La Stampa 5.6.18
Porti, business e ferrovie
Così la Cina sfida l’America e domina i mari da Gibuti
di Francesco Semprini
La
colonna di camion procede a passo misurato sollevando coltri di polvere
sotto lo sguardo incuriosito di ragazzini, ambulanti improvvisati e
vagabondi nascosti tra le lamiere abbandonate. Almeno duemila mezzi
pesanti attraversano ogni giorno il tratto di strada costeggiato dalle
recinzioni militari, che si susseguono come un leitmotiv da avamposto di
frontiera. Siamo a Gibuti, la nuova terra delle opportunità, realtà
minuscola ma cruciale, che le dinamiche geo-strategiche del nuovo
Millennio hanno riportato al centro del pianeta.
Seguiamo la
colonna di camion sulla strada che sbocca in Etiopia, per raggiungere la
base militare italiana di supporto (Bmis) comandata dal colonnello
Lorenzo Guani. Anche l’Italia ha conquistato «il suo posto al sole» con
cui punta ad avere una «golden share» in questo minuscolo Stato da un
milione di abitanti dove le nuove potenze, Cina ed Emirati in testa, si
contendono posizioni dominanti.
Dopo l’11 settembre
Il
rinato interesse per Gibuti è attribuibile a collocazione geografica e
valenza politica, sempre schierato con l’Occidente contro il terrorismo,
è stato tra i primi Paesi che, dopo l’11 settembre 2001 ha preso le
posizioni degli Usa, aprendo alla presenza delle basi militari
occidentali. La sua collocazione geografica sullo stretto di Bab
al-Mandeb, alle porte del Mar Rosso, sulla rotta di navigazione
dall’Europa al Golfo, la rende un luogo di grande valore strategico per
il controllo dei traffici e il contrasto dei flussi terroristici e di
migranti diretti verso il Mediterraneo: unico porto del Corno che si
trova in terra sicura. «Questo è ben chiaro ai cinesi che hanno fatto di
Gibuti un hub, un punto di snodo della “silk belt”, la via della seta
marittima che giunge in Grecia e Italia», spiega il console onorario
Gianni Rizzo. La forza del Dragone è riflessa nella base militare di
recente costruzione. Una specie di castello medievale con tanto di torri
e merli, una fortezza in stile «blade runner» che può ospitare oltre 5
mila uomini e dotata di un grande ospedale.
La centralità di
Pechino è sottolineata dallo stesso Ismaïl Omar Guelleh, presidente di
Gibuti: «Nessun altro Paese al di fuori della Cina ci offre supporto a
lungo termine».
Porti, strade e ferrovie
Sono almeno dieci i
grandi progetti infrastrutturali che vedono la Cina protagonista, tra
porti, strade e ferrovie, e che stanno scalzando gli Emirati che pure
vantano una presenza importante nel Paese. Lo stesso governo gibutiano
ha nazionalizzato a febbraio la quota emiratina del porto di Doraleh a
causa dell’inasprimento delle relazioni tra i due Paesi iniziato col
diniego di costruzione di una base militare agli Emirati. Oltre ai
francesi, presenti da sempre per motivi coloniali, il piccolo Stato del
Corno d’Africa ospita una base Usa, dalla quale partono le missioni
Africom dirette in Somalia, una base cinese e la prima base militare
giapponese costruita fuori dal territorio nipponico dopo la Seconda
guerra mondiale. Anche l’Arabia Saudita ha annunciato di recente la
costruzione di un suo insediamento militare. Gli Emirati, invece, si
sono posizionati ad Assab, in Eritrea, e nel Somaliland.
La
mappatura militare conferma come la presenza delle rispettive forze
armate sul territorio rappresenta un apripista per rafforzare i
rispettivi interessi nazionali in questa terra, animata da forte
concorrenza, ma che offre ancora nicchie importanti per le aziende
italiane. «La nostra è la prima base interforze che l’Italia vanti
all’estero», spiega il comandante Guani. Fondamentali sono le attività
di assistenza alla popolazione attraverso la Cellula Cimic,
(Cooperazione civile Militare) proveniente dal Multinational Cimic Group
di Motta di Livenza. Inoltre «è la base più aperta di tutta Gibuti»,
con iniziative di diplomazia militare che vedono riuniti attorno allo
stesso tavolo ufficiali giapponesi e cinesi.
Le forze in campo
L’Italia
infine ha portato a termine la prima esercitazione per l’assistenza
medica con le forze di Pechino. C’è poi il ruolo svolto dai Carabinieri
(Prima e della Seconda Brigata mobile Tuscania), nell’ambito della
Missione Italiana di addestramento (Miadit) con cui si preparano
mediamente 180 poliziotti somali e 225 fra poliziotti e gendarmi
gibutini, oltre a ufficiali, reparti investigativi, forze speciali con i
Gis, e addestratori. Ci sono poi gli specialisti del Nucleo tutela
patrimonio artistico (i caschi blu della cultura), inviati sul posto per
addestrare gli omologhi locali. E per finire il personale civile
inviato dal Comlog (Comando Logistico Esercito) come «squadra a
contatto» per risolvere problematiche tecniche di optoelettronica e
telecomunicazioni. Un impegno a tutto campo, insomma, quello delle forze
armate italiane a Gibuti che però richiede una tempestiva e adeguata
azione strategica delle istituzioni a sostegno degli interessi nazionali
nella regione, come ribadisce il console Rizzo, che al nuovo governo
chiede «maggiore attenzione a questa realtà, che rappresenta l’unica
porta di ingresso a tutto il Corno d’Africa».teresse per Gibuti è
attribuibile a collocazione geografica e valenza politica,