venerdì 29 giugno 2018

La Stampa 29.6.18
In Turchia fra i rifugiati siriani di Kilis
“Andremmo in Europa anche a nuoto”
di Giordano Stabile


Al posto di frontiera di Kilis c’è un traffico che non si era visto da anni. Per la festa dell’Aid al-Fitr migliaia di rifugiati siriani sono tornati a visitare i famigliari rimasti in Siria. Ora stanno rientrando quasi tutti. La cittadina a sessanta chilometri da Aleppo è ormai una «piccola Siria». All’ingresso, sulla strada da Gaziantep, un cartello del partito nazionalista Mhp tiene il conto «dell’invasione»: 91.185 abitanti turchi contro 137.652 profughi. Ma i siriani non ci fanno caso, la maggior parte non conosce il turco, i più piccoli, mai andati a scuola, non sanno neppure leggere.
A ridosso del valico c’è il campo profughi di Kilis, migliaia di casette-container, considerato un modello. I meno fortunati si sono piazzati nelle casupole lungo la strada. Un carretto tirato da un mulo passa a raccogliere carta e plastica dai negozietti. I siriani si sono specializzati in questo riciclaggio informale, che impiega anche migliaia di bambini.
Anche Ammar Jello si è buttato nel commercio. È in Turchia dal 2013, ad Aleppo era avvocato. Per campare vende vestiti a basso costo, jeans attillati e corpetti che stonano con la sua fede musulmana, sottolineata dalla barba in stile salafita che si alliscia di continuo. «Che ci vuoi fare, questo non è un Paese religioso, mi fanno ridere quando dicono che Erdogan lo vuole islamizzare».
La vittoria del presidente turco è stata comunque una vittoria per i siriani. «Ormai abbiamo un secondo Dio», scherza Ammar. In Siria, i miliziani dell’Esercito libero hanno omaggiato il raiss con un ritratto gigante su un fianco del Monte Darmik. Ammar, un «rivoluzionario» della prima ora, respinge però i trionfalismi. «Con i turchi – precisa – non è cambiato nulla. Ormai ci sono solo gruppi che si combattono fra loro e si vendono al migliore offerente, compreso il regime».
Ammar non tornerà mai più in Siria. «Potevo emigrare in Canada, ma non ho voluto perché i miei figli non sarebbero cresciuti da musulmani. Ma ora, se avessi un’altra occasione, partirei, subito».
E lui, per via della fede religiosa, è fra i più tiepidi. Gli altri, se solo esercito e polizia allentassero i controlli, «in Europa andrebbero anche a nuoto». Erdogan si è guadagnato la riconoscenza eterna con la sua politica di accoglienza ma la vita qui «è troppo dura». Nella provincia di Gaziantep un quarto degli abitanti sono siriani, 700 mila su 2,8 milioni. Manodopera a basso costo nei campi, fabbriche tessili, alimentari, che sono spuntate come funghi per sostituire l’industria di Aleppo distrutta dalla guerra.
Lavorano soprattutto i ragazzini, pagati una miseria, persino 40 lire turche a settimana, otto euro. Orfani e piccoli abbandonati vivono in tuguri alla periferia di Kilis e Gaziantep, come Abdelrahman, 13 anni, con i suoi due fratellini più piccoli Mahmoud e Ahmed, 10 e 9 anni, la sorella Daha di 14. La madre, è stata abbandonata dal marito che si era fatto passare per morto. «Abbiamo sofferto ancora di più quando abbiamo scoperto che si era rifatto una vita a Marsin, qua in Turchia». Il padre si è detto poi disposto a riprendersi i figli, purché lo aiutassero a cucire vestiti nel suo piccolo laboratorio. Abdelrahman, ormai capofamiglia, ha detto no. Preferisce alzarsi tutte le mattine alle cinque, andare in fabbrica dopo un’ora di cammino.
I fratelli minori raccolgono cartone e plastica dai cassonetti, la sera. Per fortuna di loro si occupa una piccola Ong locale, Qaus quzar, «Arcobaleno», e vanno a lezione al mattino. Anche Abdelrahman sogna di poter tornare a scuola, «diventare ingegnere» ed «emigrare in Germania». O più concretamente di potersi aprire un laboratorio o un negozio tutto suo. «È il massimo a cui possono aspirare i bambini siriani a Gaziantep», conferma Selim Selim, ex attore e insegnante di teatro ad Aleppo, ora direttore di «Arcobaleno»: l’Europa è «solo un miraggio, non riaprirà le porte, tanto vale diventare turchi: noi vecchi non possiamo più, loro forse sì».