La Stampa 6.6.18
Non siamo Stato noi
di Mattia Feltri
Permettete
il riassuntino: sabato sera Luigi Di Maio presenta alla piazza
galvanizzata un imprenditore fallito per l’insolvenza dello Stato. La
piazza rumoreggia e Di Maio la placa: «Non fischiate, adesso lo Stato
siamo noi» (e si badi all’uso di «adesso»). Una blasfemia. Lo Stato non
siamo noi che abbiamo vinto le elezioni, noi al governo: lo Stato siamo
noi tutti quanti. Lo Stato siamo noi, come la intende Di Maio, declinata
al plurale, è roba da Re Sole, che la declinò al singolare. Bene, il
giorno dopo salta su Carla Ruocco, simpatica pasionaria, e ci dà delle
capre, siccome quella di Di Maio era «una citazione in onore di Piero
Calamandrei, uno dei nostri padri costituenti»; e posta la copertina di
un libro di Calamandrei il cui titolo è, appunto, «Lo Stato siamo noi».
Solo che dei libri non bisogna leggere la copertina e basta, sennò si
rischia di cadere in equivoco. Bisogna leggere anche tutte quelle parole
fitte fitte che vengono dopo, sebbene occupino tante tante pagine. Se
la nostra Carla lo avesse fatto, avrebbe scoperto due cose. Prima:
Calamandrei non ha mai detto né scritto «lo Stato siamo noi», quello è
il titolo applicato a una raccolta definitiva e postuma dalla editrice
Chiarelettere. Seconda: l’idea di Calamandrei, ben spiegata
nell’introduzione del professore Giovanni De Luna, era l’opposto di
quella di Di Maio, inclusiva e non esclusiva: nessuno è lo Stato, tutti
devono essere lo Stato, un caposaldo della religione civile
repubblicana. Però, visti i tempi, non avevano ragione né il Re Sole né
Calamandrei ma, parafrasandolo, Caparezza: «Non siamo Stato noi».