il manifesto 24.6.18
Avanguardie storiche in fuga da Hitler
Maria
Passaro, "Artisti in fuga da Hitler. L’esilio americano delle
avanguardie europee", Il Mulino. Da Chagall ai Bauhaus Albers e
Moholy-Nagy, da Hans Hoffmann a Mondrian, Maria Passaro ricostruisce, in
un libro edito dal Mulino, storia e dinamiche dell’emigrazione
artistica in U.S.A.
László Moholy-Nagy, "The Transformation", 1925, Los Angeles, Getty Museum
di Marco M. Mascolo
Quando
nel 1933 il partito nazionalsocialista arriva al potere in Germania lo
storico dell’arte Erwin Panofsky si trovava negli Stati Uniti.
Professore all’Università di Amburgo, Panofsky insegnava alla New York
University dal 1931 alternando i semestri tedeschi e quelli americani.
Il nuovo cancelliere mise subito in atto il suo piano di epurazione:
Panofsky, in quanto ebreo, perse il posto ad Amburgo. Così, di fatto, la
sua vita prese una svolta inaspettata: costretto a rimanere negli Stati
Uniti, lo studioso non avrebbe più scritto o parlato in tedesco, sua
lingua madre. A distanza di molti anni, con uno sguardo retrospettivo in
un saggio rimasto assai celebre e pubblicato per la prima volta nel
1954, Panofsky provò a tirare le fila di che cosa aveva significato per
la storia dell’arte in America l’arrivo di così tanti studiosi europei,
in particolare tedeschi.
Con grande pragmatismo da parte americana
si comprese per tempo che quel flusso di emigrazione era un’occasione
da non lasciarsi assolutamente sfuggire: «Hitler’s gift to America»
titolava un articolo di Martin Gumbert uscito nel 1943 su «The American
Mercury». Era l’élite intellettuale europea che guardava all’America
come all’unica «terra di speranza», come scrisse nel gennaio 1938 Ernst
Ludwig Kirchner all’amico Wilhelm Valentiner. Rifugiato in Svizzera,
Kirchner si sarebbe tolto la vita nel giugno dello stesso anno.
Scienziati,
professori, scrittori, critici, artisti sbarcavano a Ellis Island
lasciandosi alle spalle il Vecchio Mondo. Non per tutti fu una scelta
‘pacifica’; molti di loro, una volta conclusa la Seconda Guerra
Mondiale, rientrarono in Europa, chiudendo così quella che sin
dall’inizio avevano considerato una parentesi dettata dalla situazione
d’emergenza. Per altri, invece – come nel caso di Panofsky, ma anche di
Albert Einstein –, gli States divennero la loro casa, la loro terra.
Un
punto di svolta tanto importante quanto tragico fu la capitolazione
della Francia nel 1940. L’armistizio conteneva precise istruzioni sulla
cosiddetta «consegna su richiesta»: la Gestapo poteva richiedere, cioè,
la consegna dei rifugiati tedeschi. Per contrastare questo provvedimento
un gruppo di americani diede vita all’Emergency Rescue Committee e si
adoperò per far sì che in molti venissero salvati, inviando il
giornalista Varian Fry a Marsiglia con una lista di nomi. Marcel
Duchamp, André Masson, Franz Werfel, Hannah Arendt, Max Ernst, Heinrich
Mann espatriarono tutti grazie all’aiuto di Fry e all’impegno del
governo americano che garantiva uno speciale visto per chi entrava nel
Paese. Tra intellettuali, scrittori e critici furono molti gli artisti a
emigrare verso ovest.
Proprio sull’emigrazione degli artisti si
concentra il libro di Maria Passaro, Artisti in fuga da Hitler L’esilio
americano delle avanguardie europee (Il Mulino, pp. 182,euro 16,00).
L’obiettivo del volume è di seguire le vicende dell’esilio di alcuni dei
protagonisti della scena artistica degli anni venti, costretti loro
malgrado a rifugiarsi di là dall’Atlantico. Ci fu chi, come Marc
Chagall, non si abituò mai all’idea di abbandonare la Francia, tanto che
non parlò mai inglese e, appena gli fu possibile, fece ritorno a
Parigi. Altri invece, in special modo coloro che avevano insegnato al
Bauhaus come Joseph Albers e László Moholy-Nagy, accolsero con
entusiasmo le possibilità che la nuova terra gli offriva. Albers iniziò
insegnare al Black Mountain College (North Carolina) – dove fu
insegnate, tra gli altri, dei giovani Robert Rauschenberg, Kenneth
Noland e Cy Twombly – prima di approdare alla School of Art and Design
di Yale; Moholy-Nagy venne reclutato per dare vita al «New Bauhaus» a
Chicago.
Con loro emigrava dall’Europa anche un’intera tradizione
di studi e di saperi che sarebbe stata cruciale per molte delle future
generazioni di artisti e critici americani: basti pensare al ruolo di
Albers per un artista come Donald Judd. Ma, forse, il caso più eclatante
è quello di Hans Hofmann che, con la sua scuola d’arte a New York,
avrebbe esercitato un ruolo di catalizzatore per i giovani Jackson
Pollock, Mark Rothko e Arshile Gorky. Così come la tradizione di studi
che Panofsky ricordava nel 1954 era stata innestata con successo nelle
maggiori università americane, anche le spinte dell’avanguardia
trovavano terreno fertile a un loro adattamento. Si pensi al caso di uno
dei padri del costruttivismo, Piet Mondrian, che proprio a New York
risiedeva dal 1940 e che avrebbe vissuto un’ultima folgorante stagione
creativa, stimolata dalla metropoli e dalla sua vita brulicante,
interrotta solo dalla morte dell’artista nel 1948.
Per quanto il
libro di Passaro concentri la sua analisi sugli artisti, merita
sottolineare come il successo e l’accoglienza dei rifugiati europei
fosse per molti aspetti il frutto di legami culturali che avevano radici
molto salde nel passato. Sia le migliori università (il caso di Harvard
è esemplare) che le più alte istituzioni museali americane guardavano
all’Europa, e alla Germania in particolare, per colmare il divario
culturale che a inizio Novecento le separava dalle rispettive
istituzioni europee. Non a caso il giovane Alfred Barr jr., negli anni
venti, in vista dell’apertura del MoMA, compì un viaggio europeo dove
rimase particolarmente colpito dal Kronprinzenpalais a Berlino, dove era
ospitata la sezione di arte moderna della Alte Nationalgalerie. Ancora,
era stato guardando proprio alle università tedesche che quelle
americane avevano dato vita ai primi corsi di dottorato; e infatti molti
studenti trascorrevano interi semestri proprio in Germania.
Da
queste dinamiche (che con orrenda parola oggi spesso si definiscono
«transnazionali») non erano certo esenti gli artisti, che spesso avevano
Monaco come meta per perfezionare i loro studi. Dovette apparire
naturale, allora, dare asilo e facilitare in ogni modo la permanenza dei
rifugiati tedeschi, dopo il 1933. È importante tenere presenti queste
linee di continuità per comprendere ancor meglio il vero e proprio
turning point che fu quel 1933 e le possibilità che dischiuse tanto a
chi arrivava quanto a chi accoglieva. «Tutto appare possibile. La
finalità paralizzante del disastro europeo è lontana. Amo l’aria nuova e
piena d’aspettative che mi circonda»: così scriveva Moholy-Nagy alla
moglie Sybil nell’agosto del 1937, e concludeva: «Sì, voglio restare».
Questa prospettiva della ‘lontanaza’ è assai importante per capire
alcune delle scelte di fondo di molti degli emigrati. Da oltreoceano si
guardavano con distanza anche gli studi e la tradizione in cui,
consapevoli o meno, si era inseriti. E, allo stesso tempo, si
stringevano legami e ci si inseriva in un nuovo contesto. Fu un processo
che coinvolse, praticamente, tutti gli émigrés e che avrebbe dato i
suoi frutti negli anni successivi. Si determinò così una vera e propria
Wissenschaftstransfer, cioè il trasferimento, lo scambio e la
trasformazione della conoscenza scientifica – basti citare i casi degli
storici Felix Gilbert o Ernst Kantorowicz.
Quanto agli artisti
americani, in un breve giro d’anni si sarebbero scrollati di dosso il
senso di inferiorità nei confronti della cultura del Vecchio Continente.
E in questo giocò un ruolo anche l’insegnamento degli europei emigrati
in America. Sarebbe bastato qualche anno, e l’americano Rauschenberg
avrebbe vinto il primo premio alla Biennale del 1964.