Il Fatto 29.6.18
E se fosse l’Africa a dover salvare l’Africa?
Per aiutare l’Africa servono gli africani
di Pino Corrias
E
se fosse l’Africa a dover salvare l’Africa? Ci abbiamo mai pensato per
un tempo superiore a quello di un convegno internazionale dove si parla
di fame nel mondo, prima di andare a tavola? Anche davanti al
formidabile impatto della immigrazione, reagiamo completamente accecati
da noi stessi. E ogni volta che compare un barcone, su sfondo di
tragedia, non vediamo il barcone, ma le sue conseguenze sulle nostre
vite quotidiane: il disordine che quegli uomini e donne creeranno nel
nostro ordine sociale, le interferenze economiche che produrranno, le
perturbazioni al nostro indiscusso buon cuore.
Imprigionati dal
nostro destino occidentale, non siamo più capaci di vedere il destino
altrui. E per esempio chiederci che fine toccherà all’Africa, il nostro
Sud del mondo che cresce a dismisura, anche nel danno, se i suoi figli
più forti, più coraggiosi, più intraprendenti – uomini, donne,
adolescenti – ogni anno si mettono in viaggio e a milioni, voltano le
spalle ai loro villaggi pieni di polvere, alle loro città invase dalla
povertà e dalla spazzatura, ai loro Paesi, divorati dalla siccità e
dalle guerre? Se loro per primi rinunciano a battersi per la rinascita
della loro terra, della loro identità, chi potrà farlo? Se non saranno
loro a contrastare le rispettive classi dirigenti corrotte, i loro
generali maniaci della guerra, i loro dittatori ammalati di supremazia
etnica e religiosa, chi lo farà al posto loro?
Noi? La Cina? Il nuovo colonialismo a fin di bene?
Conosciamo
tutto a memoria: vengono da noi in cerca di una buona vita da vivere.
Cercano un po’ di futuro per sé e per i loro figli. Una via di scampo:
cibo invece della fame; acqua invece della sete. E se non fossero così
grandi le sofferenze del rimanere, perché mai dovrebbero affrontare
quelle del partire? Ma a forza di ripeterci le loro enormi ragioni,
forse ci siamo dimenticati di qualche loro non trascurabile torto.
In
Italia lo sappiamo, vista la nostra storia di emigrazione. A cavallo
degli ultimi due secoli, 30 milioni di italiani sono salpati in cerca di
fortuna. Si sono sparpagliati dalla Patagonia ghiacciata alle calde
coste australiane, passando per le miniere del Belgio, le fabbriche
metallurgiche della Ruhr, le pizzerie di Brooklyn. Hanno prodotto enormi
ricchezze. Ma hanno anche svuotato quello che si lasciavano alle spalle
in Italia: intere regioni, paesi, campagne, tradizioni, culture. E
infiacchito a tal punto specialmente il Sud – dove sono sempre rimasti,
oltre ai più ricchi, i meno intraprendenti, i più vecchi, i più deboli –
da subirne ancora oggi le conseguenze, avendo generato nel tempo
quell’immobilità dell’attesa, quel fatalismo difficile da scansare,
quella subalternità allo Stato dei sussidi e alle mafie dei favori, che
si accontenta degli spiccioli per tirare a campare, purché lo si possa
fare sotto casa.
È questo stesso destino che attende l’Africa? I
migliori in viaggio e gli altri negli slum e nei villaggi imprigionati
dall’attesa di un po’ di rimesse in euro, di un sogno per i ragazzi e di
un rimpianto per i vecchi?
Se l’Africa andrà sempre di più in
malora dipende certamente da noi che scateniamo guerre, preleviamo
risorse e pretendiamo di non subirne le conseguenze. Ma dipende anche da
loro, dai ragazzi di Lagos che sognano le luci di Stoccolma senza
preoccuparsi del loro buio, dai ragazzi di Nairobi che abbandonano il
Kenya al suo nero destino, il Centro Africa ai suoi massacri.
Una
vecchia questione che riguarda le nostre grandi città dice che ci sono
almeno due modi per combattere l’assedio delle periferie.
Militarizzarle, trasformandole in un ghetto, in una prigione sociale,
affinché nessuno esca a disturbare, come capita a Detroit, a Parigi, a
Scampia. Oppure rammendarle. Contrastare il potere delle gang, ripulire
le strade, far funzionare le scuole, coinvolgendo chi ci vive, questo è
l’essenziale, persuadendo i migliori a non scappare.
Il mondo
piccolo vale il grande. Tanto più che non ci sono muri, né filo spinato
in grado di chiudere le periferie del mondo, gli Stati, i continenti,
nemmeno gli ingegneri di Trump e la sua democrazia armata saranno mai in
grado di inscatolare il Messico.
Diceva un eroe dell’indipendenza
del Ghana: “L’Africa è ricchissima e noi siamo poveri”. Ma non era una
imprecazione. Era il solo modo di guardarsi allo specchio, di prendere
in mano il proprio destino. L’alternativa, per gli africani, è
commiserare il ghetto planetario, andarsene, salvarsi da soli.
L’alternativa per noi ricchi occidentali è costruire fortezze, vivere
nella paura, nutrire gli Orban e i Salvini a venire. Senza dimenticarci,
ogni tanto, di organizzare un buon concerto per salvare l’Africa, e
spedire qualche Angelina Jolie a scegliersi un bimbo in un campo
profughi, purché sorrida ai fotografi.