La Stampa 23.6.18
Ad Ankara fra Corano e i russi
Gli assi nelle mani di Erdogan
reportage di Giordano Stabile
I
ritratti di Mustafa Kemal Ataturk vegliano ancora sui viali e sui
palazzi di Ulus, il quartiere amministrativo di Ankara, dominato dalla
grande statua equestre del condottiero. La città al centro
dell’Anatolia, l’antica Ancira greca e romana, venne scelta come
capitale dal fondatore della Turchia moderna, lontana dalla Istanbul e
dai fasti decadenti ottomani. Una città severa come il generale che in
pochi anni ricostruì dalle macerie di un impero uno Stato moderno.
Domani sera Recep Tayyip Erdogan saprà se la sua scommessa lo avrà
portato allo stesso livello. «Rifondatore» della Turchia trasformata in
una «monarchia repubblicana», con tutti i poteri nelle mani del
presidente e una data all’orizzonte, il 2023, centenario della rinascita
turca.
Erdogan non è apparso mai così stanco, ma al 2023 vuole
arrivarci alla guida «di una nazione e di un popolo» di nuovo in grado
di decidere i destini del Medio Oriente, e anche più in là. Vede una
nazione più grande, con pezzi di Siria e forse Iraq di fatto annessi
lungo quella linea a Sud dell’attuale confine che era stata tracciata
dallo stesso Ataturk. Non è fantapolitica perché nelle siriane Afrin,
Idlib, Al-Bab e presto Manbij, i cartelli sono già scritti in turco e i
programmi scolastici adeguati a quelli della Turchia. Una annessione
strisciante, tanto che un osservatore come Joshua Landis già non esclude
che la Siria Nord-Occidentale possa diventare «un’altra Hatay», la
provincia siriana annessa nel 1938 con il consenso della Francia.
I progetti di conquista
Erdogan
ha già allargato i suoi piani all’Iraq, dove «400 chilometri quadrati
di territorio» sono stati occupati dalle truppe speciali che danno la
caccia al Pkk e assediano il quartiere generale dei guerriglieri curdi
sui Monti Qandil. Tutto nel nome della «lotta al terrorismo»,
un’etichetta che ormai include le operazioni nei Paesi confinanti e gli
arresti di massa, cinquantamila persone ancora in carcere (e 140 mila
licenziate), seguiti al fallito golpe del 15 luglio 2016, la data della
svolta in senso sempre più autoritario. La nuova Turchia che presto, nei
progetti del presidente, dovrà contare «cento milioni di abitanti» con
le famiglie invitate a «fare almeno tre figli» si allarga a macchia
d’olio nei vicini Stati arabi, ma è stata anche capace di accogliere tre
milioni e mezzo di profughi siriani, più della metà del totale, contro
il milione scarso di tutta l’Unione europea.
Circa 50 mila sono
diventati cittadini turchi e domani voteranno. Altri saranno «spostati»
nelle province siriane sotto controllo turco. Ma il gigantesco sforzo è
stato fatto pesare sui tavoli della trattative europee. Erdogan vede la
Turchia, non diversamente da Ataturk, come un ponte fra Europa e Asia,
solo che adesso ha lo sguardo fisso a Est. Il reiss non vuole però
chiudere la porta europea. Come nota il Carnegie Europe, se Erdogan
vincerà «ci sarà un rilancio per l’adesione alla Ue, anche per
consolidare la legittimità del nuovo regime in tutti gli strati della
popolazione». Ma i proclami «difficilmente convinceranno i leader
europei». Il nuovo presidenzialismo spinto «metterà Ankara e Bruxelles
su due orbite differenti» e il probabile veto dei Paesi dell’Est
«impedirà ogni progresso reale verso l’adesione».
I sistemi anti-aerei di Mosca
Questo
spiega, in parte, lo sguardo a Est, con le relazioni con la Russia di
Vladimir Putin che «rimarranno forti, se non altro per controbilanciare
le travagliate relazioni con i Paesi occidentali». Anche se è difficile
capire quanto Erdogan giochi la carta russa o quanto invece Putin giochi
la carta turca, contro la Ue e contro la Nato. Per strappare Ankara
dall’Alleanza, lo Zar ha offerto il meglio della tecnologia militare
russa, i sistemi anti-aerei S-400, gli aerei invisibili Su-57, ha
promesso la «condivisione delle tecnologie», a partire dal nucleare
civile e poi chissà, creato un solco con Washington, che ora vuole
fermare la vendita alla Turchia dei suoi super cacciabombardieri, gli
F-35. Ma l’abbraccio dell’orso ha i suoi limiti, proprio in Siria, dove
Erdogan resta il nemico numero tre, dopo Arabia Saudita e Israele, di
Bashar al-Assad, e le visioni neo-ottomane cozzano con il nazionalismo
arabo del raiss.
La nuova Turchia iper-presidenziale sarà forse in
grado di scavalcare l’ostacolo. Erdogan ha toccato il tasto più emotivo
dell’orgoglio arabo-musulmano quando si è autoproclamato «difensore di
Gerusalemme» ed è andato allo scontro frontale con l’America, Israele,
persino l’Arabia Saudita, nel rivendicare la «linea rossa» a difesa
della Città Santa, dopo il trasferimento dell’ambasciata americana. La
retorica , notano gli stessi osservatori israeliani, non si è tradotta
in fatti concreti. Erdogan ha respinto la proposta dell’opposizione
nazionalista del Mhp che voleva rompere gli accordi del dopo Mar
Marmara, tagliare le relazioni diplomatiche e ridurre gli scambi
commerciali con Israele. Gli atteggiamenti da «sultano», custode dei
luoghi santi islamici come fu l’Impero ottomano per 400 anni, hanno
soprattutto un risvolto interno. L’Akp, l’ultimo e il più riuscito dei
partiti di ispirazione islamica, con un occhio al modello dei Fratelli
musulmani, si fonda anche sull’alleanza Stato-religiosi. La propaganda è
martellante. «Il mese scorso – racconta un giovane – l’imam della mia
moschea ci ha chiesto di mettere le mani sul Corano e giurare che
avremmo votato per l’Akp». Una promessa che nessun musulmano oserebbe
rompere. Con queste promesse, e un controllo capillare dei media, il
successo al primo turno sembrava scontato. Finché, nelle ultime
settimane, il candidato repubblicano Muharrem Ince, ha cambiato gli
umori con una serie di comizi travolgenti, in cui compariva una marea di
ritratti di Ataturk. Il figlio di un agricoltore della povera provincia
di Yalova, si sente il vero erede del Fondatore, nel nome della
«repubblica» e della «laicità».