il manifesto 2.6.18
Picasso 1932, una mano dipinge l’altra esplora
a
Londra, Royal Academy, "Picasso 1932: Love, Fame, Tragedy". A Olga si
affianca Marie-Thèrese, e la bigamia si traduce sulla tela in una teoria
di immagini sdoppiate... Con oltre cento opere divise mese per mese, la
mostra fotografa un anno spartiacque, che «contiene» già tutto Picasso
di Stefano Jossa
LONDRA
Fu un anno di capolavori assoluti, da Le rêve del 24 gennaio ai due
grandiosi nudi dell’8 e 9 marzo (Femme nue, feuilles et buste e Femme
nue couchée) fino a Femme couchée à la mèche blonde del 20 dicembre; ma
fu anche un anno di profonda crisi personale e artistica. Aveva
cinquant’anni ed era già considerato il più grande, ma sentiva il
bisogno della consacrazione: il 16 giugno apriva alla galleria Georges
Petit, al numero 8 di rue de Sèze, nel IX arrondissement, la sua prima
retrospettiva, che veniva accompagnata dal catalogo ragionato di tutte
le sue opere curato da Christian Zervos, il fondatore e direttore della
rivista d’arte contemporanea più importante del momento, i Cahiers
d’Art. Un numero speciale della rivista con scritti, fra gli altri,
dello stesso Zervos, Apollinaire, Strawinsky, Gueguen, Gomez de la
Serna, Cocteau e Sweeney, usciva in coincidenza con la mostra. Il suo
nome era Pablo Picasso, sinonimo di arte contemporanea. Pochi mesi prima
un suo quadro, La coiffure del 1905, era stato venduto per la cifra
record di 56.000 franchi.
A quell’anno determinante di una vita
durata 91 anni, per cui alla fine sarebbe diventato meno della metà
sulla linea della sua attività artistica, il Musée National Picasso e la
Tate Gallery hanno deciso di dedicare un’intera mostra: Picasso 1932:
Love, Fame, Tragedy, fino al 9 settembre (catalogo Tate Publishing in
paperback, pp. 272 con 290 illustrazioni, sterline 25). A quel tempo
Picasso non sapeva che avrebbe continuato a lavorare per altri
quarant’anni, ma oggi noi lo sappiamo e ci chiediamo se sia legittimo
concentrarsi su un solo anno di una carriera così intensa. I curatori
della mostra, Achim Borchardt-Hume e Nancy Ireson, coadiuvati da Laura
Bruni e Juliette Rizzi, non hanno avuto dubbi: quell’anno contiene il
prima e il dopo, include tutto Picasso, è Picasso. Non segna una fine e
un nuovo inizio, una sistemazione e un rilancio, un’assunzione del
passato e una proiezione verso il futuro. Sarebbe un anno di
transizione, come tutti nella vita e nella storia. Lì, nel 1932 di
Picasso, si verifica invece un fenomeno stupefacente: la vita e la
storia si fermano. Il tempo è azzerato: tutto è compresente.
Con
la retrospettiva alla galleria Petit Picasso sfidava prima di tutto la
storia, per entrarci di prepotenza, al di sopra di chiunque altro: su un
piedistallo antistorico, perché le classifiche guardano all’assoluto,
ignorando contesti e cronologie. Lì, nella galleria Petit, aveva avuto
una retrospettiva due anni prima il suo grande collega e rivale Henri
Matisse, più vecchio di dodici anni (alla loro gentle rivalry ha
dedicato nel 2001 un documentario Ginny Martin: da vedere), togliendogli
il privilegio di poter essere il primo vivente ad avere una
retrospettiva dove erano stati esposti Delacroix e Courbet. Due giorni
prima, il 14 giugno, apriva al Musée de l’Orangerie una grande
retrospettiva di Manet, che Picasso aveva sempre amato e spesso imitato.
Entrare in questa costellazione della pittura contemporanea non sarebbe
stato possibile senza uscire dalla storia e collocarsi al di sopra:
Picasso decise di esporre le sue opere senza date, selezionandole
dall’intera sua carriera, indipendentemente da appartenenze di tempi,
luoghi, stili e generi. La galleria doveva contenere tutto Picasso,
l’ieri e l’oggi, il blu e il rosa, il cubista e il surrealista, lo
spagnolo e il francese, in un caleidoscopio picassiano che mostrasse la
sintesi impossibile di una personalità artistica plurale. Sintesi del
non sintetizzabile e biografia del non temporalizzato, la mostra nasceva
come un paradosso, in cui Picasso portava la contraddizione che l’ha
sempre caratterizzato e che lo ha reso così unico: l’uno rivolto al
tutto, la vita vissuta fino all’estremo al punto da toccarne l’essenza,
l’arte traslata da esperienza ad autosufficienza.
Tutto è doppio,
infatti, nel Picasso del 1932. A partire dalla situazione che in
quell’anno esplose in tutta la sua inconciliabile insostenibilità: la
bigamia. Sposato da tredici anni con Olga Khokhlova, da cui aveva avuto
il primogenito Paulo nel 1921, da circa cinque Picasso aveva una
relazione con Marie-Thèrese Walter, da cui avrebbe avuto la sua seconda
figlia, Maya, tre anni dopo. Marie-Thèrese divenne la sua musa
soprattutto ai fini della retrospettiva di giugno, dove per la prima
volta la sua presenza nella vita di Picasso veniva condivisa col
pubblico (sul conseguente atélier di Boisgeloup ci fu una mostra a
Rouen, di cui ha riferito «Alias-D» il 4/6/17). Se si vorrà leggere la
genesi dell’opera d’arte ricorrendo al biografismo e allo psicologismo,
l’apertura della mostra della Tate con un passo indietro, alla vigilia
del cruciale 1932, il giorno di Natale del 1931, sarà fulminante: quel
giorno Picasso dipingeva nella sua casa al 23 di rue La Boétie a Parigi
due tele di diversissime dimensioni. Una piccola, La femme au stylet,
sogno surrealista di una donna che uccide la rivale in amore, e una
grande, Femme au fauteuil rouge, col volto sostituito da un cuore, in un
rinnovato stile coloristico.
Il doppio è però fatto pittorico al
di là delle sue origini personali e culturali: è nello sdoppiamento
strutturale dell’immagine dell’amata, che rimette in circolazione le
stereotipe categorie di maschile e femminile, fino a riabilitare
l’autore dalla tradizionale accusa di machismo, come nell’allusione
surrealisticamente fallica del volto di Marie-Thèrese diviso in due nel
già citato sogno del 24 gennaio; è nella presenza di un elemento
speculare che moltiplica o integra l’immagine del corpo, come in Femme
nue, feuilles et buste dell’8 marzo, dove una metafisica erma sul
piedistallo veglia sulla donna nuda che dorme, oppure in Le miroir di
quattro giorni dopo, dove lo specchio riflette quella parte della donna
che nel primo piano non solo non si vede, ma proprio non c’è; infine, è
nell’impossibilità di distinguere se la figura rappresentata sia scissa
interiormente o in armonia col mondo esterno, come in Femme nue dans un
fauteuil rouge del 27 luglio, dove il doppio cromatico (dei pigmenti) e
cubistico (dei punti di vista) impone di spostare continuamente lo
sguardo, oppure, anche, se si tratti di un solo corpo incredibilmente e
voluttuosamente snodato ovvero di due corpi polipescamente
aggrovigliati, come in La sièste del 18 agosto, dove le masse muscolari
s’individualizzano a tal punto da separarsi. Gli ultimi due esempi sono
successivi alla retrospettiva di giugno, come se Picasso avesse
incorporato fino in fondo il dato che la mostra aveva valorizzato, per
farne strumento di un godimento rotondo, che cattura il morbido
abbandono dei volumi nella nuova dimensione pittorica, arraffante,
sfuggente e insieme onnipresente, del corpo femminile. Doppio tematico
che non può che essere formale, prodotto della tecnica, dovuto ai nuovi,
sorprendenti accostamenti di cremisi, pistacchio e malva, col colore
impastato maniacalmente e pennellate più pastose e luminose.
Doppio
senza dialettica, naturalmente, perché la sintesi è già data e
sussunta: a priori e da scomporre. Perciò anche i grandi maestri del
passato, da Tiziano a Velázquez, non sono più riferimenti esterni, ma
presenze interne a una pittura che non può fare a meno, anche quando
racconta l’oggi, di guardare alla totalità della storia e non rinuncia,
anche quando parla di un amore presente, a parlare dell’Amore con la A
maiuscola. Non tanto année érotique, come nel sottotitolo parigino, ma
una chiave d’accesso a tutto Picasso. Altri capolavori, da Guernica a
Las Meninas, sono di qua da venire, ma chissà che il 1932 non li spieghi
e contenga, con quel lavoro sull’altare di Isenheim e quella scena di
danza delle ninfe al suono del flauto che sono i due poli estremi,
manieristicamente, dell’affondo tragico e della contemplazione estetica
in quell’anno inesausto di affermazione e ricerca.
Comunque
mescoli, surrealismo e cubismo, colorismo e disegno, plasticità e
superficie, antico e moderno, erotismo privato e dramma storico, Picasso
stravolge e avvolge, è qui e oltre, guarda e agisce: bimane, con una
mano che dipinge e l’altra che esplora. «Vorrei dipingere come un cieco
che dipinge un culo per come il culo si sente», sembra che abbia
dichiarato proprio nel ’32. Energia è la forza che è dentro il lavoro,
un’intensità della concentrazione che è intrinseca al fare ossessivo e
implica immersione totale: in quel 1932 che vide l’apice della grande
depressione e il decisivo progresso dei totalitarismi, Picasso fu
energia pura, con una produzione, tra pittura, scultura e disegno,
eccezionale pure per i suoi altissimi standard. Con oltre 100 opere
divise mese per mese, la mostra ora alla Tate di quel ’32 vuole fare un
diario, ma ne costruisce anche il monumento: lavoro quotidiano e lavoro
assoluto, in inscindibile endiadi.
«Se è vero che il grande
enigma, la causa permanente di conflitto dell’uomo col mondo risiede
nell’impossibilità di spiegare tutto con la ragione – scriveva André
Breton l’anno dopo sulla rivista «Minotaure» in un articolo dedicato
proprio a Picasso – come si potrà chiedere all’artista,
all’intellettuale, di rendere conto dei modi che sceglie per soddisfare
l’imperioso bisogno umano di formare contro le cose esteriori altre cose
esteriori, nelle quali tutta la resistenza dell’essere interiore sia al
tempo stesso eliminata e inclusa?». Questa tensione continua – che è
mutua esclusione e necessaria compresenza – tra il corpo che rilutta e
la forma che gl’impone un altro corpo, tra la realtà e la sua
rappresentazione, è il mistero della creazione artistica: ed è il 1932
di Picasso. Sarà solo uno scherzo del destino che la seconda versione
della retrospettiva, spostata a Zurigo tre mesi dopo con diverso
allestimento, ricevesse una recensione di Jung, che diagnosticava a
Picasso una tendenza alla schizofrenia, perché le sue pitture
manifestavano la loro alienazione dai sentimenti?