La Stampa 21.6.18
il malcostume che genera voti
Alla Guardia
di Finanza risulta irregolare il 40% degli appalti pubblici
controllati, e sono poco meno di 13 mila gli evasori totali che, in 17
mesi, hanno fatto sparire 5,8 miliardi di euro di Iva
di Massimiliano Panarari
Un
Moloch corruttivo. Un mostro che si mangia pezzi interi di economia,
facendo a brandelli l’etica degli affari e delle professioni. I dati
resi noti dalla Guardia di Finanza lanciano un vero allarme sociale, e
delineano un quadro che lascia attoniti, dove risulta irregolare il 40%
degli appalti pubblici controllati, e sono poco meno di 13 mila gli
evasori totali che, in 17 mesi, hanno fatto sparire 5,8 miliardi di euro
di Iva. E, si premurano di sottolineare le Fiamme gialle, si tratta
assai verosimilmente solo della punta dell’iceberg.
Queste cifre
restituiscono l’evidenza di una brutta peculiarità tutta nazionale, che
ha continuato, praticamente come niente fosse, a dilagare alla stregua
di una metastasi inarrestabile all’indomani di quella Tangentopoli che
aveva innescato un «quasi cambio di regime» e travolto il sistema dei
partiti della Prima Repubblica. Un elemento talmente specifico e
caratteristico della nostra vita pubblica di questi decenni da avere
partorito un’ideologia antitetica «curativa» – il giustizialismo – e un
fenomeno di spettacolarizzazione e mediatizzazione della cronaca
giudiziaria che ha fatto scuola nel resto del mondo.
Una delle
(varie) componenti strutturali dell’anomalia italiana consiste, dunque,
proprio nel radicamento delle pratiche corruttive e nell’estensione a
macchia d’olio dei comportamenti illeciti. Una corruzione tanto
generalizzata ed endemica da essersi convertita, da molti punti di
vista, in «sistema». Le leggi elettorali cambiano, i leader e i partiti
mutano, ma l’illegalità è sempre lì. E come un parassita ineliminabile
ha trovato un perfetto – e scellerato – modus vivendi con la capillarità
della burocrazia (altro fattore problematico istituzionalizzato del
nostro sistema Paese). Si è così saldata una solidissima ragnatela di
piccoli e grandi interessi proibiti che si traducono in una spropositata
«tassa ingiusta» i cui costi vengono duramente pagati da cittadini e
famiglie in termini di demeritocrazia, fuga delle imprese e mancati
investimenti esteri e con la riduzione delle prospettive di futuro per
le nuove generazioni. I numeri spaventosi, l’atmosfera da Basso impero
delle conversazioni intercettate tra i protagonisti e i tentativi troppo
timidi (o per niente convinti) di contrastare la corruzione hanno
contribuito a consolidare nell’opinione pubblica l’immagine di essa come
un tutt’uno con la classe dirigente nel suo complesso, e in particolare
quella politica. Vale a dire il «sistema», come viene definito dagli
esponenti del populismo, che nacque – e tuttora la conserva come nucleo
dottrinario e messaggio comunicativo fondamentale – sulla
dicotomia-contrapposizione tra un popolo puro e incontaminato ed élite
degeneri e «marce», invocando consenso nel nome della virtù prepolitica
dell’onestà assai più che sulla base della praticabilità delle sue
proposte programmatiche. Ed è precisamente contro quel «sistema» (mix di
scenario corruttivo senza freni e classi dirigenti nella loro totalità)
che tanti cittadini-elettori vogliono prendere posizione votando
Movimento 5 Stelle e Lega. In quello che appare come un contesto di
Antico regime, dove la corruzione è giustappunto l’aria che si respira,
la scelta elettorale populista coincide per molti con l’opzione
«rivoluzionaria», e il rigetto dell’establishment viene vissuto quale
unica modalità per sovvertire un quadro che straripa di malcostume oltre
ogni soglia di tollerabilità. Un aspetto che le forze politiche
responsabili e che hanno a cuore la salvaguardia degli istituti della
democrazia liberal-rappresentativa hanno troppo a lungo sottovalutato (e
a cui, come palese, non hanno saputo fornire la risposta adeguata, e
doverosa)