La Stampa 11.6.18
Centri per l’impiego il fallimento è sicuro
Hanno dato lavoro al 3% dei disoccupati
di Elisabetta Pagani
A
quante persone dovrebbe trovare lavoro un Centro per l’impiego (Cpi)
che funzioni? «Al 10-15% di chi bussa alla sua porta» stima Maurizio Del
Conte, presidente dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche
attive del lavoro che coordina i 552 Cpi d’Italia. E a quante
effettivamente lo trova? «A meno del 3%». Spostandosi dai numeri agli
esempi il quadro non cambia, peggiora. «Gli uffici non condividono i
dati - prosegue -, neanche quando sono vicini di casa come Lecco e Como.
Con il risultato che un aspirante infermiere non vede se l’ospedale
dell’altra città ha un posto vacante. Arriviamo al paradosso di poter
visualizzare sul portale europeo Eures le proposte della Grecia ma non
quelle della provincia a fianco». Gli effetti di questo meccanismo sono
concreti, calcolati «in un 20-25% di posti di lavoro che rimangono vuoti
perché domanda e offerta non si incontrano».
Ma perché i Cpi non
funzionano? Scarse risorse (meno dello 0,05% del Pil mentre la media
europea è dello 0,21%, dati Eurostat), scarso personale (7.900 addetti,
di cui oltre mille precari, contro i 100.000 della Germania), scarse
competenze (il 12% ha solo la licenza media), scarsa chiarezza sui ruoli
di Regioni e Stato.
Un guazzabuglio che ha origini lontane ma
oggi, ancora di più, torna d’attualità. I Centri sono gli eredi dei
vecchi uffici di collocamento, cancellati da una legge del 1997 che ne
cambiò il nome in Cpi, di competenza regionale. Nell’ambito del Jobs
Act, il governo Renzi creò l’Anpal, che avrebbe dovuto esercitare il
controllo sui Centri. Ma il referendum costituzionale fu bocciato e la
materia è rimasta concorrente tra Stato e Regioni. Con il governo
M5S-Lega, i Cpi tornano protagonisti perché saranno loro a prendere in
carico i beneficiari del reddito di cittadinanza, qualora ci sarà. Il
ministro del Lavoro Luigi Di Maio promette di finanziarli con 2
miliardi.
Basteranno? «Sono utili ma non sufficienti - commenta il
presidente Anpal -. Do per scontato che sia un investimento annuale
altrimenti non serve». Il primo elemento su cui investire è il
personale. «Ad oggi le risorse destinate sono scarse - spiega Silvia
Spattini, ricercatrice di Adapt, associazione fondata da Marco Biagi -.
Nel 2014 eravamo penultimi in Europa per spesa per i servizi per
l’impiego, nel 2015, ma con dati ancora provvisori, sestultimi. Senza
contare che, fatto 100 di spesa per politiche del lavoro, in Italia il
2,3% va in servizi per l’impiego, il 23,8% in politiche attive (la metà
per incentivi all’assunzione) e ben il 73,9% in politiche passive, ossia
indennità di disoccupazione e cassa integrazione». Insomma, il lavoro
che non c’è si tampona con i sussidi.
Secondo l’Osservatorio dei
consulenti del lavoro, nel 2015 l’Italia ha destinato 750 milioni di
euro per i servizi pubblici per l’impiego, mentre la Germania 11
miliardi e la Francia 5,5 miliardi. Confronto impietoso anche per il
personale, rispettivamente 7.900 («il 22% dei quali in Sicilia, che però
non ha performance migliori» dice Del Conte), 100.000 e 50.000.
Ma
è anche questione di competenze. «In molti Cpi sono stati assorbiti
dipendenti di altri enti pubblici che non hanno formazione specifica»
conferma Del Conte. Come invertire la rotta che vede molti italiani
rivolgersi a amici e parenti per trovare lavoro? «Investendo di più -
osserva Spattini - e poi, come già proponeva la legge Biagi, lavorando a
un sistema integrato di servizi pubblici e privati». I 2 miliardi
promessi dal governo come verranno usati? «Un miliardo per gli stipendi,
se pensiamo di raddoppiare il personale - spiega Del Conte - e l’altro
per corsi di formazione e per modernizzazi