La Stampa 21.6.18
il virus delle telefonate perse
Rispondiamo sempre meno al telefono
di Federico Taddia
Tu
chiamami. Io non rispondo. O almeno non subito. O forse non a voce.
Oppure aspetto. Tanto quello che mi vuoi dire prima o poi me lo fai
sapere con un emoticon, un messaggino vocale o un post sulla mia bacheca
Facebook. La nuova tendenza, forse non ancora statisticamente
analizzata ma già ben percepita, arriva dagli Stati Uniti. Ma basta dare
un’occhiata di sfuggita alla propria cronologia delle chiamate «perse»
per confermare quella che sta diventando una consuetudine sempre più
diffusa: si risponde sempre meno al telefono. Su «The Atlantic», Alexic
C. Madrigal, ha cercato di spiegare il fenomeno, partendo da quel
«Ahoy-hoy!» con cui l’inventore scozzese Alexander Graham Bell
desiderava che si cominciassero le conversazioni, per comprendere come
mai lo squillo del telefono da imperativo morale e sociale – «Presto,
corri, bisogna rispondere» – sia diventato un qualcosa di
tranquillamente e serenamente ignorabile. L’evoluzione, anzi la
rivoluzione tecnologica, è ovviamente alla base di tutto: prima non si
sapeva chi ci fosse dall’altra parte della linea, non c’era modo di
conoscere l’interlocutore. Una telefonata persa era persa, non dava
seconde possibilità. Ci si buttava sulla cornetta con curiosità. Con un
misto di apprensione e ansia, aspettative ed emozioni. E poi scattava il
miracolo della comunicazione a distanza: due voci, lontane, che si
incontravano e intrecciavano, nella stessa unità di tempo. Nel giro di
pochi anni, che il digitale fa apparire anni luce per quanto vorticose e
impattanti siano state le innovazioni, tutto è diventato altro. I
cellulari ci hanno resi reperibili sempre e ovunque. I cellulari ci
dicono chi ci sta cercando. I cellulari lasciano traccia di chi non ci
ha trovato. I cellulari – nella loro mutazione in smartphone – sono
diventati la porta verso la rete e i social network, l’aggeggio con cui
messaggiare, postare, linkare, mettere foto, gif animate o like. Per
comunicare, anche nel qui ed ora, non serve necessariamente la voce. Per
dialogare si va oltre la chiamata: si è perennemente connessi, con il
privilegio di poter dirsi le cose fuori sincro: tu mi mandi un WhatsApp,
io ti rispondo con un messaggio vocale, tu lo ascolti quando vuoi e
quando puoi e mi replichi con una faccina colorata. Parli con me, ma
senza parlare. Mentre – probabilmente – parli con altri. E mentre –
ancora più probabilmente – fai anche altro. Tu chiamami. Io ti rispondo.
A modo mio. Libero di scegliermi i miei tempi e i miei modi. A volte
quasi per difesa – scelgo come filtrare parole ed emozioni -, a volte
per convenienza – investo meno energie –, altre volte ancora forse per
sfuggire all’idea di dovermi dedicare per un attimo solo ad una persona e
solo ad un’azione. E poi si risponde meno anche per evitare le
scocciature: call center di qualsiasi specie che bombardano con offerte,
promozioni, sondaggi e prodotti. Voci umane e voci automatizzate che
s’insinuano nella nostra quotidianità, senza bussare e senza chiedere
permesso. E se è vero che negli Stati Uniti, come scrive Madrigal nel
suo pezzo, nel solo mese di aprile, sono partite 3,4 miliardi di
chiamate robotizzate, l’unica risposta possibile diventa la non
risposta. E così, citando Mina, se «Telefonando potessi dire addio», la
prima cosa a cui dire addio diventano proprio le telefonate