domenica 24 giugno 2018

La Stampa 24.6.18
Addio a “Chichita”, moglie di Calvino
Di lei diceva: “Vede il mondo per me”
di Ernesto Ferrero

Era stata una tata messicana a ribattezzare «Chichita», piccolina, Esther Judith Singer, nata a Buenos Aires nel 1925 da una famiglia di ebrei russi arrivata in Argentina a fine Ottocento; e Chichita è rimasta per tutti.
Della famiglia non ha mai parlato: «Le origini non mi interessano», tagliava corto. «È una donna piccola, molto lentigginosa, rossa di capelli e con occhi di rara luminosità. Al collo o ai polsi porta sempre qualche squisito gioiello vittoriano… È celebre per il suo umorismo sarcastico»: così la descrive Carlo Fruttero. Sempre avvolta nel fumo delle sue Gauloises, orgogliosamente argentina ed elegantemente cosmopolita come gli amici del giro Borges-Bioy Casares-sorelle Ocampo. Si sposa in giovane età, ha un figlio, ma quando il matrimonio scricchiola non ha esitazioni. Prende il bambino e viene in Europa, a Parigi e a Vienna, a lavorare come traduttrice per l’Unesco e altre organizzazioni internazionali, mettendo a frutto la sua perfetta conoscenza di francese e inglese. A Parigi ha come collega Julio Cortázar, e frequenta il giro letteratissimo delle Editions du Seuil.
Lì incontra Italo Calvino nel 1962. Tra il taciturno scrittore ligure e la poliglotta tutto pepe capace di toreare da pari a pari con quegli intellettuali anche troppo sofistici, è amore immediato. Si sposano nel febbraio 1964 a Cuba, dove lui era nato nel 1923, nell’ufficio di un notaio dell’Avana. L’anno dopo nasce la figlia Giovanna. Prendono casa a Roma, che però a lei va stretta, come pure il giro degli scrittori che gravitano attorno a Moravia e Pasolini: le sembrano una congrega di provincialotti un po’ maschilisti. Nell’estate del ’67 si trasferiscono a Parigi, in una villetta di Square de Châtillon, dove restano sino al 1980, l’anno del definitivo ritorno a Roma, in uno arioso appartamento affacciato sui tetti della città, a due passi da Montecitorio, con lunghi soggiorni estivi nella pineta di Roccamare, a Castiglione della Pescaia.
Quando Italo se ne va nel 1985, a soli 62 anni, Chichita gestisce un’eredità difficile con mano fermissima. Tra i suoi amici, Salman Rushdie, Gore Vidal e Richard Gere, che anni fa voleva portare sullo schermo Il barone rampante. Editori, agenti, studiosi e postulanti imparano presto a rispettarla, a temerla. È a lei che Italo sottoponeva ogni pagina appena scritta per un giudizio. È lei la Olivia di Sotto il sole giaguaro o Ludmilla, la lettrice dalla memoria di ferro in Se una notte d’inverno un viaggiatore. «Lei è i miei occhi. Guarda il mondo e me lo racconta», diceva.
Era una miniera di ricordi, ma di scrivere, come qualcuno le chiedeva, non se ne parlava proprio. Non solo perché detestava fare la parte della «vedova di» che dispensa aneddoti. Alla rigidità della scrittura preferiva il libero gioco di un movimento perpetuo, fatto di associazioni di immagini, danza e musica. Difficile pensare che si è spenta quella pirotecnia di intelligenza e di humour abrasivo, intatta sino ad oggi.