lunedì 11 giugno 2018

La Stampa 11.6.18
1918, i Mas che fecero l’impresa
Così a Premuda osarono l’inosabile per affondare la corazzata austriaca
di Fabio Pozzo


I due motoscafi armati siluranti salparono nel pomeriggio del 9 giugno di cent’anni fa dal porto di Ancona senza magnificenza, trainati da due torpediniere per risparmiare carburante. Il Mas 15 era condotto dal capo timoniere Armando Gori e ospitava anche il comandante della missione, il capitano di corvetta Luigi Rizzo, siciliano di Milazzo, già eroe per aver affondato la corazzata Wien e per aver preso parte alla «beffa di Buccari» con Costanzo Ciano e Gabriele D’Annunzio. Il Mas 21 era al comando del savonese Giuseppe Aonzo, un guardiamarina che proveniva dalla Marina mercantile. Presero il largo verso la Dalmazia, dove da lì a poco, a Premuda, sarebbero passati alla Storia.
La guerra sull’Adriatico si combatteva da parte italiana soprattutto con motosiluranti, naviglio sottile e sommergibili. Gli ufficiali della Kriegsmarine
, che avevano deriso la Regia Marina dopo la sconfitta di Lissa del 1866 («teste di legno su navi di ferro», dissero dei nostri comandanti), ci temevano. L’ammiraglio Miklos Horthy, futuro reggente d’Ungheria, se ne stava rintanato a Pola al comando della flotta imperiale, prudentissimo. A differenza di Rizzo, il quale, assunto il comando della IV squadriglia Mas ad Ancona, aveva ricevuto invece ordini ben diversi: l’imperativo era utilizzare i mezzi navali a disposizione senza risparmio, «osando l’inosabile».
Una nuvola di fumo
Le due unità si staccarono dal rimorchio intorno alle 21,30, dinanzi alla costa dalmata, e si diressero tra l’isolotto di Guiza e il banco delle Selve, a Sud di Lussino. Quella era un’operazione antimine di routine, ma gli equipaggi erano comunque pronti all’azione. L’avvistamento intorno alle 3,15 di una grossa nuvola di fumo fu dunque un caso fortunato, ma non fortuito. Rizzo notò il segnale sulla via del rientro e pensò subito a unità nemiche. Forse, torpediniere… Non poteva sapere che Horthy era venuto meno all’indugio e stava raggiungendo il porto di Cattaro con un grosso convoglio, due corazzate e sei cacciatorpediniere, per unirsi al resto della flotta austro-ungarica e da qui sferrare l’attacco contro lo sbarramento navale italiano del canale di Otranto (il piano, più ampio, prevedeva anche l’isolamento delle nostre basi in Albania e un’offensiva sul Piave, come ricorda Carlo Bruschi in Ancona nella Grande guerra, Affinità elettive, 2013). L’ammiraglio austriaco era così convinto del successo, che aveva imbarcato persino alcuni operatori cinematografici per assicurarsi le immagini della battaglia.
Rizzo mosse l’assalto. Lanciò i due siluri e colpì la corazzata Szent István, che colò a picco dopo due ore e mezzo di agonia. Non furono altrettanto efficaci i proietti del secondo motoscafo, scagliati contro l’altra corazzata, la Tegetthoff, che non affondò. Ma l’impresa era comunque compiuta. I Mas ripresero la via di Ancona, coprendosi l’un l’altro sotto il fuoco nemico. Poco dopo l’alba del 10 giugno fecero rientro in porto, «scarichi di siluri, carichi di onore e di gloria», come segnalarono al Comando le vedette della stazione semaforica di Monte Cappuccini; Horthy, invece, ripiegò su Pola, mettendo fine al piano d’attacco che avrebbe dovuto assicurare a Vienna la «vittoria decisiva».
Vendicata Lissa
Per i due ufficiali italiani fu la medaglia d’oro, d’argento per gli altri componenti degli equipaggi. E i Mas aggiunsero una tacca al loro palmarès, che vide questa flotta - in totale 244 unità - sferrare nel corso della Grande guerra 152 azioni per più d’un milione e mezzo di miglia percorse.
La sconfitta di Lissa della Terza guerra d’indipendenza era stata vendicata. E l’impresa di Premuda è da allora uno dei simboli della Marina militare italiana, che nella ricorrenza celebra la sua festa (quest’anno si tiene oggi proprio ad Ancona, per celebrare il centenario dell’impresa).
Rizzo lasciò poi la squadriglia nell’ottobre seguente. Divenuto conte di Grado e di Premuda per meriti bellici, prese parte all’impresa di Fiume, fu deputato fiumano a Roma, amministratore delegato di compagnie di navigazione e di enti, finché non fu arruolato allo scoppio delle nuove ostilità (dopo essere stato volontario in Etiopia) con le greche di ammiraglio di divisione, con le quali diresse la lotta anti U-boot nel canale di Sicilia. «L’Affondatore», questo il soprannome, fu nominato anche presidente del Lloyd Triestino, onore che pagò dopo l’8 settembre 1943 con la deportazione da parte della Gestapo nel campo di Hirschegg per aver affondato a Trieste le navi Duilio e Giulio Cesare così da sottrarle ai tedeschi.
Luci meno dirette, invece, per l’altro eroe. «Mio nonno era un uomo schietto, sincero, di poche parole. Non amava parlare di Premuda, quando richiesto, per mero pudore», racconta Giuseppe Grillo, il nipote di Aonzo, che si batte perché l’avo venga ricordato. «Dopo la guerra riprese il mare su navi cisterna e diventò dirigente della Columbia, la Esso italiana. Accettò nel 1933 la carica onorifica di podestà di Savona, che lo vide realizzare infrastrutture urbane e scolastiche e che detenne fino al ’35, quando fu richiamato in servizio dalla Marina. E poi tornò alla Columbia, fino alla morte nel 1954».
Rizzo del collega disse che sarebbe dovuto essere «meno schivo, meno riservato e più presente». Intendendo che, fosse stato più «social», avrebbe forse incassato più visibilità. Ma non era nello stile del ligure. Un eroe per dovere, più che per vocazione. Di quell’impresa viveva soprattutto il rammarico dei siluri che non erano stati efficaci (uno non si staccò subito dalle tenaglie e quando partì scivolò a poppavia della Tegetthoff). «Ancora non posso levarmi l’impressione del fischio delle eliche del siluro, giranti nell’aria», scrive in una lettera inedita, custodita dalla famiglia. «Ah!, se quel siluro fosse partito a tempo io sarei più che sicuro che il caro austriaco che mi stava di prora nave adesso sarebbe ai piedi del dolcissimo…».