E se fosse l’Africa a dover salvare l’Africa?
Per aiutare l’Africa servono gli africani
di Pino Corrias
E se fosse l’Africa a dover salvare l’Africa? Ci abbiamo mai pensato per un tempo superiore a quello di un convegno internazionale dove si parla di fame nel mondo, prima di andare a tavola? Anche davanti al formidabile impatto della immigrazione, reagiamo completamente accecati da noi stessi. E ogni volta che compare un barcone, su sfondo di tragedia, non vediamo il barcone, ma le sue conseguenze sulle nostre vite quotidiane: il disordine che quegli uomini e donne creeranno nel nostro ordine sociale, le interferenze economiche che produrranno, le perturbazioni al nostro indiscusso buon cuore.
Imprigionati dal nostro destino occidentale, non siamo più capaci di vedere il destino altrui. E per esempio chiederci che fine toccherà all’Africa, il nostro Sud del mondo che cresce a dismisura, anche nel danno, se i suoi figli più forti, più coraggiosi, più intraprendenti – uomini, donne, adolescenti – ogni anno si mettono in viaggio e a milioni, voltano le spalle ai loro villaggi pieni di polvere, alle loro città invase dalla povertà e dalla spazzatura, ai loro Paesi, divorati dalla siccità e dalle guerre? Se loro per primi rinunciano a battersi per la rinascita della loro terra, della loro identità, chi potrà farlo? Se non saranno loro a contrastare le rispettive classi dirigenti corrotte, i loro generali maniaci della guerra, i loro dittatori ammalati di supremazia etnica e religiosa, chi lo farà al posto loro?
Noi? La Cina? Il nuovo colonialismo a fin di bene?
Conosciamo tutto a memoria: vengono da noi in cerca di una buona vita da vivere. Cercano un po’ di futuro per sé e per i loro figli. Una via di scampo: cibo invece della fame; acqua invece della sete. E se non fossero così grandi le sofferenze del rimanere, perché mai dovrebbero affrontare quelle del partire? Ma a forza di ripeterci le loro enormi ragioni, forse ci siamo dimenticati di qualche loro non trascurabile torto.
In Italia lo sappiamo, vista la nostra storia di emigrazione. A cavallo degli ultimi due secoli, 30 milioni di italiani sono salpati in cerca di fortuna. Si sono sparpagliati dalla Patagonia ghiacciata alle calde coste australiane, passando per le miniere del Belgio, le fabbriche metallurgiche della Ruhr, le pizzerie di Brooklyn. Hanno prodotto enormi ricchezze. Ma hanno anche svuotato quello che si lasciavano alle spalle in Italia: intere regioni, paesi, campagne, tradizioni, culture. E infiacchito a tal punto specialmente il Sud – dove sono sempre rimasti, oltre ai più ricchi, i meno intraprendenti, i più vecchi, i più deboli – da subirne ancora oggi le conseguenze, avendo generato nel tempo quell’immobilità dell’attesa, quel fatalismo difficile da scansare, quella subalternità allo Stato dei sussidi e alle mafie dei favori, che si accontenta degli spiccioli per tirare a campare, purché lo si possa fare sotto casa.
È questo stesso destino che attende l’Africa? I migliori in viaggio e gli altri negli slum e nei villaggi imprigionati dall’attesa di un po’ di rimesse in euro, di un sogno per i ragazzi e di un rimpianto per i vecchi?
Se l’Africa andrà sempre di più in malora dipende certamente da noi che scateniamo guerre, preleviamo risorse e pretendiamo di non subirne le conseguenze. Ma dipende anche da loro, dai ragazzi di Lagos che sognano le luci di Stoccolma senza preoccuparsi del loro buio, dai ragazzi di Nairobi che abbandonano il Kenya al suo nero destino, il Centro Africa ai suoi massacri.
Una vecchia questione che riguarda le nostre grandi città dice che ci sono almeno due modi per combattere l’assedio delle periferie. Militarizzarle, trasformandole in un ghetto, in una prigione sociale, affinché nessuno esca a disturbare, come capita a Detroit, a Parigi, a Scampia. Oppure rammendarle. Contrastare il potere delle gang, ripulire le strade, far funzionare le scuole, coinvolgendo chi ci vive, questo è l’essenziale, persuadendo i migliori a non scappare.
Il mondo piccolo vale il grande. Tanto più che non ci sono muri, né filo spinato in grado di chiudere le periferie del mondo, gli Stati, i continenti, nemmeno gli ingegneri di Trump e la sua democrazia armata saranno mai in grado di inscatolare il Messico.
Diceva un eroe dell’indipendenza del Ghana: “L’Africa è ricchissima e noi siamo poveri”. Ma non era una imprecazione. Era il solo modo di guardarsi allo specchio, di prendere in mano il proprio destino. L’alternativa, per gli africani, è commiserare il ghetto planetario, andarsene, salvarsi da soli. L’alternativa per noi ricchi occidentali è costruire fortezze, vivere nella paura, nutrire gli Orban e i Salvini a venire. Senza dimenticarci, ogni tanto, di organizzare un buon concerto per salvare l’Africa, e spedire qualche Angelina Jolie a scegliersi un bimbo in un campo profughi, purché sorrida ai fotografi.
La Stampa 29.6.18
In Turchia fra i rifugiati siriani di Kilis
“Andremmo in Europa anche a nuoto”
di Giordano Stabile
Al posto di frontiera di Kilis c’è un traffico che non si era visto da anni. Per la festa dell’Aid al-Fitr migliaia di rifugiati siriani sono tornati a visitare i famigliari rimasti in Siria. Ora stanno rientrando quasi tutti. La cittadina a sessanta chilometri da Aleppo è ormai una «piccola Siria». All’ingresso, sulla strada da Gaziantep, un cartello del partito nazionalista Mhp tiene il conto «dell’invasione»: 91.185 abitanti turchi contro 137.652 profughi. Ma i siriani non ci fanno caso, la maggior parte non conosce il turco, i più piccoli, mai andati a scuola, non sanno neppure leggere.
A ridosso del valico c’è il campo profughi di Kilis, migliaia di casette-container, considerato un modello. I meno fortunati si sono piazzati nelle casupole lungo la strada. Un carretto tirato da un mulo passa a raccogliere carta e plastica dai negozietti. I siriani si sono specializzati in questo riciclaggio informale, che impiega anche migliaia di bambini.
Anche Ammar Jello si è buttato nel commercio. È in Turchia dal 2013, ad Aleppo era avvocato. Per campare vende vestiti a basso costo, jeans attillati e corpetti che stonano con la sua fede musulmana, sottolineata dalla barba in stile salafita che si alliscia di continuo. «Che ci vuoi fare, questo non è un Paese religioso, mi fanno ridere quando dicono che Erdogan lo vuole islamizzare».
La vittoria del presidente turco è stata comunque una vittoria per i siriani. «Ormai abbiamo un secondo Dio», scherza Ammar. In Siria, i miliziani dell’Esercito libero hanno omaggiato il raiss con un ritratto gigante su un fianco del Monte Darmik. Ammar, un «rivoluzionario» della prima ora, respinge però i trionfalismi. «Con i turchi – precisa – non è cambiato nulla. Ormai ci sono solo gruppi che si combattono fra loro e si vendono al migliore offerente, compreso il regime».
Ammar non tornerà mai più in Siria. «Potevo emigrare in Canada, ma non ho voluto perché i miei figli non sarebbero cresciuti da musulmani. Ma ora, se avessi un’altra occasione, partirei, subito».
E lui, per via della fede religiosa, è fra i più tiepidi. Gli altri, se solo esercito e polizia allentassero i controlli, «in Europa andrebbero anche a nuoto». Erdogan si è guadagnato la riconoscenza eterna con la sua politica di accoglienza ma la vita qui «è troppo dura». Nella provincia di Gaziantep un quarto degli abitanti sono siriani, 700 mila su 2,8 milioni. Manodopera a basso costo nei campi, fabbriche tessili, alimentari, che sono spuntate come funghi per sostituire l’industria di Aleppo distrutta dalla guerra.
Lavorano soprattutto i ragazzini, pagati una miseria, persino 40 lire turche a settimana, otto euro. Orfani e piccoli abbandonati vivono in tuguri alla periferia di Kilis e Gaziantep, come Abdelrahman, 13 anni, con i suoi due fratellini più piccoli Mahmoud e Ahmed, 10 e 9 anni, la sorella Daha di 14. La madre, è stata abbandonata dal marito che si era fatto passare per morto. «Abbiamo sofferto ancora di più quando abbiamo scoperto che si era rifatto una vita a Marsin, qua in Turchia». Il padre si è detto poi disposto a riprendersi i figli, purché lo aiutassero a cucire vestiti nel suo piccolo laboratorio. Abdelrahman, ormai capofamiglia, ha detto no. Preferisce alzarsi tutte le mattine alle cinque, andare in fabbrica dopo un’ora di cammino.
I fratelli minori raccolgono cartone e plastica dai cassonetti, la sera. Per fortuna di loro si occupa una piccola Ong locale, Qaus quzar, «Arcobaleno», e vanno a lezione al mattino. Anche Abdelrahman sogna di poter tornare a scuola, «diventare ingegnere» ed «emigrare in Germania». O più concretamente di potersi aprire un laboratorio o un negozio tutto suo. «È il massimo a cui possono aspirare i bambini siriani a Gaziantep», conferma Selim Selim, ex attore e insegnante di teatro ad Aleppo, ora direttore di «Arcobaleno»: l’Europa è «solo un miraggio, non riaprirà le porte, tanto vale diventare turchi: noi vecchi non possiamo più, loro forse sì».
La Stampa 29.6.18
Michael Walzer: “Il trionfo dei populismi è figlio dei fallimenti della sinistra
Il politologo di Princeton: “I rifugiati sono il flop dei precedenti governi Ue, così è cresciuta la demagogia radicae”
intervista di Paolo Mastrolilli
qui
il manifesto 29.6.18
Migranti, l’Italia alza il tiro e affossa il vertice dell’Ue
Alla deriva. Stop al documento finale. Il presidente francese Macron tenta di raggiungere un accordo. Conte: «Prima la riforma di Dublino»
di Carlo Lania
Se l’Unione europea sarà riuscita oppure no a passare la nottata si saprà probabilmente solo questa mattina, al termine della lungo vertice che ieri a Bruxelles ha tenuti inchiodati durante la notte i 28 capi di Stato e di governo alla ricerca di una soluzione comune per la gestione dei flussi migratori. Fino alla comunicazione, più volte ventilata, che l’Italia non avrebbe firmato il documento finale del vertice, ultimo atto di una giornata passata dal premier Giuseppe Conte a respingere ogni proposta di mediazione. Facendo però attenzione a non chiudere del tutto la porta, lasciando anzi aperto uno spiraglio a una possibile trattativa notturna quando, dopo aver bocciato la proposta francese di aprire in Italia nuovi hotspot finanziati dall’Unione europea, dalla delegazione italiana si è fatto trapelare un possibile consenso all’iniziativa di Parigi a patto che altrettanti hotspot vengano aperti anche in Spagna, Francia e Grecia. Se la richiesta venisse accettata sarebbe un modo per l’Ue di andare incontro alla volontà di Roma che chiede una maggiore condivisione tra gli Stati della responsabilità dei richiedenti asilo e porti europei dove far sbarcare le persone salvate nel Mediterraneo.
Si sapeva che il vertice non sarebbe stata una passeggiata per nessuno. In mattinata, prima ancora di salire sull’aereo che l’avrebbe portata a Bruxelles e fiutando il possibile fallimento, la cancelliera Angela Merkel aveva messo le mani avanti parlando dell’ipotesi di mettere insieme un gruppo di Paesi disponibili ad accogliere in modo volontario quote di richiedenti asilo. Una «coalizione dei volenterosi», l’aveva definita, della quale ha parlato con Conte in un faccia a faccia durato una ventina di minuti e servito alla cancelliera solo per sentirsi dire di no. «Non vogliamo soluzioni parziali» avrebbe spiegato il premier italiano, ben consapevole delle difficoltà vissute dalla Merkel assediata in Patria dal suo ministro degli Interni Horst Seehofer pronto ad aprire una crisi di governo se non si trova una soluzione che metta fine ai cosiddetti movimenti secondari dei profughi.
Almeno su un punto, però, l’unità tra i 28 sembra esserci. Ed è quello che riguarda la necessità di mettere fine agli sbarchi. Nel documento finale si torna a parlare della volontà di realizzare piattaforme regionali dove fa sbarcare i migranti tratti in salvo, verso le quali dovrebbero essere indirizzate anche le navi delle Ong, per poi selezionare in migranti dividendoli tra richiedenti asilo ed economici. Operazione da svolgersi «nel pieno rispetto del diritto internazionale» e con la collaborazione dell’Oim e Unhcr. Nessuna indicazione su dove realizzare le piattaforme, anche perché né i Paesi del Nordafrica, né quelli dei Balcani – le due aree delle quali si è parlato come possibili luoghi dove creare campi profughi – si sono detti disponibili. Niente da fare, inoltre, anche per l’attesa riforma di Dublino, altra richiesta definita imprescindibile dall’Italia. Il documento affida all’Austria, prossimo presidente di turno dell’Ue, il compito di approfondire gli sforzi per arrivare a un compromesso, un modo come un altro per dire che non se ne parlerà più.
L’intransigenza di Conte rischia di isolare ancora di più l’Italia dal resto dell’Europa. Grecia e Spagna si dicono infatti disponibili ad accordi bilaterali con la Merkel per riprendere i richiedenti asilo che, dopo esser sbarcati, si sono spostati in Germania. Tutto sospeso fino a quando Macron non incontra Conte e poi il premer austriaco Sebastian Kurz con i
il manifesto 29.6.18
La volenterosa Merkel tenta di evitare il disastro
Europa. La Cancelliera può ancora contare sulle buone prestazioni economiche della Germania, ma ogni rallentamento, che con il ritorno del protezionismo oltreatlantico e l’indebolirsi dell’Unione non è affatto improbabile, risulterà fatale. Di errori il “modello tedesco” ne ha commessi non pochi. Il suo catechismo economico ha creato malcontento all’interno e all’esterno, e in un certo senso ha nutrito quella diffidenza e quel rancore nei confronti degli “scrocconi” che avrebbero voluto approfittare della ricchezza tedesca
di Marco Bascetta
Tutto è dissolto nelle tenebre di una crisi inesistente. Brexit, la guerra commerciale di Donald Trump, l’Iran, le sanzioni contro la Russia. I temi giganteschi che l’Europa si troverebbe ad affrontare impallidiscono tutti di fronte all’emergenza immaginaria di un flusso migratorio dai numeri oggi decisamente modesti. Nulla a che vedere con il picco drammatico del 2015. Ma la questione dei migranti si è rivelata da tempo un efficace grimaldello.
Un grimaldello per scardinare gli equilibri politici interni ai diversi paesi dell’Unione a favore delle formazioni di una destra sempre più radicale, sfacciata e sicura di sé. Non è un caso che i protagonisti indiscussi del dibattito politico in Europa siano, per il momento in Italia, Austria e Germania, i ministri degli interni.
Ed è a Berlino che Horst Seehofer, già governatore bavarese e attuale ministro degli interni ha puntato tutte le sue carte sul respingimento dei migranti per minacciare la storica alleanza Cdu-Csu e la conseguente crisi di governo. Se a muoverlo sono le imminenti elezioni nel Libero stato di Baviera, cattolico e conservatore, nelle quali la Csu teme un’emorragia di voti a vantaggio di Afd certo è che il su affondo piacerà all’insieme della destra democristiana che vuole farla finita con la politica “socialdemocratica” di Angela Merkel.
La cancelliera drammatizza il passaggio in corso dichiarando che sulla questione dei migranti si gioca il destino d’Europa e la credibilità dei suoi valori. Che peraltro, nella loro astrattezza, non godono oggi di gran buona salute. Nella sostanza si punta al minimo denominatore comune di una blindatura delle frontiere esterne dell’Unione e di una cooperazione, piuttosto campata in aria, con i paesi di provenienza e di transito dei migranti, per la quale si prevedono pochi spiccioli e improbabili controlli “umanitari”. Costretta a giocare al ribasso, la Cancelliera, cerca tuttavia di scongiurare il peggio, non tanto per quanto riguarda la condizione dei migranti quanto per ciò che concerne la tenuta dell’Unione. Se ciascuno affronta la questione per conto proprio, e magari ai danni di qualche altro partner europeo, a quest’ultima non resterà che esalare l’ultimo respiro: frontiere chiuse, regole nazionali in reciproco conflitto, fine di ogni concertazione. Merkel sa bene che se questo accade sulla questione dei flussi migratori extracomunitari gli stessi dispositivi si applicheranno ben presto a quelli intracomunitari e poi a tutto il resto.
Ed è precisamente questo prosciugarsi della dimensione comunitaria a favore delle sovranità nazionali l’esito al quale i nazionalismi montanti nel Vecchio continente mirano con determinazione, servendosi, appunto, della paura dello straniero che hanno saputo così efficacemente fomentare . Senza troppo preoccuparsi del nanismo geopolitico ed economico al quale la frantumazione dell’Unione condannerà i singoli stati nazionali. La partita di Angela Merkel contro questa prospettiva si svolge sotto i peggiori auspici. Non esiste più in Europa né una sinistra in grado di preoccupare l’elettorato conservatore aggredendo diseguaglianze e privilegi con cui competere, né una sinistra sopravvissuta alla conversione liberista abbastanza solida da farle da sponda contro la radicalizzazione nazionalista in corso.
La Cancelliera può ancora contare sulle buone prestazioni economiche della Germania, ma ogni rallentamento, che con il ritorno del protezionismo oltreatlantico e l’indebolirsi dell’Unione non è affatto improbabile, risulterà fatale. Di errori il “modello tedesco” ne ha commessi non pochi. Il suo catechismo economico ha creato malcontento all’interno e all’esterno, e in un certo senso ha nutrito quella diffidenza e quel rancore nei confronti degli “scrocconi” che avrebbero voluto approfittare della ricchezza tedesca. Non bisogna dimenticare che è proprio da questo stato d’animo che Alternative fuer Deutschland ha mosso i primi passi verso la radicalizzazione xenofoba e nazionalista. Fino ad oggi Angela Merkel è riuscita a frenare questa deriva, poco concedendole. Ma il prezzo si fa sempre più alto e la tenuta del consenso di cui ha goduto per lunghi anni scricchiola paurosamente.
Il Fatto 29.6.18
Profughi, altro che Unione: gli accordi si fanno “con chi ci sta”
Italia, Grecia e Spagna vogliono la riforma del Protocollo di Dublino, Berlino e Parigi più interessate ai flussi interni
di G.G.
Più temuti che reali, i flussi dei migranti alterano le geometrie già complicate dell’Unione europea e spaccano o creano fronti e crinali dentro l’Ue: così, la Germania quasi rinuncia a priori a cercare un’intesa a 28 e vira su accordi fra ‘chi ci sta’, rispolverando la formula non proprio fortunatissima dei ‘volenterosi’, un po’ sul modello di quanto avvenuto nell’epilogo della vicenda Lifetime – da cui però proprio Berlino s’è chiamata fuori.
“La migrazione potrebbe diventare una questione esistenziale dell’Unione europea”, dice la Merkel al Bundestag prima di partire per Bruxelles. Forse, lo è già diventata. “O la gestiamo o nessuno crederà più al nostro sistema di valori”, aggiunge la cancelliera. Specie se i primi a non crederci, o almeno a non attuarli, siamo proprio noi.
Non sono più i – bei? – tempi che Francia e Germania arrivavano al Vertice europeo con l’accordo fra di loro già pronto e raccoglievano senza grandi difficoltà le adesioni del Benelux e dei Nordici, mentre i mediterranei si facevano magari convincere con un piatto di lenticchie. È l’Italia, stavolta, a voler tenere i tavoli separati: “Se qualcuno in passato s’è fatto convincere da un po’ di flessibilità, non è più così”, assicurano fonti del governo: la trattativa sui migranti sarà sganciata da quella sui conti (che, del resto, non si fa qui ora).
L’indisponibilità alla redistribuzione dei migranti da parte di alcuni Paesi – i quattro di Visegrad, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, in primo luogo – ha sostanzialmente provocato l’archiviazione degli accordi raggiunti nel 2016 e mai attuati in modo significativo. E l’oggettiva difficoltà della questione migranti ottunde le coscienze anche dei campioni del rispetto dei diritti umani, ormai pronti a pagare senza batter ciglio la Turchia e Paesi africani perché trattengano i profughi nei loro campi e mantengano ben chiusa l’ “autostrada dei Balcani’ e socchiusa la ‘rotta del Mediterraneo’. Infatti, sul rifinanziamento dell’intesa con Ankara e del fondo per l’Africa non c’è quasi discussione: l’Italia si preoccupa di verificare che, pagati i turchi, restino abbastanza denari per gli africani.
Per il resto, e in carenza di meglio, la Merkel e non solo lei, è pronta a procedere con intese a pelle di leopardo, che sono parenti solo alla lontana delle cooperazioni rinforzate, previste e codificate dai trattati. Sui vari punti, cerchiamo di scomporre il puzzle.
I Paesi di primo ingresso, cioè sostanzialmente Italia, Grecia, anche la Spagna, visto che Malta – fino a mercoledì – era adamantina nel suo rifiuto di soccorrere e accogliere, sono, o dovrebbero essere, in primo luogo interessati all’affermazione del principio della “responsabilità condivisa” e alla riforma del Protocollo di Dublino, per fare cadere la clausola che l’esame delle domande d’asilo è responsabilità del Paese di primo ingresso. Su questo punto, vi sono aperture francesi e anche tedesche.
Ma la Germania, come pure la Francia, è soprattutto interessata a discutere i “movimenti secondari”, cioè sugli spostamenti all’interno dell’Unione di migranti entrati in un Paese e il cui ‘status’ non è stato ancora chiarito. Mentre la Grecia sembra sentirci da quell’orecchio, l’Italia si vuole sorda: è “impensabile” – si dice – affrontare la questione che sta a cuore alla Merkel senza aprire un dibattito su tutto il ‘decalogo’ presentato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte al pre-Vertice ristretto di domenica scorsa. Fiscalismi e rigidità dei principali protagonisti della questione migranti rendono diffidenti e meno flessibili anche i campioni dell’accoglienza, come la Svezia, il Paese con più rifugiati ‘pro capite’. Tanto più che i fronti e i crinali non sono solo nazionali, ma sono pure politici e dividono i governi: ricevendo all’Eliseo Conte, il presidente francese Emmanuel Macron aveva affermato il primato dell’‘asse dei leader’ di Germania, Francia, Italia, rispetto all’‘asse dei ministri dell’Interno’ d’Austria, Germania, Italia. Ma la Merkel arriva a Bruxelles tenuta quasi ostaggio del suo ministro dell’Interno, Horst Seehofer.
Il Fatto 29.6.18
“Resuscitare vecchie coalizioni e vecchi politici non salverà il Pd”
Il sociologo: “Non penso basti creare il ‘fronte repubblicano’, né rianimare il centrosinistra”
di Luca De Carolis
Domenica scorsa sul “Fatto”, Antonio Padellaro ha illustrato la strategia del “Ronf ronf” del Pd, un partito dormiente che dimentica i suoi sei milioni di elettori e quelli che potrebbero tornare. Oggi interviene Luca Ricolfi.
Luca Ricolfi è un sociologo, insegna Analisi dei dati all’Università di Torino ed è direttore scientifico della Fondazione David Hume. Oltre a questo, però, è da anni – almeno dal suo Perché siamo antipatici? del 2005 – un fustigatore della natura elitista della sinistra italiana. Per questo il Fatto gli ha chiesto un parere sull’ennesima débâcle elettorale del Pd. Chiedendogli se ci sia ancora vita a sinistra. E, soprattutto, cosa fare ora.
Il Pd esce moribondo dalle Amministrative. Un tracollo annunciato?
Sì e no. Si poteva anche supporre che, visto il “tradimento” dei Cinque Stelle, molti elettori di sinistra potessero tornare all’ovile. Così non è stato, probabilmente perché l’atteggiamento dei cittadini italiani verso il governo, in questo momento, è di tipo sperimentale: prima di bocciarli, vediamo quel che combinano.
Lei ha spesso insistito sui limiti della sinistra che non ha capito l’importanza del tema della sicurezza. Ma nello sprofondare dei dem c’è solo o soprattutto questo? Quanto pesano temi come le banche o il Jobs Act?
Secondo me poco. Se gli italiani fossero imbufaliti con il Pd per il Jobs Act avremmo assistito a un trionfo di LeU.
Renzi si è dimesso da segretario ma è ancora in prima fila. Quanto ha inciso?
Renzi (e Boschi) hanno fatto molto per rendere antipatica tutta questa nuova classe dirigente del Pd, ma la sconfitta è innanzitutto politica. E secondo me, in ultima analisi, è dovuta a un’unica causa: gli italiani si sono sentiti presi in giro, per non dire derisi. Presi in giro quando, con 3 milioni di disoccupati e 5 milioni di poveri, veniva loro raccontato che la situazione era molto migliorata, per merito del governo. Derisi quando veniva loro spiegato che non dovevano preoccuparsi della criminalità e degli sbarchi, perché e entrambi erano diminuiti.
Ora nel Pd si potrebbe anticipare il Congresso all’autunno, così da scegliere un nuovo segretario. Ma è quello che serve? E soprattutto, va svolto con le primarie o è un rito svuotato?
Le primarie sono un ottimo strumento per proclamare un leader, coinvolgendo non solo gli iscritti. Per cambiare linea, invece, ci vorrebbe un vero congresso, preparato nei circoli (una volta si chiamavano sezioni), con relazioni dure e contrapposte. Se fossi del Pd, mi ispirerei al vecchio Pci, non al modello del “partito leggero” emerso in era veltroniana.
Nel crollo generale sembra profilarsi la candidatura a segretario del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, fautore di un centrosinistra largo. È un profilo adeguato a suo avviso? E bisogna comunque ripartire da un campo di centrosinistra?
Preferisco il fratello. Scherzi a parte, la risposta è un doppio no: se qualcosa di nuovo deve nascere, non può essere guidato da un vecchio professionista della politica, né è realistico pensare che possa aver successo riverniciando il centrosinistra.
Calenda, arrivato tre mesi fa nel Pd, propone già di superarlo e di creare un “fronte repubblicano”. Che ne pensa? Il Pd è davvero un paziente che non si può più salvare?
Probabilmente Calenda ha ragione nel diagnosticare l’inguaribilità del Pd. Però non credo che la soluzione sia il “fronte repubblicano”, almeno se per fronte repubblicano si intende una santa alleanza contro i barbari, nello stile delle mobilitazioni francesi contro i Le Pen, padre e figlia. Il fronte può funzionare se i cittadini percepiscono l’incombere di un pericolo mortale, come il fascismo, il nazismo, l’odio razziale. Non mi sembra questo il caso, oggi in Italia. Pochi pensano che Salvini e Di Maio costituiscano un simile pericolo.
Se proprio dobbiamo immaginare una mobilitazione da “fronte”, penso che l’unica eventualità che potrebbe attivare una formula del genere sia il rischio di uscita dalla zona euro, uno scenario che sì, effettivamente potrebbe mobilitare un fronte impaurito dal salto nel buio.
Nelle Amministrative gli unici che si sono salvati dalla tempesta sembrano i candidati più “rossi”, come quello che ha vinto a Brindisi. È un segnale del fatto che la gente chiede un partito di sinistra radicale al posto di un partito moderato?
Non credo, penso che nelle elezioni amministrative si scelga soprattutto la persona che ci appare più seria o, nelle situazioni in cui prospera il voto di scambio, la persona che ha più possibilità di garantire favori.
Come si risponde da sinistra sul tema immigrazione? Come si può contrastare il Salvini che vuole chiudere i porti?
A me l’unica risposta di sinistra pare questa: accogliere tutti quelli che possiamo (ovvero molti meno di oggi), ma poi smetterla di abbandonarli come facciamo da anni: la sinistra deve integrare gli immigrati, non aprire le porte e poi infischiarsene. Chiudere i porti non è la soluzione, ma riaprirli solo quando gli altri Paesi mediterranei (Spagna e Francia, innanzitutto) avranno accettato di fare la stessa cosa, è più che ragionevole.
Il Fatto 29.6.18
Cari deputati dem, esattamente voi che lavoro fate?
di Silvia Truzzi
Con il rispetto che si deve ai moribondi, ci accosteremo in queste righe al capezzale del Pd. Impegnato, al proprio interno e non solo, in un avvincente dibattito ombelicale sul proprio futuro: con un po’ di senso dell’umorismo, potremmo sintetizzarlo nell’interrogativo di leniniana memoria “Che fare?”. Detto che noi concordiamo pienamente con il professor Canfora (che un paio di giorni fa sul Fatto invocava in proposito “la chirurgia demolitoria”) si fa un gran parlare di andare “oltre il Pd”, “oltre la forma partito”, verso un “fronte repubblicano”, ragion per cui serve una “fase costituente” (una fissa, quest’ultima, di Carlo Calenda, il Manchurian candidate del Pd, che voleva anche una legislatura costituente in Parlamento). A nessuno sembra venire in mente che più del nome, più della forma, è questione di sostanza politica. Ha scritto bene Fabrizio d’Esposito: “L’oltrismo ha segnato tutto il percorso della sinistra dal 1989 a oggi (l’Ulivo, l’Unione, il Pd)”. È ormai più che altro un riflesso pavloviano, o forse l’ultimo spasmo vitale prima della fine. Ma è ciò che accade nell’agonia a farci mettere vieppiù le mani nei capelli.
Mercoledì a Montecitorio durante il question time – lo spazio in cui i parlamentari chiedono chiarimenti agli esponenti dell’esecutivo – il ministro dell’Interno ha fatto notare che erano presenti quasi solo deputati dei partiti di maggioranza: “È un curioso question time. Penso soprattutto ai banchi del Partito democratico… Ma saremo più fortunati più avanti”. Così un parlamentare della Lega ha chiesto a Salvini quali fossero gli impegni del governo in tema di lotta alle mafie e lui ha potuto cavarsela con una serie di buone intenzioni. Domanda: cari deputati del Pd, esattamente che lavoro fate? Non dovevate fare “un’opposizione radicale, seria, determinata, senza sconti” (sintesi di varie dichiarazioni dei dirigenti Pd all’indomani della nascita del governo pentaleghista)?
Un ruolo importantissimo, fondamentale nella dialettica di una democrazia parlamentare. Ma pare che i banchi di Montecitorio non siano abbastanza comodi o glamour. E manco quelli di Palazzo Madama. È notizia di questa settimana che Matteo Renzi, rottamatore di se stesso e della sinistra tutta, ha un piano B (no, non sta per Berlusconi). Sta lavorando a un progetto televisivo con Lucio Presta (dimmi chi sono i tuoi amici), una trasmissione di taglio culturale (sic) su Firenze con Renzi in video. Tralasciamo l’ironia sulle ambizioni dell’ex premier: il punto vero è che il piano A, cioè essere “senatore semplice”, evidentemente non è ritenuto sufficientemente prestigioso. Eppure è un lavoro importante, oltreché assai ben remunerato. Non è ben chiaro perché Renzi si sia presentato alle elezioni, visto che vuole fare il conferenziere alla Blair/Clinton (sic) o il divulgatore, I wanna be Alberto Angela (o più probabilmente, Tomaso Montanari).
“Con questi dirigenti non vinceremo mai”, diceva Nanni Moretti (ora iscritto al meno conflittuale “partito di Fellini”) al tempo dei girotondi. Correva l’anno 2002, ere geologiche fa, il regista ce l’aveva con Rutelli e Fassino, oggi ridotto a una Cassandra comica che sforna auto profezie. Ci convince di più la sintesi di Massimo Cacciari, qualche giorno fa sul nostro giornale: “Questi fanno le comiche, sono da prendere a sculacciate. Anzi, a calci nel culo visto che non sono più bambini”.
il manifesto 29.6.18
Stadio della Roma, Parnasi parla e ammette: «Ho pagato tutti i partiti»
L'imprenditore Luca Parnasi, ex amministratore unico di Eurnova
di E. Ma.
ROMA Un fiume in piena. Per due giorni e in undici ore complessive, il costruttore Luca Parnasi, ex ad di Eurnova, l’impresa che avrebbe dovuto costruire il nuovo Stadio della Roma, ha svuotato il sacco. «Ho pagato tutti i partiti», avrebbe detto in sintesi, secondo quanto riportato dal suo avvocato Giorgio Tamburrini, rispondendo finalmente alle domande dei pm che lo hanno ascoltato, su sua esplicita richiesta, nel carcere di Rebibbia.
Parnasi non aveva mia risposto da quando era stato arrestato, lo scorso 13 giugno, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e ad altri reati insieme a 5 suoi collaboratori (tutti in carcere tranne uno, ai domiciliari per aver da subito collaborato alle indagini).
Le ammissioni di Parnasi confermerebbero l’impianto accusatorio di un sistema corruttivo diventato un «asset di impresa» della stessa Eurnova. L’uomo avrebbe risposto anche riguardo al rapporto stabilito con Luca Lanzalone, e al ruolo che l’ex presidente di Acea avrebbe avuto, per conto del Campidoglio, nell’ambito delle trattative per l’abbattimento delle cubature nel progetto di Tor di Valle.
Non è chiaro chi siano «tutti i partiti» anche se nell’ordinanza del Gip si fa riferimento a 250 mila euro che Parnasi avrebbe devoluto all’associazione «Più Voci» vicina alla Lega, ai 25 mila euro dati a Palozzi (Pdl) e ad «una somma in contanti imprecisata» consegnata a Bordoni (FI). In una intercettazione il costruttore dice: «Spenderò qualche soldo sulle elezioni, è un investimento che devo fare, molto moderato rispetto a quanto facevo in passato… Però la mia forza è quella che alzo il telefono…». E in un altro passaggio: «Domani c’ho un altro meeting dei 5 Stelle, perché pure ai 5 Stelle gliel’ho dovuti dare».
Ieri con una nota i Radicali italiani hanno colto l’occasione per precisare che loro non hanno mai chiesto né ricevuto denaro da Parnasi. «Noi siamo del tutto estranei a questo tipo di meccanismi», scrivono.
Il Fatto 29.6.18
“Ho pagato tutti. Lanzalone per me era il Comune”
Luca Parnasi - Due giorni di interrogatorio per l’imprenditore romano che ammette: “Contributi alle campagne elettorali, ma tutto lecito”
di Valeria Pacelli
Luca Lanzalone e le consulenze allo studio legale. E poi la politica, quasi tutta, che ha finanziato per anni. In due giorni di interrogatorio, Luca Parnasi mette sul tavolo dei pm Paolo Ielo e Barbara Zuin, la sua vita da imprenditore, i progetti delle aziende e le proprie relazioni. Poco meno di dodici ore, per rispondere sulle contestazioni presenti nell’ordinanza di custodia cautelare emessa il 13 giugno scorso. A cominciare dall’accusa di essere a “capo” di un’organizzazione a delinquere finalizzata a commettere reati contro la Pubblica amministrazione, come le corruzioni.
Parnasi, quindi, per due giorni ha collaborato con i magistrati, tanto che adesso i suoi legali, gli avvocati Emilio Ricci e Giorgio Tamburrini, stanno valutando di chiedere la revoca della misura cautelare: se così fosse e se Procura e Gip dovessero dare parere positivo, l’imprenditore potrebbe nel giro di pochi giorni lasciare il carcere di Rebibbia.
L’interrogatorio di ieri sembra esser stato esaustivo. Anche sul ruolo di Lanzalone, l’uomo scelto da Virginia Raggi per seguire in Campidoglio le questioni dello Stadio della Roma, progetto caro a Parnasi. Lanzalone, avvocato genovese, è finito ai domiciliari con l’accusa di corruzione: secondo i pm – che lo ritengono consulente di fatto del Campidoglio e quindi pubblico ufficiale – avrebbe messo a disposizione la sua funzione pubblica ricevendo in cambio consulenze (anche solo promesse) da parte di Parnasi al proprio studio legale. Su Lanzalone l’imprenditore avrebbe ammesso – come riporta l’Ansa – di “aver coltivato” il rapporto in quanto figura importante in seno all’amministrazione capitolina.
Circostanza questa che l’avvocato genovese ha già respinto durante il proprio interrogatorio del 15 giugno, quando ha spiegato al gip che mai ha influito sugli atti dell’amministrazione. Dal marzo del 2017, ha spiegato Lanzalone “io con la vicenda Stadio francamente a parte anche per curiosità e per interesse avendola, come dire, partorita all’inizio (…) da quel momento lì non ho mai né partecipato ad alcun atto del Comune né ho ricevuto alcun incarico”.
L’avvocato genovese dice di aver conosciuto Parnasi in una riunione “a via del Turismo, perché c’erano tutti, c’era Parnasi, Baldissoni (dg dell’As Roma, ndr), insomma c’erano quaranta persone tra amministrazione e proponenti”. Circostanza confermata anche dal costruttore ai magistrati, aggiungendo che a quella riunione poteva essere presente anche la sindaca di Roma.
Ampia parte dell’interrogatorio di Parnasi è stata dedicata ai rapporti con la politica e ai finanziamenti alle campagne elettorali, alcune citate durante le intercettazioni. Parnasi ha ammesso le dazioni di denaro, spiegando che i contributi erano leciti e non c’era alcuna corruzione. Si trattava quindi di pagamenti in chiaro. Ma che fosse importante elargire denaro alla politica, l’imprenditore lo dice anche in una delle tante intercettazioni presenti negli atti quando ammette che, ai giorni d’oggi, si tratta di “un investimento molto moderato rispetto a quanto facevo in passato quando ho speso cifre che manco te racconto però la sostanza è che la mia forza è quella che alzo il telefono…”.
Non sono un mistero i finanziamenti (leciti) che negli anni Parnasi ha elargito trasversalmente, dal centrodestra al centrosinistra. Agli atti ci sono intercettazioni in cui si parla dei 250 mila euro che l’imprenditore dà nel 2015 alla onlus di area leghista “Più voci”: non è tra i contributi contestati, anzi per ora gli investigatori ritengono che si tratti di un versamento lecito, ma su questo disporranno accertamenti.
Stando alle intercettazioni, Parnasi voleva avvicinare anche i pentastellati. In un’intercettazione dice: “Domani c’ho un altro meeting dei Cinque stelle, perché pure ai Cinque Stelle gliel’ho dovuti dare”. Finora (a scanso di colpi di scena) non sono emersi finanziamenti ai 5stelle, anche se per il Movimento vi è stato non poco imbarazzo per il coinvolgimento di Lanzalone nell’inchiesta. Pure i Radicali ieri hanno tenuto a precisare di non essere nella lista dell’imprenditore: “Stando alle ultime indiscrezioni sull’inchiesta relativa allo stadio della Roma – ha detto in una nota Riccardo Magi, segretario di Radicali Italiani – Luca Parnasi avrebbe rivelato di aver ‘pagato tutti i partiti’. L’occasione ci è gradita per precisare che noi Radicali non abbiamo mai chiesto denaro a Parnasi, né tantomeno ricevuto denaro da lui”.
Adesso gli investigatori verificheranno le dichiarazioni dell’imprenditore e ciò potrebbe rappresentare uno snodo importante dell’indagine, anche sul ruolo dell’avvocato vicino ai 5stelle.
il manifesto 29.6.18
Tsipras al Ft: «Disposti all’accordo con Berlino»
Grecia. A Tsipras va dato il merito di aver tenuto duro, tanto più dopo essersi ritrovato isolato dal resto delle socialdemocrazie europee nel momento di maggior tensione, ma il recente «accordo» con l’Eurogruppo sarà pesato alle prossime elezioni, quando verranno al pettine anche i nodi creati dall’accetazione, in definitiva, di quei diktat per rifiutare i quali era stato anche indetto un referendum
di Simone Pieranni
In attesa del 20 agosto, quando si suppone che la Grecia potrà cominciare a uscire dalla morsa dei creditori, Tsipras è stato a Londra: un’occasione per chiedere investimenti e per un’intervista al Financial Times sul tema dell’accoglienza e dei migranti.
IL PREMIER GRECO ha diffuso ottimismo, ben consapevole che in realtà le problematiche economiche del paese sono ancora tante, così come i danni causati dalla «cura troika». Per quanto riguarda l’intervista al prestigioso quotidiano londinese, il premier greco ha specificato che «Atene è pronta a firmare un accordo con la Germania per rendere più facile per le autorità di Berlino l’invio dei richiedenti asilo in altri paesi europei, compreso quello ellenico». Il leader di Syriza si è poi detto disponibile a un accordo speciale con Berlino per ridurre il cosiddetto «movimento secondario» dei rifugiati che arrivano al confine meridionale dell’Ue ma poi si dirigono a nord Europa e quindi anche in Germania.
TSIPRAS HA AGGIUNTO che il sistema di Dublino valido per la ripartizione delle quote dei richiedenti asilo, è «fuori dalla vita: dobbiamo trovare un modo, nel quadro del diritto internazionale, per condividere l’onere e non avere questa posizione ingiusta per i paesi in prima linea, ma anche per la Germania. Perché non è giusto che tutte queste persone vadano in Germania, se crediamo che questo sia un problema europeo». Prima dell’intervista al Financial Times, a Londra Tispras aveva invitato 120 rappresentanti di imprese e possibili investitori britannici a sfruttare l’impulso «positivo» dell’economia greca per sostenere la ripresa del paese. Tsipras ha poi voluto chiarire che il recente accordo sul debito dell’Eurogruppo segnerebbe la fine dei programmi di austerità e aprirebbe un «chiaro corridoio» per il futuro: «Si sta ripristinando la credibilità del paese gettando le basi per un ritorno stabile e sostenibile ai mercati» ha spiegato Tsipras.
UN OTTIMISMO non condiviso proprio da tutti: a Tsipras va dato il merito di aver tenuto duro, tanto più dopo essersi ritrovato isolato dal resto delle socialdemocrazie europee nel momento di maggior tensione, ma il recente «accordo» con l’Eurogruppo sarà pesato alle prossime elezioni, quando verranno al pettine anche i nodi creati dall’accetazione, in definitiva, di quei diktat per rifiutare i quali era stato anche indetto un referendum.
Non è semplice giudicare l’operato di Tsipras, stretto tra la necessità di tenere il timone di un paese per non regalarlo all’estrema destra – una estrema destra pericolosa come Alba Dorata – e l’obbligo imposto di colpire ancora chi la crisi l’aveva già pagata più di tutti (i più deboli, i pensionati). Tsipras, in ogni caso, da solo, è rimasto in sella e ora intravede una via di uscita per quanto falcidiata dal debito (al 180% del Pil) e la clamorosa espansione finanziaria ed economica della Cina sul proprio territorio.
La Stampa 29.6.18
Regno Unito
La battaglia delle coppie etero
“Ora unioni civili anche per noi”
di Alfonso Bianchi
Nel Regno Unito è in corso una battaglia per il diritto alle unioni civili. Ma le parti in gioco questa volta sono capovolte rispetto quelle a cui siamo abituati solitamente: non sono gli omosessuali a rivendicare un diritto degli eterosessuali che a loro viene negato, ma il contrario. Nel Paese i “pacs” sono stati introdotti nel 2004 dal Civil Partnership Act, che ha aperto alle unioni tra le coppie ello stesso sesso, a cui il procedimento legislativo era specificamente indirizzato. Il Paese è poi andato avanti legalizzando i matrimoni gay: in Inghilterra e Galles nel 2013 e in Scozia l’anno successivo. Adesso agli omosessuali non è consentito sposarsi soltanto nella religiosa Irlanda del Nord.
E così per una volta a trovarsi dalla parte dei discriminati sono stati gli eterosessuali, o almeno quelli che non volendo unirsi in matrimonio vorrebbero semplicemente un riconoscimento legale della loro unione sentimentale. Tra di loro Rebecca Steinfeld e Charles Keidan, che avendo «obiezioni ideologiche radicate e genuine al matrimonio», un istituto che ritengono essere «storicamente eteronormativo e patriarcale», hanno dato il via anni fa a una battaglia legale che è terminata adesso con una sentenza della Corte suprema che ha dato loro ragione. Cinque giudici hanno stabilito all’unanimità che il Civil Partnership Act è discriminatorio e «incompatibile» con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dopo la sentenza la coppia, accolta all’esterno del tribunale da una folla di sostenitori, ha rivendicato di aver condotto questa battaglia per «i 3,3 milioni di coppie conviventi della Gran Bretagna, il tipo di famiglia in più rapida crescita nel Paese». «Molti vogliono riconoscimento legale e protezione finanziaria ma non possono averlo perché non sono sposati. La legge deve mettersi al passo con la realtà della vita familiare del 2018», ha chiesto Charles Keidan.
L’ufficio per le Pari opportunità del governo, sotto il controllo del Segretario di Stato Penny Mordaunt, si era già impegnato a intervenire ma soltanto nel 2020. Dopo questa sentenza sarà probabilmente spinto a farlo in maniera molto più veloce. Il conservatore Tim Loughton, autore di un disegno di legge per concedere le Unioni civili alle coppie eterosessuali e che era alla Corte al momento della sentenza, ha mandato un messaggio al suo governo: «Il momento di agire è adesso».
Corriere 29.6.18
il reportage a due giorni dal voto
Tra bagni di folla e miracoli il Messico aspetta «Amlo», populista che non molla mai
dall’inviata a Città del Messico Alessandra Coppola
Sondaggi bulgari per López Obrador. E timori di un nuovo Chávez
L’ultimo tratto di campagna elettorale è sul prato dello stadio Azteca di Città del Messico, un boato di novantamila persone, coriandoli, fuochi, musica, bandiere, mani che si allungano per toccarlo, donne che lo baciano, bambini che si fanno benedire, autografi, pupazzi, selfie, le cover dei cellulari con il gioco di parole «Amlove»: l’amore per Andrés Manuel López Obrador. Gli occhi lucidi, sale sul palco e s’abbraccia come per abbracciare la folla intera.
«Vinceremo le elezioni di domenica», lo dice lui, lo indicano tutti i sondaggi, compresi i più sfavorevoli, e a questo punto lo sperano anche i detrattori. Perché il candidato «anti-sistema», ormai 64enne, alla terza battaglia per la presidenza messicana ha sollevato così tanta emozione che una sconfitta porterebbe a una rivolta popolare. Una petizione di artisti, tra cui i registi Alejandro Iñárritu e Guillermo del Toro, ha raccolto firme sotto l’appello «El día después», invocando una reazione pacifica «il giorno dopo» il voto, chiunque vinca.
«Andrés Manuel farà qualcosa per i poveri», è convinta Marta, 61 anni, di Iztapalapa; «Lui è diverso, penserà a gente come me, che sono madre sola», spera Ana Cristina, 27 anni, arrivata dal Guerrero per celebrarlo nello stadio della festa finale; «È l’unica opzione possibile, l’unico che non sia mai stato toccato da un’accusa di corruzione», dichiarano Simon, Natanael e Xavier, studenti all’Università della capitale.
Edgar, autista di Uber, però, voterà domenica per chiunque «tranne che per lui»: «Rischiamo di diventare come il Venezuela, Amlo è uguale a Chávez», il defunto caudillo di Caracas, estremo del populismo latinoamericano.
È il principale argomento dei suoi grandi oppositori, il conservatore Pan (bizzarramente alleato con la sinistra in questa tornata) e lo storico partito al potere Pri, che si sono alternati alla guida del Messico negli ultimi due mandati. Il discorso pubblico di López Obrador ne tiene conto: «Non diventeremo una dittatura — sente la necessità di sottolineare — ci sarà spazio per ogni dissenso».
Arturo Rodríguez, che segue da anni il candidato per l’autorevole rivista di analisi politica Proceso, ha preso nota di passaggi sostanziali studiati (dalla coordinatrice della campagna, Tatiana Clouthier, figlia di uno storico esponente del Pan) per tranquillizzare. «Ha alleggerito le sue posizioni sulla riforma energetica, per esempio», spiega al Corriere Rodríguez. L’attuale presidente Peña Nieto ha aperto agli investimenti privati (con corollario di mazzette) nel settore del petrolio e dell’elettricità, provocando un aumento del costo dei combustibili estremamente impopolare. «Se prima Andrés Manuel parlava di invertire la riforma adesso dice che rivedrà i contratti».
Non sono sfumature. Benché parli di rafforzare le imprese autoctone e puntare sull’autosufficienza agricola, nella squadra di governo ha chiamato figure di specchiata fede liberista; rappresentanti delle grandi famiglie che tradizionalmente gestiscono il Paese; uomini (ma anche donne) che erano una volta nel Pri o nel Pan e garantiscono una transizione morbida. Allo scomodo vicino settentrionale, il presidente Usa Donald Trump (non così dissimile, in fondo), propone di trasformare il morente Nafta, il Trattato di libero scambio del Nord America, in un’intesa più ampia, dal Canada ai Paesi del centro, dal commercio allo sviluppo sociale. «Non farà una rivoluzione — è l’analisi di Rodríguez — Amlo rappresenta semplicemente una riorganizzazione del potere in Messico».
Con un nuovo forte accento populista, certo, ma anche un’insolita capacità di parlare ai più umili come alle banche. Figlio dello Stato povero e indio del Tabasco, in politica da quarant’anni nell’ala sinistra del Pri che poi si è scissa, «el licenciado», come si direbbe a un parente che si è laureato, «il dottore», ha presa tra la gente perché non ha mai fatto il burocrate, raccontano, sempre con le maniche di camicia arrotolate ai presidi contro lo sfruttamento della terra, alle marce indigene, ai sit-in. La biografia si confonde ormai con la leggenda. Ai comizi portano le ceneri dei defunti perché lo assistano, i paraplegici perché imponga le mani. Il presidente taumaturgo, che curerà la povertà, una violenza da 89 morti al giorno, il Paese intero, combattendo la corruzione, raddoppiando le pensioni minime, tagliando le spese di rappresentanza, distribuendo aiuti sociali. Con quali risorse è ancora tutto da vedere.
il manifesto 29.6.18
Pechino è «soddisfatta» ma rimane scettica
La pace mediatica. Xi Jinping e Kim si sono evitati per anni e nel giro di pochi giorni si sono incontrati tre volte. Il Pcc punta a inglobare Pyongyang nella via della seta
di Alessandra Colarizi
Il 12 giugno alle 13.41, al secondo piano del lussuoso Capella Hotel di Singapore, Donald Trump e Kim Jong-un suggellavano lo storico meeting con la firma di un comunicato congiunto dai toni nebulosi.
Alcune ore prima che la Casa Bianca pubblicasse una copia dell’accordo su Twitter, una traduzione in lingua cinese ne aveva anticipato fedelmente i contenuti.
Ogni dettaglio ha la sua rilevanza nella ricostruzione di quel frenetico lasso di tempo in cui l’attenzione mediatica si è spostata rapidamente a Pechino. Lì, riaffermando in conferenza stampa il sostegno al processo di pace, il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang salutava il vertice ancora in corso come una vittoria dell’iniziativa «suspension for suspension», la ricetta sponsorizzata nell’ultimo anno dal governo cinese – e in passato rifiutata categoricamente dall’amministrazione americana – che prevede il congelamento del programma nucleare e missilistico nordcoreano in cambio dell’interruzione delle esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seul.
Letteralmente: «i fatti hanno dimostrato che l’iniziativa della doppia sospensione proposta dalla Cina si è materializzata e ora la situazione sta procedendo anche nella direzione di un approccio dual-track».
Per «fatti» s’intende la decisione inattesa con cui Trump ha proclamato l’interruzione delle operazioni militari con Seul, spiazzando tanto la Casa Blu quanto il Pentagono. Ma parlare di «materializzazione» è improprio considerando che l’annuncio sarebbe stato fatto soltanto circa un’ora più tardi in un incontro con i media, quando ormai Kim era già in fase di rimpatrio.
Considerata la cronologia degli eventi, le doti profetiche di Pechino sembrerebbero rivelare una conoscenza particolarmente approfondita di quanto negoziato a porte chiuse dai vertici americani e nordcoreani negli scorsi mesi, spiegabile solo alla luce di una comunicazione costante con l’establishment di Pyongyang.
In cerca di una sponda amica nelle trattative con Trump, da marzo a oggi, l’ultimo discendente della dinastia Kim ha deliziato la leadership cinese con tre visite («informali») oltre la Muraglia in soli 100 giorni, un primato senza precedenti tra la diplomazia mondiale.
Pochi giorni fa, accogliendo il giovane leader, il presidente Xi Jinping ha lodato l’esito «positivo» del summit di Singapore in riferimento all’impegno comune nel processo di pace e denuclearizzazione della penisola.
«A prescindere dai cambiamenti nella situazione internazionale e regionale, la posizione risoluta del partito e del governo cinese riguardo alla necessità di consolidare e sviluppare le relazioni sino-nordcoreane non cambierà mai» ha sottolineato Xi, dando la propria disponibilità a collaborare con la Corea del Nord nel perseguimento di «un futuro più bello per i progetti socialisti dei due paesi». Chiaro riferimento alla creazione di possibili sinergie in ambito economico attraverso l’introduzione di riforme di denghiana memoria. Non a caso a stretto giro dal vertice il ministero degli Esteri cinese ha ricordato come le risoluzioni Onu prevedano «la pausa e la rimozione delle sanzioni» nel caso in cui Pyongyang rispetti gli impegni presi.
A seguire, un riferimento puntuale e perentorio sull’imprescindibilità di un coinvolgimento cinese nella riscrittura degli equilibri regionali una volta firmato un trattato di pace necessario a mettere fine “de jure” alla guerra nella penisola (“nessuno può dubitare del ruolo estremamente unico e importante della Cina. E questo ruolo continuerà”).
La riaffermazione della fratellanza tra i due vecchi alleati comunisti arriva dopo anni di tensioni, aggravate dall’esecuzione per «alto tradimento» dello zio filocinese di Kim, Jang Song Thaek, che stando agli analisti ha coinciso con il congelamento di una serie di progetti economici sino-coreani e il conseguente allontanamento dalle riforme.
Le passate ostilità e i timori di una possibile emarginazione di Pechino dai negoziati sono tutt’ora riscontrabili nella cauta copertura riservata dai media statali all’indomani del summit.
Le prime pagine dell’agenzia Xinhua e del quotidiano ufficiale People’s Daily sono state monopolizzate dall’ultima edizione della Shanghai Cooperation Organization, celebrata a mezzo stampa come contraltare a un G7 agonizzante.
Più audace il Global Times che, alla prospettiva di una Corea del Nord aperta ai capitali esteri, da mesi invita gli investitori cinesi alla prudenza, ricordano le molte insidie del fare affari a Nord del 38esimo parallelo, arrivando persino a titolare «I benefici dell’unificazione coreana saranno verosimilmente interni».
Messaggio dissoltosi nell’etere a giudicare dall’entusiasmo con cui il Dongbei (il Nordest della Cina) ha già parzialmente ripristinato i commerci in barba alle sanzioni.
Al quotidiano della politica estera cinese va anche la paternità di un’analisi particolarmente disillusa sulle ripercussioni del summit nell’Asia Orientale: «una volta che la penisola coreana si sarà stabilizza, il Mar Cinese Meridionale e Taiwan diventeranno le due principali aree di crisi In breve, anche in caso di una sospensione delle esercitazioni militari congiunte Usa-Corea del Sud, la riduzione delle forze statunitensi o il loro ritiro totale dalla regione rimane un’ipotesi piuttosto irrealistica».
La riservatezza degli organi ufficiali scolora davanti alla loquacità della pancia del paese. Come spesso accade in Cina, è in rete che si misurano veramente gli umori del popolo.
Nonostante le maglie strettissime della censura, su Weibo l’hashtag «North Korea-US Summit» ha ricevuto oltre 30 milioni di visualizzazioni.
I commenti spaziano dalle ironiche allusioni alle pettinature e alla stazza di Kim e Trump fino alle osservazioni titubanti sull’esito evanescente del meeting. «Non sarà troppo presto per definire il vertice un successo?» si chiede un utente ricordando come in fin dei conti «si tratta di due persone che hanno quasi scatenato la Terza Guerra Mondiale».
Il Fatto 29.6.18
“Subito una legge sul libro: ministro, partiamo da qui”
L’editore: “Siamo stati snob e frammentari Bonisoli ha ragione: cerchiamo i giovani puntando alla qualità”
di Silvia D’Onghia
“Le dico subito una cosa: è finito il tempo in cui gli attori dell’industria culturale potevano permettersi di essere frammentati. Così facendo abbiamo perso tante occasioni. Ora credo che sia arrivato il momento di preservare l’intera filiera con una legge sul libro”. Giuseppe Laterza raccoglie la sfida del neo-ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli, che mercoledì dalle pagine di questo giornale ha lanciato l’idea di una maggiore collaborazione tra pubblico e privato per incrementare la lettura, soprattutto tra i ragazzi giovani: “È giusto dare agevolazioni ai ragazzi per abituarli a consumare cultura – aveva detto, riferendosi in particolare alla App 18, cioè il bonus di 500 euro per i 18enni –, ma mi piacerebbe chiamare a raccolta la stessa industria culturale con investimenti generosi”.
Laterza, è un appello che si sente di raccogliere?
Se la sua idea è chiamare a una responsabilità pubblica gli attori della filiera, trovo che sia giusta. Gli editori in parte già lo fanno: pensi ai Saloni, non ci guadagniamo ma promuoviamo la lettura. Ma le porto un esempio cui potersi ispirare: in Francia gli editori si autotassano con una quota parte del fatturato per sostenere le librerie indipendenti. È vero che in Italia alcuni editori sono anche librai, ma è uno dei temi su cui si può lavorare.
Direi che è un “sì” al ministro…
Da tempo nella sede romana della nostra casa editrice riuniamo almeno un paio di volte l’anno librai, direttori di teatri e di musei, produttori televisivi e di cinema, organizzatori di festival. Le chiamiamo le riunioni del Sarchiapone. Ho invitato il ministro Bonisoli alla prossima riunione, in autunno.
Bonisoli pensava anche all’applicazione di una scontistica fissa per i più giovani. Sarebbe fattibile?
Le misure più importanti per i giovani devono essere prese nella scuola, quindi riguardano il ministero dell’Istruzione. Ma Bonisoli potrebbe leggersi l’ultimo rapporto Ocse sulla mobilità sociale, che dagli anni ’90 in poi si è ridotta drasticamente. Questo spiega molti dei problemi politici dell’Occidente. La App 18 ha messo in moto un meccanismo di acquisto dei libri. Ricordiamoci che i giovani già rappresentano la fascia d’età che legge di più (il 50% contro il 40% degli adulti). Mi fa piacere che il ministro abbia colto il fenomeno della narrativa young adult. Sono libri colorati, interattivi, che attirano i ragazzi in libreria. Certo, non sono la Divina Commedia…
Appunto, non rischiamo di abbassare la letteratura anziché innalzare i lettori?
La qualità fine a se stessa lascia il tempo che trova. L’editoria italiana – e mi ci metto anche io – ha peccato di snobismo: non abbiamo fatto abbastanza per allargare il pubblico. Da qui non consegue il fatto che la cultura coincida con il marketing. L’editore deve intercettare i gusti del lettore e nello stesso tempo puntare alla qualità. È un doppio movimento da fare. E in questo pubblico e privato devono collaborare di più.
Come?
Sono maturi i tempi per una legge organica sul libro. Nella precedente legislatura si è discusso a lungo, poi la normativa non è stata varata per problemi finanziari e tecnici. E anche perché, a differenza di quanto accaduto nel mondo del cinema, noi non ci siamo fatti trovare compatti.
Una legge simile tutelerebbe i piccoli?
In Italia manca la cultura dell’antitrust: il più grande editore sopravanza di tre volte i concorrenti, non accade in nessun Paese occidentale. A livello di librerie, è fondamentale mantenere la pluralità dell’offerta, anche per far fronte ad Amazon.
A proposito dei direttori stranieri dei musei, il ministro ha parlato di “provincialismo” italiano.
La sinistra ha commesso un errore: per riscattarsi dall’accusa di clientelismo ha proceduto per concorsi internazionali. Bisogna tornare, invece, a un principio di responsabilità, anche per le nomine degli enti culturali.
Franceschini ascoltava poco e decideva troppo in fretta, secondo Bonisoli…
Non è così, anzi. E in più per la prima volta dopo decenni il ministro della Cultura non era solo un bel nome.
Cosa consiglierà a Bonisoli se dovesse accettare il suo invito al Sarchiapone?
Le prime tre cose? Ascoltare, ascoltare, ascoltare. Anzi, no: anche viaggiare. Lo dico in base alla mia esperienza. L’Italia è un Paese dalla ricchezza straordinaria anche in periferia. Non soltanto in Puglia ci sono i presidi del libro ma in tutta la penisola: nelle biblioteche, nelle scuole, nelle mille associazioni culturali Bonisoli potrebbe trovare persone che gli diano consigli migliori dei miei.
Correre 29.6.18
Omaggi Il volume curato da Rosa Otranto e Massimo Pinto (Edizioni di Storia e Letteratura)
Canfora, la filologia è libertà
di Livia Capponi
Come lavoravano gli autori greci e latini? Nel suo lungo e intenso magistero, Luciano Canfora, a cui gli allievi Rosa Otranto e Massimo Pinto dedicano il volume collettivo Storie di testi e tradizione classica, ha insegnato ad affrontare ogni testo a partire dalla sua storia, reinventando la filologia come disciplina in grado di leggere non solo i testi giunti fino a noi, ma anche le cicatrici, i tagli, i contorni invisibili di ciò che è stato modellato da un censore, da un copista, dal gusto di un’epoca. Diversamente da Isocrate, famoso per la sua lentezza nel comporre, e da Pitagora, che preferiva depositare la sua dottrina nei libri più sicuri, cioè nella memoria degli alunni, Canfora, la cui bibliografia conta 843 opere, è più simile a Demostene, che cesellava ogni rigo o a Fozio, patriarca bizantino che salvò il patrimonio letterario antico, aiutato da un’affezionata cerchia di studenti. Nei contributi qui raccolti, l’erudizione è messa al servizio di una coinvolgente ricerca della verità, intesa come integrità testuale, storica ed etica. Sono toccati i temi prediletti, come l’analisi critica della democrazia, la storia della tolleranza e della libertà di parola, la schiavitù e i perseguitati politici e religiosi da Atene ai giorni nostri, attraverso lo studio di storiografia, archivi, biblioteche e pubblicistica d’ogni epoca. Il tutto condito da empatia e indipendenza di giudizio, in grado di far rivivere gli antichi con grande vivacità: Cesare è ritratto mentre elabora il primo sistema crittografico per l’intelligence romana; Fozio nell’atto di divorare romanzi d’amore greci (per poi censurarli). Coerentemente con la lezione canforiana, lo studio dei classici diventa motivo di apertura mentale perché aiuta a capire il presente e noi stessi.
Il Fatto 29.6.18
Un sacrificio piatto. Ridateci Kubrick e gli antichi Greci
di Federico Pontiggia
No, ovviamente Yorgos Lanthimos non è Kubrick, né un epigono, un parente, un seguace, un simulacro. Idem Christopher Nolan, che Stanley non è. Sgombrato il campo da questa associazione criminale eppure criticamente ancora a piede libero, e in attesa di vedere The Favourite con Emma Stone e Rachel Weisz plausibilmente alla 75. Mostra di Venezia, ecco Il sacrificio del cervo sacro, premiato ex aequo per la sceneggiatura – vergata con l’abituale Efthymis Filippou – a Cannes 2017.
Carrelli brachicardici in avanti, campi lunghi anodini, grandangoli estraniati cristallizzano l’immagine-movimento di una commedia dark a progressivo voltaggio horror, in cui una famiglia – padre cardiochirurgo Steven (Colin Farrell) e madre oftalmologa Anna (Nicole Kidman), l’adolescente Kim (Raffey Cassidy) e il piccolo Bob (Sunny Suljc) – viene trascinata in una tragedia spiccia e malata dal giovane Martin (Barry Keoghan). Incolpando Steven della morte del padre per sfruttarne i sensi di colpa e facendo innamorare di sé Kim, il ragazzo perfeziona il proprio piano: occhio per occhio, dente per dente, papà per figlio…
Una tragedia piana, calmierata, meccanica e financo sorda, che complice la nazionalità del regista riecheggia il suo attributo principe: “Ci sono rimandi alla mitologia greca, ai simbolismi religiosi, a Ifigenia. Secoli dopo siamo ancora alle prese con l’essenza della natura umana: la colpa, il destino, la giustizia, il sacrificio quando incontri i demoni. C’è una connessione con qualcosa di profondo, che va all’origine della nostra cultura”.
Dopo il tremebondo The Lobster (2015), Lanthimos non ritrova la forma, e poetica, migliore (Dogtooth, 2009; Alps, 2011), però fa un deciso passetto in avanti, sopra tutto per la compattezza drammaturgica e la solidità narrativa: movimenti rallentati, mania di controllo, montaggio per asindeto e traiettorie come coltelli vivisezionano l’umanità, o meglio la post-umanità, all’apogeo della sua decadenza antropologica, sociale e morale.
Cinema crudo – anzi, a media cottura – e nichilista, manierato e spurio, fascinoso e disturbato più che disturbante, come se un Hitchcock in sedicesimi incontrasse un Ferreri minore, laddove ogni cosa, eccetto l’eccesso di stile, è senza speranza: bravi gli attori, Farrell ma anche la Kidman; più ristretto, forse, l’accesso per il pubblico; più scoperto che sia epidermide, la sua cifra, che non cuore, sebbene il muscolo venga piazzato in apertura a mo’ di monolite carnale.
The Killing of a Sacred Deer è calligrafico, snervato, nauseato: più participio passato, insomma, che presente, e forse la tragedia greca non spiega per intero questa indole compassata, questo disagio sedato. Chiaro, trovare in sala un film così in estate è assai apprezzabile e dunque è un Sacrificio raccomandabile, eppure il sospetto non se ne va: ma non l’avevamo già visto, per giunta, fatto meglio?
La Stampa 29.6.18
A cinque anni dalla morte della scienziata il ricordo di Eda Gjergo
Mia “zia” Margherita Hack
Parla la giovane astrofisica “adottata”: era sobria e geniale
di Federico Taddia
qui