentarsi nelle file dei democratici. Si tirò indietro all’ultimo, quando comprese che Hillary Clinton avrebbe vinto la nomination. Non si candidò ma sostenne lealmente Hillary durante la campagna elettorale, non menzionando mai Trump, con un chiaro endorsement: «Spero che Hillary Clinton verrà eletta presidente degli Stati Uniti e spero si possa cominciare a vedere crescere il senso di comunità in politica», disse allora.
Starbucks continua a correre, e continuerà a farlo anche senza di lui. Nei prossimi cinque anni aprirà tremila nuove caffetterie in Cina. Nel 2017 il gruppo ha avuto ricavi per 22,3 miliardi $, con una capitalizzazione di 78,8 miliardi, un utile lordo di 6,8 miliardi e un margine operativo del 30%. Di recente, Starbucks ha ceduto a Nestlé, per 7,2 miliardi $, l’esclusiva per la vendita dei suoi pacchetti di caffè, thè e bevande a marchio. E a settembre aprirà il suo primo locale in Italia. A Milano, in piazza Cordusio con una caffetteria torrefazione da 2mila e 400 metri quadri dove a regime lavoreranno 300 persone.
Negli ultimi anni, accanto alla crescita della sua creatura, Schultz ha maturato una visione da “servent leader”, da quando tornò a lavorare nel 2008 dopo una malattia. L’ultimo episodio, nelle scorse settimane, rivela questa sua attitudine verso la società civile: dopo l’arresto di due neri in una caffetteria di Philadelphia, ha obbligato tutti gli 8mila dipendenti americani a frequentare un corso di formazione anti-discriminazione. Ha chiuso per un pomeriggio tutti i locali negli Stati Uniti. Perdendo, ovviamente, un pomeriggio di ricavi. Diversi azionisti lo hanno criticato per la spesa eccessiva di quel training anti-razzista. Schultz - che ha un patrimonio personale stimato di 3,2 miliardi - non ha voluto sentire ragioni. Le elezioni del 2020 non sono poi così lontane.
Repubblica 6.6.18
Perché la poesia ha scelto di non cedere al successo
Riflessioni sull’ultima raccolta di Enrico Testa
di Alberto Asor Rosa
Più volte ho lamentato nel corso degli ultimi anni che la poesia italiana (contemporanea? Più esattamente degli ultimi due-tre decenni), pur essendo in diversi casi di alto o altissimo livello, non gode dei favori del pubblico come meriterebbe.
Come mai? Il fatto è che la poesia, non solo per motivi strutturali, ma anche per deliberata scelta dei suoi autori e delle sue (numerose) autrici, interpone tra la propria ricerca e la propria fortuna mondana una scelta espressiva, che è ancora di élite, insensibile al fascino del successo montano, cui invece la prosa narrativa è decisamente, e sempre più, attenta ed incline. La scelta elitaria per altro, non vuol dire in questo caso parlare soltanto dei propri ristretti casi personali con un pubblico altrettanto intenzionalmente ristretto. Vuol dire parlare di casi generali, anzi spesso generalissimi, ma in maniera tale che non ci sia concessione alcuna ai linguaggi dei media e della massa, cioè della consuetudine e dell’ovvio, come invece, appunto, la prosa narrativa tende sempre di più a fare, perché farlo significa entrare più facilmente nei circuiti del successo. Un caso esemplare di tutto questo, sia dal punto di vista tematico sia dal punto di vista linguistico, è quello di Enrico Testa. Prima di quest’ultima raccolta poetica, Cairn (Einaudi), ricorderò soltanto quella immediatamente precedente, Ablativo (del 2013), e una ricca antologia di poeti italiani del tardo Novecento, Dopo la lirica (del 2005), che è, più o meno esplicitamente, una dichiarazione di poetica per interposte opere o persone. Ligure autentico, - il che nella storia della cultura letteraria italiana significa pure qualcosa, punta a dire cose essenziali, ma senza mai indulgere a un eccesso di confidenza. Come dire: le cose per me stanno così; te le spiego; ma non vedo oltre un possibile confine del dicendum: al di là di questo te la devi cavare da solo, gli elementi per andare avanti io te li ho dati tutti. Testa racconta il disagio contemporaneo: l’esserci, e al tempo stesso il non esserci; il volere, che il più delle volte è il non potere; la manifestazione di un desiderio superstite, che però non approda a conquiste che non siano meramente consolatorie.
Non a caso la raccolta s’intitola Cairn: ossia, «mucchi di pietre come monumenti sepolcrali preistorici, arcaiche tombe»; ma anche, «in epoca moderna, i segnavia sui tragitti montani per indicare la prosecuzione di un sentiero». Residui del passato, situazioni, sentimenti, impressioni radicati nella corteccia umana più profonda – che tuttavia possono ancora fornire una traccia per il presente. La poesia, - le poesie, - di Testa consiste in strofe che cominciano sempre con una lettera minuscola e finiscono senza nessun segno d’interruzione: ognuna di queste poesie, - anzi, di queste strofe - fa parte di un discorso continuo, che va colto nella sua interezza.
Mi ha colpito che questa volta, nel ritmo cadenzato e paracolloquiale di questa poesia, s’imponga cammin facendo un contesto fatto di rovine, seccume e dissoluzione. Le piante, ad esempio: «le ombre lunghe dei larici sul prato»; le «fioccose anime dei pioppi»; «un rigoglioso ciuffo d’ortiche», oppure gli animali, muti testimoni e al tempo stesso involontari partecipi del degrado: «le iene maculate dai denti gialli»: «le piccole volpi meste e diffidenti»; i «neri millepiedi»; oppure gli spettacoli del degrado urbano e ambientale: «il rugginoso ciglio di binari»; «bottiglie di plastica e lattina accartocciate»; la «biglietteria rugginosa». Su questi sfondi di riferimento e al tempo stesso di commento il discorso di Testa procede senza sforzo a intessere la propria tela, soffermandosi e approfondendo con pazienza là dove potrebbe emergere un’esigenza di chiarimento. È un piacere intellettuale, oltre che poetico, seguirlo nella sua inesausta peregrinazione.
Il Fatto 6.6.18
Bob Kennedy, la faccia morale dell’America finita nel sangue
Le lotte contro la segregazione razziale e le marce per i diritti dei latinos
di Furio Colombo
Quando cominci a parlare – nel mio caso, a riparlare – di Robert Kennedy, ti accorgi che qualcosa di diverso, di insolito e anche di difficile da spiegare, segna il ricordo e la riflessione, rispetto a ogni altro politico. Per esempio, con Robert Kennedy sei entrato nella segregazione razziale che conosceva ancora il linciaggio, e sei uscito in un mondo di diritti ottenuto con una sfida che è stata insieme di popolo e di governo, di grandi manifestazioni di massa combattute contro una polizia accanitamente ostile (cani lupo, bastoni e pompe d’acqua), ma con a fianco un ministro della Giustizia disposto, con le truppe federali, a tener testa a un governatore che aveva già schierato la sua guardia nazionale intorno alla sua università segregata. Il governatore Wallace, a gambe divaricate, davanti al portone da non valicare, ha spiegato: “Sono stato eletto per questo”. Il ministro della Giustizia, Robert Kennedy, ha risposto. “Sei stato eletto giurando sulla Costituzione”. Kennedy ha precisato che un’Alabama fuori dalla Costituzione sarebbe stato anche fuori dagli Strati Uniti. Quella stessa sera il primo afroamericano ha fatto il suo ingresso nell’università fino ad allora segregata.
Questo episodio, come tanti durante la lotta per i diritti civili, ci dice molto della tenacia e della forza morale di Robert Kennedy. Ma voglio far notare che ho detto forza morale, non forza politica. Politicamente Kennedy non era né più grande né più forte dei suoi elettori democratici al Congresso e nel Paese. Tutti sapevano tutto dell’esclusione e umiliazione dei neri, e non avevano, fino a quel momento, mosso un dito. Ma durante la lotta per i diritti civili, che ha visto il governo americano (in prima fila il ministro della Giustizia) schierato dalla parte degli umiliati e offesi, è emerso un aspetto nuovo, unico e breve nella politica americana: la forza morale. Comincia qui la presenza di un fatto nuovo di cui è rappresentante e portatore Robert Kennedy. Non è la politica che affronta il problema della spaccatura razziale del Paese, non saprebbe come e non può perché.
Il conflitto nasce completamente fuori dalla politica, e – attraverso la voce di Martin Luther King –, diventa la grande questione morale. Robert Kennedy la raccoglie e capisce che quella è la strada che va al di là del razzismo, al di là della vita dei poveri,
al di là delle disuguaglianze mortali. E, poco dopo, al di là e contro la guerra nel Vietnam.
Robert Kennedy si rende conto di essere entrato (fin dall’uccisione di suo fratello) nell’area della non convenienza, che dissuade ogni politico, nell’area del pericolo, perché ti opponi troppo a troppe cose che hanno un peso (e un costo) troppo grande. La sua immagine, sempre più amata e seguita da masse di giovani, si contrappone a volti e poteri non visibili.
Il fenomeno strano, che resta unico nella nostra memoria, è che “la sua strada sbagliata” (cito il senatore Humphrey, democratico e amico di famiglia che rimproverava a Robert Kennedy) gli porta un successo popolare immenso che, subito prima di essere ucciso, ha travolto l’America.
Ho vissuto giorno per giorno quell’ultimo periodo di febbre affettuosa ed entusiasta, una febbre sempre più grande. Ho partecipato, giorno per giorno, all’ultima campagna elettorale di Robert Kennedy e ricordo, ogni sera, le mani piagate da decine di migliaia di strette di mano. Ma adesso, mentre ne scrivo nel giorno dell’anniversario del suo assassinio, non riesco a non ricordare un altro evento di cui Robert Kennedy è stato protagonista. È accaduto due anni prima. L’ex ministro della Giustizia si era messo alla testa di una lunga marcia dei raccoglitori di uva messicani, portati in California come clandestini, per raccogliere l’uva di immense coltivazioni per paghe inesistenti. La marcia a piedi partiva da El Centro e arrivava a Sacramento, e accanto a Robert Kennedy c’era Cesar Chavez, improvvisato sindacalista dei contadini senza paga, uomo intelligente e analfabeta, capace di tener testa alle televisioni in modo da coinvolgere l’intera America in un famoso “sciopero dell’uva”.
Ecco, ripensando e rivedendo la testa del giovane leader assassinato, mentre viene scrutata dai flash e dalle telecamere, sul pavimento dell’Hotel Ambassador, mi ricordo di quella marcia in cui Robert Kennedy e Cesar Chavez parlavano insieme alla folla, l’uno nello spagnolo dei campi, l’altro nel suo inglese di Harvard. E mi domando: può esistere una santità laica? E come mai, adesso, il luogo in cui viviamo (dall’America di Kennedy all’Italia di Spinelli e Colorni) sia diventato un mondo carogna, con le frontiere di filo spinato a lama di rasoio, in modo che i bambini con la faccia sfregiata siano i primi a imparare che le frontiere non si attraversano?