lunedì 11 giugno 2018

La Stampa 11.6.18
Salvini respinge la nave dei disperati
Dopo il no di Malta ai 629 migranti dell’Aquarius, il ministro chiude i porti. Conte: l’Italia è sola
L’imbarcazione di Sos Méditerranée e Medici senza Frontiere naviga da ieri nel Canale di Sicilia in attesa di poter sbarcare il suo carico di profughi in un porto sicuro
I tre rischi della prova di forza
di Stefano Stefanini


Minacciando di chiudere i porti italiani a una nave franco-tedesca carica di migranti, il governo Conte lancia un triplice messaggio: di freno alle Ong; di pressione su Malta; di sfida all’Ue. Anche il rischio è triplice: di sostenibilità umanitaria; di apertura di una crisi bilaterale con La Valletta; di isolamento a Bruxelles. Roma deve domandarsi se può affrontarli tutti e tre contemporaneamente; se il gesto è dimostrativo, a quale sia la via d’uscita.
Con la collaborazione libica, Marco Minniti aveva già dato una stretta alle Ong, interdicendo le acque territoriali. I risultati si sono visti ma non c’è governo che possa vietare o impedire i salvataggi in mare. Le Ong giocano la carta del ricatto morale. Possono essere ristrette solo nella fase sbarchi.
Con Malta l’immigrazione è oggetto di vecchia controversia. La Valletta ha sempre risposto picche a Roma sull’accoglienza delle navi cariche di migranti; non cambia registro solo perché qualcosa è cambiato in Italia (sarà così anche altrove, come il nuovo governo scoprirà sul campo, europeo e internazionale). Malta avrà anche cercato di evadere responsabilità in questo campo. Può forse fare di più. Obiettivamente nessuno può però chiedere ad un’isola di 316 kmq e con 450 mila abitanti di accogliere i flussi di migranti che attraversano il Canale di Sicilia. La crisi che il governo ha volutamente aperto è con l’Unione Europea.
L’immigrazione era una miccia in attesa. E’ nel programma; la Lega ne ha fatto la propria bandiera.
Matteo Salvini ha voluto, e ottenuto, l’Interno. Siamo alle soglie della stagione degli sbarchi. Salvini doveva dimostrare che è capace di fare la differenza; vuoi mai che quest’estate arrivino più migranti che l’anno scorso! Ha scoperto di non avere molti mezzi a disposizione, salvo prendersela prima con la Tunisia poi con Malta.
Mali estremi, estremi rimedi. Messo con le spalle al muro, con la prospettiva di veder sbarcare più di mille migranti in quarantott’ore, il ministro dell’Interno ha preso una misura che ci mette in immediata rotta di collisione non solo con Malta ma con tutti i Paesi che hanno porti mediterranei dove le navi potrebbero sbarcare il loro carico, o di bandiera delle navi stesse (Aquarius, ad esempio, è registrata a Gibilterra quindi ricadrebbe sotto sovranità britannica).
Nell’Ue, dove si era recentemente sentito qualche borbottio di simpatia per la situazione italiana, la sponda anti-immigrazione (Austria, Ungheria, Est-europei) è solidale con Salvini, ma non vuole sbarchi, e basta; magari rischia di vederli arrivare in porti più vicini e/o una riapertura della rotta balcanica. Appoggi eterogenei (magari un tweet di Trump sulla via di Singapore) non sarebbero di grande aiuto. La chiusura dei porti mette Roma di fronte a due incognite: scontro su troppi fronti; difficoltà di far marcia indietro senza perdere la faccia.
Questa è la trappola in cui il governo Conte deve evitare di cadere. Il gesto dimostrativo non deve diventare un passo irreversibile. Il governo deve lasciarsi dei margini di manovra: con Malta, con le capitali europee, con l’Ue. La tenue corrente di simpatia per l’isolamento di Roma sui migranti va sfruttata non bruciata.
I trafficanti riempiono i gommoni. Le Ong si domandano se e a quante restrizioni vanno incontro. I Paesi africani come si muoverà il nuovo governo di Roma. Il messaggio libico, su queste colonne, è che Tripoli vuole continuare a collaborare e sta esplorando come.
La partita dell’immigrazione si gioca su più tavoli e con più interlocutori. Ha una dimensione umanitaria che non può essere ignorata l’opinione pubblica è ballerina. Il governo Conte fa dell’Aquarius una prova di forza con l’Europa, anche per la riforma del diritto d’asilo. Benissimo, ma senza una strategia complessiva, coinvolgendo i Paesi africani e facendo diplomazia a Bruxelles e alleanze in Europa, la brutalità è inefficace.

La Stampa 11.6.18
Il vicepremier libico
“Assieme a Roma blindiamo i confini”
Il vicepremier di Tripoli Ahmed Omar Maetig: «Entro fine mese sarò in Italia per discutere con il nuovo governo


Dal nuovo governo italiano mi aspetto un impegno ancora più convinto a intensificare la lotta al traffico di esseri umani, vigilando sulla sicurezza del Mediterraneo e blindando i confini meridionali della Libia». È l’auspicio di Ahmed Omar Maetig, vicepresidente del Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico.
«Innanzi tutto vorrei dare il benvenuto al nuovo esecutivo. Vedo un governo potenzialmente forte e giovane, alcuni di loro già li conosco, altri voglio conoscerli quanto prima per stabilire un legame saldo. L’Italia è interlocutore, partner e alleato naturale della Libia nel dialogo tra le due sponde del Mediterraneo».
Ha in programma di vedere il nuovo governo?
«Entro la fine del mese vengo in Italia, poi inviteremo loro da noi per consolidare la partnership strategica».
Cosa si aspetta?
«Una strategia comune, la creazione di un blocco compatto per rendere ancora più efficace il contrasto al traffico di esseri umani e la lotta al terrorismo. Ma anche dal punto di vista economico la cooperazione è fondamentale».
Matteo Salvini ha detto che manterrà quanto di buono è stato fatto dal precedente governo, è d’accordo?
«Si ma non basta, occorre ampliare il lavoro che è stato iniziato col precedente governo. E questo sia per quanto riguarda il contrasto delle partenze dalle coste sia l’arrivo dei migranti dal sud.
Abbiamo oggi più controllo sui flussi di migranti, abbiamo visto che quando c’è cooperazione tra i due Paesi i risultati arrivano per entrambi e occorre continuare a lavorare per fermare i flussi dal sud. Noi contiamo sull’Italia affinché convinca anche gli altri Paesi europei ad avviare collaborazioni positive con noi per blindare la sicurezza del Mediterraneo».
A proposito di partner, come giudica il summit voluto da Macron a Parigi?
«L’iniziativa del presidente francese è stata sicuramente onorevole, ma prima di decidere la data delle elezioni deve esserci la disponibilità al negoziato, che non mi sembra ci sia da parte di tutti. Oltre al fatto che il voto deve essere basato su un referendum sulla costituzione della Libia, primo presupposto per la stabilità. Occorre poi che in questo processo partecipino tutte le componenti rappresentative, come Misurata, che ha avuto un ruolo fondamentale nella sconfitta dell’Isis con quasi 800 caduti e tremila feriti, ma che oggi non viene considerata come merita quando si organizzano alcuni vertici».
Tornando alla migrazione, con l’arrivo dell’estate c’è il rischio che riprendano i flussi massicci verso l’Italia?
«I flussi migratori sono stati intensi quando è mancato un controllo da parte del governo, sia per quanto riguarda gli arrivi dal sud che le partenze dalle coste. Più vacilla il controllo del governo e la stabilità di Tripoli più i flussi aumentano. A maggior ragione quando manca la cooperazione tra Italia e Libia.
Abbiamo stretto accordi con Ciad, Niger e Sudan e questo senz’altro aumenterà la sicurezza dei controlli, ma il lavoro che è stato fatto con l’Italia, specialmente in Niger, è stato decisivo. Così come lo è il contributo di questi Paesi a bloccare i flussi dall’Africa. La Libia soffre molto delle migrazioni, più che l’Europa, per gli alti costi, il sovraffollamento dei centri e le complicazioni nelle procedure di rimpatrio. Le città della costa non possono sostenere questi numeri, ecco perché occorre blindare il Mediterraneo tanto quanto i confini meridionali».
Cosa risponde alle critiche sulle condizioni disumane dei centri di detenzione?
«L’Onu è presente in Libia e si rende conto di come la situazione sia insostenibile. Ferma restando la condanna a ogni trattamento disumano dei cittadini provenienti dai nostri Paesi partner continentali, occorre dire che la capacità economica della Libia ha un limite, abbiamo bisogno dell’aiuto internazionale cosa che sino ad oggi non abbiamo visto, non c’è stata una collaborazione reale. Tutto ricade sulle spalle dei libici e dell’Italia».
Italia che fra l’altro è l’unica ad avere un’ambasciata a Tripoli...
«L’Italia ci ha anche aiutato con l’ospedale di Misurata quando eravamo impegnati contro l’Isis. Quando mi chiedono un esempio reale di aiuto sul terreno io parlo di Italia. Aprire l’ambasciata è stata un fatto molto positivo, mi auguro che facciano seguito altri Paesi».

Corriere 11.6.18
La rabbia dei 5 Stelle vicini a Fico
«La Lega rischia di risucchiarci»
di Giuseppe Alberto Falci


Roma «Roberto interverrà a San Ferdinando e pronuncerà parole in netta discontinuità con quelle di Luigi e di Salvini». A sera quando ormai da ore il leader del Carroccio ha alzato il muro nei confronti della nave Aquarius («Da oggi anche l’Italia comincia a dire No al traffico di essere umani, No al business dell’immigrazione clandestina», ha affermato Salvini) la chat dei Cinque Stelle più ortodossi, ovvero dei parlamentari vicini al presidente della Camera, ribolle.
E uno dei partecipanti assicura che oggi «Fico dirà qualcosa che farà da controcanto ai muri di Salvini». Perché, insiste un grillino della prima ora, «per noi salvare vite umane è un principio inderogabile». Gli fa eco un altro: «Se continua così diventeremo una corrente della Lega».
Eppure, il ragionamento che impazza fra i ribelli suona più o meno così: «Non saremo certo noi a convincere Salvini, ma l’iniziativa deve partire dai nostri in Consiglio dei ministri». I parlamentari più vicini al presidente della Camera sono infuriati per la presa di posizione del ministro dell’Interno che «demolisce il nostro lavoro degli ultimi anni, il nostro programma costruito giorno dopo giorno».
All’arrabbiatura per Salvini si alterna poi un sentimento di delusione per l’atteggiamento di Luigi Di Maio. Il quale, intervistato a In Mezz’ora da Lucia Annunziata, ha spalleggiato il leader della Lega: «Quello dei migranti è stato finora in Italia un fenomeno incontrollato perché si è fatto del business. Vogliamo introdurre una rendicontazione puntuale dei fondi spesi, e forse scopriremo che ne servivano e ne servono di meno. E allora per qualche cooperativa fittizia e qualche associazione la pacchia è finita».
Gli ortodossi si affidano così anima e corpo a Fico. «Roberto è l’unico argine a questo esecutivo», assicura un deputato. E sarà appunto «Roberto» oggi, quando si recherà a San Ferdinando, luogo simbolo perché lì è stato ucciso il sindacalista del Mali Soumaila Sacko, a parlare con le associazioni che operano in quella tendopoli e a rivendicare il principio di solidarietà e cooperazione. Oltre che, come confidano altri, «a pronunciare parole in netta discontinuità» con la narrazione salviniana. «Se Roberto dirà qualcosa di forte avrà certamente un impatto, Luigi non può reggere a braccetto con Salvini», mormora un parlamentare che non ha mai digerito il contratto di governo gialloverde.
Dallo staff di Fico confermano che «Roberto parlerà ma non c’è la volontà di alcuno scontro politico». Semplicemente, spiegano, «si tratta di un percorso coerente con la sua storia». Tuttavia lo scontro, seppur velato, resterà agli atti.
E se si riavvolge il nastro, fa ricordare a uno dei ribelli la tenzone che si consumò nel 2010 fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Quando all’epoca l’ex An provò a pungolare l’azione politica dell’esecutivo del Cavaliere dalla tolda di comando di Montecitorio. «Speriamo non segua la sorte di Fini», ironizza un parlamentare. E in serata il clima si accende ancora di più per il comunicato congiunto di Danilo Toninelli e Matteo Salvini che chiede a Malta di aprire i suoi porti. «Ecco, è la prova che ormai siamo stati risucchiati dai leghisti», allarga le braccia un pentastellato.

Il Fatto 11.6.18
Fanno il saluto fascista nella foto di classe, il preside li giustifica: “In storia sono arrivati solo al 1922”

www.spinoza.it

Repubblica 11.6.18
L’antifascismo senza “se” vince la “ lotta” tra gli storici
di Simonetta Fiori


E alla fine, nella battaglia dentro la grande casa storica della Resistenza, ha vinto Paolo Pezzino, neopresidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri e della rete dei suoi 64 associati. Con un netto distacco dall’avversario (39 voti contro 18), si è conclusa l’insolita competizione tra due storici egualmente apprezzati dalla comunità degli studiosi – innovatore della storiografia resistenziale Pezzino, autore di un fortunato manuale scolastico Alberto De Bernardi – però divisi da una diversa concezione etico-politica dell’antifascismo.
E forse non è un caso che la vittoria sia stata assegnata a chi ha difeso con maggiore convinzione l’attuale spendibilità politica di questa tradizione culturale, ritenuta da Pezzino un baluardo contro le derive xenofobe dell’Italia contemporanea, mentre De Bernardi ha sempre manifestato la sua allergia ai «fascismi di cartapesta inventati per tenere in piedi il mito antifascista». E un ruolo politico più attivo per la rete degli istituti è stato subito invocato dal neopresidente «in un momento particolarmente delicato nella storia del nostro Paese». L’idea è di fare del Parri «un luogo fertile di dibattito e di elaborazione, incrociando ricerca scientifica e cultura civica». Un luogo sempre più necessario in un Paese minacciato da derive di destra e da improvvidi vuoti di memoria. Al di là della diversa weltanschauung, il voto degli istituti storici della Resistenza è apparso come una bocciatura per la gestione di De Bernardi e Marcello Flores –vicepresidente e direttore scientifico – accusata di dirigismo e di scelte poco condivise. Certo non le ha giovato la vicenda del museo del fascismo a Predappio, molto sostenuto dai due studiosi ma poco discusso all’interno degli istituti. Un malumore alimentato anche dalle aspre critiche mosse all’Anpi, soprattutto sotto la direzione di Carlo Smuraglia, perché un conto è rivendicare autonomia dall’Associazione dei partigiani, un altro è eleggerla a principale bersaglio. Pezzino sarà affiancato dalla vicepresidente Manuela Ghizzoni, ricercatrice di storia medievale ed ex presidente della commissione Cultura alla Camera. Il nome proposto per la direzione scientifica è quello di Filippo Focardi, autore di libri interessanti sulla politica della memoria. Nel consiglio di amministrazione sono stati votati alcuni responsabili di istituti locali – Mario Renosio, Marco Borghi, Gianluca Fulvetti –, oltre a Marilena Adamo, Stefano Pivato, Isabella Insovibile e all’apprezzata archivista Paola Carucci. Tra gli esclusi eccellenti, Luciano Violante. C’è chi non gli perdona l’infelice uscita sui “ragazzi di Salò” quando il centrodestra tentava di demolire la storia del partigianato.

Repubblica 11.6.18
L’analisi
La doppiezza del contratto
di Gustavo Zagrebelsky


Il testo pubblicato è un estratto del discorso che Gustavo Zagrebelsky ha pronunciato ieri a Bologna, in piazza Santo Stefano, sul palco di “Repubblica delle Idee” nel corso di un incontro intitolato “La Costituzione ha un futuro?”
Il governo si configura come una propaggine del “patto”, anche visivamente rappresentata dalla presenza dei due firmatari seduti l’uno a sinistra e l’altro a destra del premier Conte
Gustavo Zagrebelsky, professore emerito di diritto costituzionale all’Università di Torino, ex presidente della Corte costituzionale, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino, dell’Istituto lombardo di Scienze e Lettere e dell’Accademia nazionale dei Lincei

La parola contratto, nelle questioni politiche, può avere significati diversi. Si cita spesso il Koalitionsvertrag tedesco, il “contratto di coalizione” del 14 marzo di quest’anno concordato fra tre partiti ( Cdu, Csu e Spd), come esempio di prassi politica virtuosa. È un documento di 173 pagine che contiene un progetto politico onnicomprensivo, in vista d’un governo di lunga durata e d’una società integrata in una visione comune. Se ne sono celebrate le virtù, come modello valido anche per il nostro Paese, senza considerare le profonde differenze di struttura e di quadro costituzionale in cui esso è stato elaborato. In primo luogo, il “cancellierato” tedesco non è il sistema parlamentare italiano.
Il contratto può in effetti essere cosa diversa da quel “contratto di coalizione”. Può essere cioè la sistemazione di interessi particolari che, per realizzarsi, richiedono l’assenso di altre parti. Questo è il significato “ privatistico” di contratto: accordo attraverso scambi e concessioni reciproche per realizzare propri propositi, propositi che restano parziali anche a stipulazione conclusa. Si potrebbe dire: una tregua consensuale in vista non della pace, ma del consolidamento temporaneo delle posizioni.
La mera sommatoria di interessi è dissolutiva della Costituzione, come visione e concezione d’insieme della vita della pòlis. Sorprende che su questa incompatibilità non sia stata richiamata l’attenzione che essa avrebbe meritato. Non stiamo parlando qui del “ contratto con gli italiani”, quell’artificio retorico e propagandistico che nella sostanza era solo una serie di promesse rivolte a sedurre l’elettorato. Si parla di qualcosa che vorrebbe essere un vero contratto tra parti politiche rappresentate dai loro capi, con tanto di stipula davanti a un notaio, firmata da due persone, contenente una clausola che demanda la risoluzione dei contrasti interpretativi a un organo detto “comitato di conciliazione”: una sorta di giurisdizione, analogamente al “foro competente” che gli stipulanti nei contratti di diritto privato individuano per il caso di lite.
I punti di vista e le visioni restano distinti. Per quanto in ogni contratto politico le aspettative delle parti non riguardino solo utilità particolari, ma anche le misure da prendere per il governo della società, resta il fatto che il risultato è una sommatoria di progetti che restano distinti dall’inizio alla fine. La fragilità e la provvisorietà sono insite in questo genere di accordo. Il vero cemento che unifica non è il progetto comune ( che si stenta a vedere), ma il potere: un cemento resistente. Se fosse un vero programma politico comune, non avrebbe bisogno di notai. Semmai – come nel “contratto” tedesco – richiederebbe verifiche nel corso della vigenza, e non “fori competenti” per la soluzione dei contrasti che già dall’inizio si mettono nel conto, come nei matrimoni d’interesse.
In effetti, alla semplice lettura il contratto nostrano mostra la sua duplicità, anzi la sua doppiezza. È facile identificare l’esistenza del doppio
imprinting che segna non solo visioni di società distinte, ma addirittura aspirazioni territorialmente localizzate in latitudini diverse, corrispondenti alla localizzazione delle rispettive forze elettorali.
La doppia anima del contratto, se ce ne fosse bisogno, è stata confermata dal dibattito parlamentare. Ciascuna parte contraente ha parlato principalmente di ciò che le stava particolarmente a cuore, ignorando il resto. Non avrebbe potuto essere diversamente. Su ciò da cui potranno nascere contrasti per l’avvenire, è stato meglio rifugiarsi nel silenzio o in formule fumose, in compromessi lessicali. Il pensiero corre al reperimento delle risorse necessarie a realizzare i programmi rispettivi o alla collocazione nazionale nel contesto sovranazionale e internazionale. Al netto del potere, l’equilibrio è precario ma aggressivo sulle istituzioni costituzionali. Lo spostamento del programma politico in una sede contrattuale del tipo anzidetto ha implicato una serie di esautoramenti. Non c’è bisogno di molte parole, bastano i fatti. Il Parlamento ha ricevuto un programma in cui non ha avuto voce alcuna ed è chiamato ad attuarlo, non a discuterlo.
Il governo si configura come una propaggine del contratto, anche visivamente rappresentata dalla presenza dei due firmatari seduti l’uno a sinistra e l’altro a destra del presidente del Consiglio. Il quale, a sua volta, per impossibilità logica prima che politica, non è figura autonoma che possa fare ombra ad alcuno dei due contraenti. È lì per esporre, eseguire o al massimo mediare, mentre la Costituzione gli attribuisce un ben diverso compito di direzione della politica generale e di garanzia dell’unità dell’indirizzo politico e amministrativo del governo. Perfino il presidente della Repubblica è stato sottoposto a una pressione mai vista, culminata nella minaccia d’incriminazione per “alto tradimento e attentato alla Costituzione” avendo sollevato obiezioni circa la composizione della compagine ministeriale dal punto di vista della tutela dell’interesse nazionale: evitare il rischio di qualcosa come il “fallimento” dello Stato. La minaccia era velleitaria secondo il diritto costituzionale vigente ed è caduta. Non però per scrupoli giuridici ma per sopravvenute diverse strategie politiche che l’hanno fatta apparire controproducente rispetto alla tenuta del contratto di governo.
Le tensioni che si sono manifestate possono facilmente essere viste come primizie di ciò che potrebbe accadere se e quando in futuro misure necessarie all’attuazione del contratto fossero sottoposte al controllo della Corte costituzionale. Lo si comprende: il contratto non può essere “ smontato” pro parte. Verrebbe meno il punto d’incontro tra gli interessi divergenti delle parti che lo hanno sottoscritto. Verrebbe meno l’interesse congiunto a mantenerlo in piedi.
Si dirà: tuttavia in ogni governo di coalizione deve esistere un programma e il programma deve pur essere oggetto di trattative e compromessi. Ciò è ovvio. Ma non è indifferente chi prende l’iniziativa e chi la conduce avanti. Una cosa è il programma steso in colloqui riservati e tra soggetti operanti in forma privata (come in effetti è stato) e poi presentato ultimativamente agli organi costituzionali per la sua ratifica ed esecuzione; un’altra cosa è se, secondo procedure consolidate nel sistema di governo parlamentare, si procede a partire dal presidente della Repubblica che individua il soggetto idoneo a formare un governo sostenuto da una maggioranza in Parlamento. Questo è il proprium del governo parlamentare. Nella sostanza della procedura seguita nella formazione del governo oggi in carica, questa fase è stata di fatto soppressa. Il presidente della Repubblica ha atteso che altri operassero per incontrarsi in sede per così dire privata, arrivando a individuare vincolativamente il presidente del Consiglio che il capo dello Stato ha poi nominato. Gli organi costituzionali si sono ristretti e il potere di fatto di due capi politici si è allargato.
Impossibile negarlo: la Costituzione arranca. Sono giustificate le previsioni funeste per l’avvenire? Davvero la Costituzione è una nozione dépassée, secondo la formula usata tanti anni fa da un costituzionalista come Georges Burdeau? Le previsioni sono sempre rischiose e tuttavia pare di intravedere qualcosa che, con tutte le differenze del caso, sotto l’aspetto del post-moderno sembra celare qualcosa di pre- moderno. La Costituzione, come l’intendiamo, è un progetto che mira a sottoporre le forze politiche e sociali a un ordine voluto e progettato secondo un qualche piano razionale d’insieme, scritto in un documento riconosciuto come fondamento; prima dell’epoca delle Costituzioni, solo due secoli e mezzo fa, la Costituzione era un’altra cosa: era l’insieme di quelle forze, dei loro equilibri, della loro lotta per migliorare le proprie posizioni a scapito delle altre. Non ci vuol molto per comprendere che in questa lotta si riversavano le prepotenze dei più forti, cioè precisamente ciò che noi consideriamo propriamente anticostituzionale.
La vita delle potenze del nostro tempo mira non alla loro costituzionalizzazione, ma alla propria de-regolazione politica e alla loro libera competizione. Tuttavia, se prendiamo in considerazione la disgregazione sociale, la riduzione dei diritti e la crescita delle disuguaglianze e le tensioni distruttive che ne derivano: se consideriamo tutto ciò, a che cosa d’altro potremo allora rivolgerci, quando verrà il momento, per tentare di mettere un qualche ordine nelle nostre società, come già fu al tempo del crollo dell’Antico Regime, due secoli e mezzo or sono? A che cosa d’altro, se non a una costituzione politica, sia essa nazionale o sovranazionale ma comunque una Costituzione, ripeto, politica?

Repubblica 11.6.18
Il personaggio
Iniziò con il blog di Grillo
Il conflitto di interessi di Dettori l’uomo forte di Rousseau che ora punta a Palazzo Chigi
di Annalisa Cuzzocrea e Matteo Pucciarelli


ROMA Per chi lavorerà Pietro Dettori? Per il network della Casaleggio associati — ultimo impiego ufficiale: socio (e dipendente) dell’associazione Rousseau — o per il presidente del Consiglio di tutti gli italiani?
Chissà, ma per capire la nuova geografia del potere politico italiano bisogna passare anche da lui. Non è avvezzo ai riflettori e ha la stessa età di Luigi Di Maio, classe 1986; è nato a Cagliari e dopo anni a Milano negli uffici della società di marketing che ha dato vita al M5S insieme a Beppe Grillo, lo scorso marzo si è trasferito a Roma. Sarà il probabile capo dell’ufficio del premier Conte. E si racconta che il suo potere, ormai, sia maggiore a quello di Rocco Casalino, il dominus della comunicazione a Cinque Stelle. Ma le ossa se l’è fatte gestendo direttamente il blog beppegrillo. it e i relativi account social, prima che il comico decidesse di riprendere in mano il proprio megafono. Una ascesa che si è accelerata negli ultimi mesi, specie dopo la cacciata dalla casa madre Rousseau di David Borrelli, in rotta con il capo, Davide Casaleggio. Dettori era in aula a sentire il discorso di Conte, martedì scorso, mentre il presidente del Consiglio ricordava l’endemico problema di questo Paese: il conflitto di interessi. Il suo volto ha accennato appena un sorriso mentre dai banchi delle opposizione urlavano «e allora la Casaleggio?». In effetti in questa legislatura all’associazione Rousseau, nata alla morte di Gianroberto, vanno 300 euro al mese per ogni parlamentare del Movimento; cui si aggiungono i 300 euro mensili di tutti i consiglieri regionali sempre del M5S. Si tratta di oltre 6 milioni in cinque anni e di un crocevia di interessi diversi tra loro in mezzo ai quali si trova proprio Dettori: il “partito”, il gruppo parlamentare, l’azienda che ha le chiavi di Rousseau — la piattaforma dove il Movimento vota e vive — e infine il premier e il governo. Dal punto di vista della comunicazione, le capacità non gli mancano: fu lui tra i primi a intuire le potenzialità dei social network come campo di battaglia politico e culturale. Un luogo dove i meme, gli sfottò, spararla grossa, provocare, banalizzare, dividere il mondo in buoni e cattivi, funziona più di un ragionamento complesso; tecnica ampiamente messa alla prova col blog di Grillo, dove post del genere (rimarrà nella storia il “cosa fareste in macchina con la Boldrini?”) andavano alla grande.
Nonostante adesso Grillo tessa le lodi della piattaforma Rousseau, definita ieri in diretta video con la prima tappa a Torino del “Rousseau City Lab”, «un sistema straordinario, in anticipo sui tempi visto che c’è un pauroso ritorno all’analfabetismo». E nonostante la comunicazione social di Conte, curata in prima persona da Dettori, sia oggi improvvisamente rassicurante, giovanile (vedi le stories su Instagram) e gioviale.
Invece il fratello di Dettori, Marcello, anche lui ex della Casaleggio, gestisce un sito che è tutto un programma: Silenzi e falsità. In pieno stile “tutto quello che i media ufficiali non vi dicono”, con annesse simpatie per Putin, fa propaganda per il nuovo governo giallo-verde. «L’Italia — raccontava un enfatico editoriale di due giorni fa — è stata protagonista al G7 come mai era accaduto prima con i leaderini che facevano scompisciare dalle risate biascicando un inglese da scuola elementare (...) Gli altri leader si sono dovuti inchinare ai piedi dell’italiano Conte a supplicarlo di non spaccare pubblicamente il cosiddetto fronte europeo». Garantisce la famiglia Dettori.

Il Fatto 11.6.18
“Questo è un governo di selvaggi, ma il Pd doveva parlare coi 5stelle”
Il filosofo ex parlamentare del Pci: “Almeno il premier ha modi curati. Adesso i grillini rischiano di esser divorati dalla Lega”
“Questo è un governo di selvaggi, ma il Pd doveva parlare coi 5stelle”
di Antonello Caporale


Nei suoi splendidi 95 anni di vita, Aldo Masullo, filosofo, sentimentalista, studioso della morale collettiva, già parlamentare per la Sinistra indipendente al tempo in cui il Pci reclutava gli intellettuali di rango, si trova a dover giudicare il governo giallo-verde dei Cinque Stelle con la Lega. “Domenica 3 giugno ero in casa in poltrona come rintronato dalla novità. Le immagini scorrevano e il nuovo mondo si presentava. Ho provato una enorme solitudine. Mi sono sentito perso. Il mio era lo straniamento di chi non ritrova non solo i volti, e questo è naturale, ma le parole, le movenze, le virtù e persino i vizi di una compagnia alla quale in qualche modo era abituato”.
Professore, lei sebbene col mal di pancia, ha votato Partito democratico.
L’ho fatto e ancora lo rifarei per il senso che io do alla parola fedeltà. La fedeltà non è una virtù privata o pubblica oppure un gesto romantico. So bene quali siano le pecche, quanti gli errori, e il numero dei narcisi e degli sprovveduti, degli arruffapopolo che sono transitati nel Pd. La fedeltà che ho tributato al mio partito di riferimento, dal Pci a tutti i suoi eredi, rappresenta lo sforzo continuo che noi facciamo per dare una durata alle nostre idee, conservare qualcosa che è avvenuto ieri. Nel deserto generale delle idee, la stabilità ideologica rappresenta per me un porto sicuro, un piccolo punto fermo.
Altri elettori di sinistra, e se ne contano a milioni, hanno deciso diversamente da lei.
So bene. Perciò mi sarei aspettato che il Pd, invece di divenire spettatore muto, promuovesse anzi provocasse nell’immediato dopo voto un confronto con i Cinque Stelle. Io non avrei atteso la chiamata, avrei invece avanzato dei punti programmatici sui quali discutere. Forse non sarebbe accaduto nulla di strabiliante, ma avremmo acquisito una posizione dominante nel dibattito politico e non saremmo relegati al solo commento di uno scenario così lontano dalle nostre aspettative.
Ora che i giochi sono fatti e le alleanze concluse qual è la posizione che dovrebbe assumere il Pd?
Non replicare l’opposizione al primo Berlusconi, non ritenere che l’agonismo possa soppiantare la politica. Entrare nel confronto con le idee ben chiare, con proposte efficaci. Ribaltare un esito elettorale che è anche un moto di popolo non è impresa che possa essere affidata a generosi provocatori. Ha bisogno di studi, competenze e soprattutto ha bisogno di entrare nelle viscere della società. La sinistra sembra estranea, riparata nel suo pertugio che adesso si fa quasi invisibile. Quindi non spingere il tasto dell’accanimento e del pregiudizio, non incamminarsi sulla strada degli odiatori di professione. Essere sempre pronti a cogliere le contraddizioni che ci saranno, hai voglia tu se ci saranno! L’aggressività è una manifestazione di debolezza. In genere il forte riduce l’altro alla ragione grazie alla logica, alla spietata virtù del principio di realtà.
È speranzoso che ciò accada?
Io avverto che spesso si commette l’errore di ritenere la politica solo un mantello che si adagia su un corpo altrui. Così si perde di vista l’enormità della questione che ci tocca affrontare col nuovo mondo.
Ricordo bene, lei li illustra spesso i tre problemi capitali.
A) la globalizzazione; b) la finanziarizzazione dell’economia; c) la tecnologia. Questi sono i tre nuovi poteri con cui bisogna fare i conti. Invece, e qui avanzo una parola di compatimento, vedo i politici, anche questi che hanno vinto, che vanno al combattimento senza accorgersi che sono morti (ps. dovrebbero leggere l’Orlando secondo me).
La politica è sempre sopraffatta dalla realtà.
Appare sempre debole, incapace, incompetente.
E questo governo? Chi lo chiama dei barbari, chi lo vede fascistizzante, chi populista, chi sovranista.
Ha qualche elemento selvaggio, anche se il premier possiede modi curati e un linguaggio piano che credo piaccia a chi ha bisogno di intendere parole semplici.
Tullio De Mauro, il grande linguista, ricordava sempre che più di un terzo degli italiani comprende solo messaggi lineari, legge e capisce periodi semplici dove il sostantivo dev’essere accompagnato dal verbo e dal complemento oggetto. Ogni incidentale è vietata perché rende intelligibile la frase.
Ecco, questo siamo.
E a quelli che chiama selvaggi cosa consiglia?
Ai Cinque Stelle dico che devono fare più attenzione a ritenere come un fatturato democratico il clic sul computer. L’opinione pubblica, anche la loro, non matura attraverso un continuo referendum del sì e del no. La loro gente avanzerà nella coscienza e anche nella proposta attraverso la discussione. Devono sapere, se non lo sanno, che l’opinione pubblica si forma nel dibattito continuo.
A quali rischi va incontro il movimento di Grillo?
Di essere divorato dalla Lega. In politica come in natura può capitare che un serpente ne divori un altro. I Cinque Stelle raccolgono una massa più numerosa di voti, ma sono voti disomogenei dove vasti bacini di dolore sociale si uniscono, formando questo esercito della salvezza, a presenze a volte capricciose di oppositori per partito preso, e piccoli e mobili aggregati clientelari.
La Lega ha una fanteria meglio armata.
Sì, nel linguaggio bellico i Cinque Stelle fanno la figura delle reclute e i leghisti quella di una cavalleria compatta. Il blocco geografico è sperimentato, socialmente omogeneo e anche culturalmente affine, per lifestyle, ai dirigenti del movimento.
Serpente mangia serpente.
Sì. Anche perché la Lega ha la chance di riserva: se butta all’aria il tavolo si rifugia nella casa del Padre, il noto centrodestra servente. Un blocco di interessi che non si sfalda neanche se declina la figura del suo leader storico, Silvio Berlusconi.
E i grillini dove vanno?
Ecco, non hanno dove andare. Questa prova di governo è la prima e rischierebbe di divenire l’ultima se la realtà dovesse negare il tempo che serve alla speranza di trasformarsi in un atto, cioè in un fatto buono.

Il Fatto 11.6.18
Caro Battista, gli odiatori web lasciamoli nelle loro latrine
Rete - Gli insulti ad Asia Argento sui social
Caro Battista, gli odiatori web lasciamoli nelle loro latrine
di Antonio Padellaro


Leggo sul Corriere della Sera questo titolo: “Asia linciata sul web dai nuovi inquisitori”. Con due brevi sommari: “Gli odiatori (anonimi) senza pietà per l’attrice”. “Il pubblico assiste sbigottito a questa moderna caccia alle streghe senza limiti”. Asia è l’attrice Asia Argento – devastata dalla gravissima perdita del suo compagno Anthony Bourdain – e l’autore dell’articolo, Pierluigi Battista si occupa con indignazione, giusta e condivisibile, dei commenti (scagliati contro una figura femminile simbolo del caso Weinstein) che promanano dalle “latrine dei social network”. Domanda ingenua: quando fu che le latrine, di cui conosciamo la funzione, sono diventate scranno di “inquisitori”, e come è stato possibile che i loro miasmi abbiano raggiunto un “pubblico sbigottito”?
Da quando esistono, i commenti web degli odiatori (anonimi) vengono paragonati alle scritte sui muri dei vespasiani, oscenità spesso accompagnate dall’identità dei bersagli scelti (con relativa utenza telefonica). Risposta scontata: oggi, grazie o per colpa della Rete quegli insulti sono divenuti globali. Ok ma chi ci costringe a leggerli e soprattutto a renderli pubblici? È come se (per restare nella metafora web -wc) qualcuno prendesse accurata nota dei messaggi da latrina e ne divulgasse il contenuto con un grosso megafono in giro per la città. Eppure liberarci di quei gas mefitici sarebbe perfino più semplice che dare un’imbiancata alle pareti indecenti. È sufficiente, pensate, non spingere un semplice, piccolo pulsante sul computer. E ignorare quei poveri squilibrati e la materia in cui sono immersi.
Vi assicuro che si può vivere benissimo senza. Infatti se non andassimo a cercare i msg escrementizi, loro non potrebbero venire a cercare noi (tanto più che gli autori-odiatori una volta scoperti cominciano a scusarsi e a piagnucolare). Certo, lo sappiamo, quel semplice pulsante genera contatti che generano pubblicità che generano introiti. È il pubblico bellezza e tu non puoi farci niente. Anzi sì: non frequentare le latrine.

La Stampa 11.6.18
Centri per l’impiego il fallimento è sicuro
Hanno dato lavoro al 3% dei disoccupati
di Elisabetta Pagani


A quante persone dovrebbe trovare lavoro un Centro per l’impiego (Cpi) che funzioni? «Al 10-15% di chi bussa alla sua porta» stima Maurizio Del Conte, presidente dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro che coordina i 552 Cpi d’Italia. E a quante effettivamente lo trova? «A meno del 3%». Spostandosi dai numeri agli esempi il quadro non cambia, peggiora. «Gli uffici non condividono i dati - prosegue -, neanche quando sono vicini di casa come Lecco e Como. Con il risultato che un aspirante infermiere non vede se l’ospedale dell’altra città ha un posto vacante. Arriviamo al paradosso di poter visualizzare sul portale europeo Eures le proposte della Grecia ma non quelle della provincia a fianco». Gli effetti di questo meccanismo sono concreti, calcolati «in un 20-25% di posti di lavoro che rimangono vuoti perché domanda e offerta non si incontrano».
Ma perché i Cpi non funzionano? Scarse risorse (meno dello 0,05% del Pil mentre la media europea è dello 0,21%, dati Eurostat), scarso personale (7.900 addetti, di cui oltre mille precari, contro i 100.000 della Germania), scarse competenze (il 12% ha solo la licenza media), scarsa chiarezza sui ruoli di Regioni e Stato.
Un guazzabuglio che ha origini lontane ma oggi, ancora di più, torna d’attualità. I Centri sono gli eredi dei vecchi uffici di collocamento, cancellati da una legge del 1997 che ne cambiò il nome in Cpi, di competenza regionale. Nell’ambito del Jobs Act, il governo Renzi creò l’Anpal, che avrebbe dovuto esercitare il controllo sui Centri. Ma il referendum costituzionale fu bocciato e la materia è rimasta concorrente tra Stato e Regioni. Con il governo M5S-Lega, i Cpi tornano protagonisti perché saranno loro a prendere in carico i beneficiari del reddito di cittadinanza, qualora ci sarà. Il ministro del Lavoro Luigi Di Maio promette di finanziarli con 2 miliardi.
Basteranno? «Sono utili ma non sufficienti - commenta il presidente Anpal -. Do per scontato che sia un investimento annuale altrimenti non serve». Il primo elemento su cui investire è il personale. «Ad oggi le risorse destinate sono scarse - spiega Silvia Spattini, ricercatrice di Adapt, associazione fondata da Marco Biagi -. Nel 2014 eravamo penultimi in Europa per spesa per i servizi per l’impiego, nel 2015, ma con dati ancora provvisori, sestultimi. Senza contare che, fatto 100 di spesa per politiche del lavoro, in Italia il 2,3% va in servizi per l’impiego, il 23,8% in politiche attive (la metà per incentivi all’assunzione) e ben il 73,9% in politiche passive, ossia indennità di disoccupazione e cassa integrazione». Insomma, il lavoro che non c’è si tampona con i sussidi.
Secondo l’Osservatorio dei consulenti del lavoro, nel 2015 l’Italia ha destinato 750 milioni di euro per i servizi pubblici per l’impiego, mentre la Germania 11 miliardi e la Francia 5,5 miliardi. Confronto impietoso anche per il personale, rispettivamente 7.900 («il 22% dei quali in Sicilia, che però non ha performance migliori» dice Del Conte), 100.000 e 50.000.
Ma è anche questione di competenze. «In molti Cpi sono stati assorbiti dipendenti di altri enti pubblici che non hanno formazione specifica» conferma Del Conte. Come invertire la rotta che vede molti italiani rivolgersi a amici e parenti per trovare lavoro? «Investendo di più - osserva Spattini - e poi, come già proponeva la legge Biagi, lavorando a un sistema integrato di servizi pubblici e privati». I 2 miliardi promessi dal governo come verranno usati? «Un miliardo per gli stipendi, se pensiamo di raddoppiare il personale - spiega Del Conte - e l’altro per corsi di formazione e per modernizzazi

La Stampa 11.6.18
La battaglia dei cieli fra Israele e Hamas
Droni contro aquiloni incendiari a Gaza
di Giordano Stabile


Droni contro aquiloni. Lo scontro lungo la Striscia di Gaza mette in scena una sfida inedita, fra l’inventiva palestinese e l’alta tecnologia israeliana. La disparità di mezzi fra i militanti palestinesi e uno dei più potenti eserciti del mondo ha spinto Hamas e altri gruppi a utilizzare tecniche di guerra sempre meno convenzionali, come, ultima in ordine di apparizione, una galleria che sbucava nel mare, pronta per essere utilizzata dagli «incursori» palestinesi, distrutta dalle forze armate israeliane una settimana fa.
Ma ora, più che i tunnel d’attacco, sono gli aquiloni incendiari a mettere in difficoltà Israele. In un Paese arido basta poco ad appiccare incendi devastanti e gli aquiloni possono essere lanciati a sorpresa, da qualunque posto, richiedono una sorveglianza capillare lungo decine e decine di chilometri di confine.
Finora le «intercettazioni», con fuoco da terra o da droni armati, si sono rivelate poco efficaci e almeno un terzo degli aquiloni è riuscito a passare le linee e a causare incendi. Ieri per la prima volta l’esercito israeliano ha cambiato tattica e ha usato droni di sorveglianza, armati con un cannoncino, per individuare i lanciatori e bloccarli. Uno ha sparato «colpi di avvertimento» contro un gruppo che si preparava al lancio. Non ci sono state vittime ma i giovani hanno dovuto desistere. L’esercito ha avvertito che «le regole di ingaggio» sono cambiate e ora l’uso di aquiloni o palloni incendiari è considerato «una grave violazione» e pertanto «agirà di conseguenza». Che gli aquiloni si siano trasformati in armi lo hanno ammesso implicitamente le Brigate Salah al-Din, cioè «Saladino», che in un comunicato hanno denunciato l’attacco con «un tentato omicidio» e lo hanno definito «la prova del fallimento della strategia di Israele».
Anche se Hamas non ha mai incitato all’uso degli aquiloni è chiaro che dietro c’è un’organizzazione sempre più massiccia. Da marzo a oggi oltre 800 aquiloni sono stati lanciati verso Israele. Circa 500 sono stati abbattuti, secondo i dati del governo israeliano, ma gli altri hanno appiccato 300 incendi e distrutto due ettari e mezzo di coltivazioni e due ettari di zone protette. Gli abitanti dei kibbutz hanno chiesto al governo di intervenire con rappresaglie nella Striscia. Gli incendi causano notevoli perdite economiche e a volte bloccano il traffico per ore, come ieri sulla superstrada 34 fra Sderot e il kibbutz di Nirim. I danni più gravi li hanno subiti la foresta di Besor e la riserva naturale di Carmia, dove un terzo della vegetazione è finito in fumo a opera di un pallone carico di materiale incendiario.
Per i palestinesi l’uso di aquiloni incendiari è una forma di protesta contro il blocco imposto alla Striscia da parte di Israele e per la repressione delle «Marce del ritorno» al confine: dal 30 marzo oltre 120 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano e circa 10 mila feriti. Gruppi come la Jihad islamica e altri salafiti spingono per «azioni militari», a cominciare dal lancio di razzi sulle cittadine israeliane al confine. Hamas non ha ancora dato appoggio esplicito a una salto di qualità nel confronto perché per ora preferisce incassare la solidarietà dei Paesi musulmani per le dimostrazioni al confine. Ma il gruppo continua a lavorare in vista di una possibile guerra aperta. Domenica scorsa l’esercito israeliano ha scoperto un tunnel che sbucava in mare, al confine con Israele, «unico nel suo genere». Hamas, secondo i servizi israeliani, ha addestrato 1500 combattenti per incursioni dal mare e quello rischia di essere il fronte più insidioso.

Repubblica 11.6.18
Il summit Usa-Corea del Nord
Gli ultimi 800 metri poi Kim e Trump si stringeranno la mano
I leader hanno dormito in due hotel nel centro blindato di Singapore Domani lo storico incontro per avviare la denuclearizzazione
di Filippo Santelli


Pechino. Suite dell’hotel Shangri-La. Suite dell’hotel St. Regis. Sono ormai vicinissimi Donald Trump e Kim Jong-un. I due uomini che solo qualche mesi fa si promettevano distruzione nucleare dai due capi del pianeta, la scorsa notte hanno dormito a soli ottocento metri di distanza l’uno dall’altro. Nel quartiere delle ambasciate di Singapore, cuore di una città blindata dai check point della polizia e dei Gurkha nepalesi, i corpi speciali che ogni volta che estraggono il pugnale gli devono far bere del sangue. Dopo tanta strada, fatta in così poco tempo, resta però l’ultima distanza da colmare, quella che separa i leader di Stati Uniti e Corea del Nord da una storica stretta di mano. Serve a entrambi, per motivi diversi. A Trump per riuscire dove i suoi predecessori hanno fallito, l’inizio almeno della denuclearizzazione di Pyongyang, forse un Nobel per la Pace. A Kim per entrare nel club delle grandi potenze, forse aprendo al suo derelitto Paese un futuro di sviluppo.
«Il mondo intero guarda a questo storico summit», ha detto ieri il dittatore incontrando il premier di Singapore Lee Hsien Loong, padrone di casa che pagherà il conto del summit, e forse anche quello della stanza da 8 mila dollari con pianoforte a coda, idromassaggio e uno Chagall alla parete. La sua entrata trionfale Kim l’ha avuta anche grazie al compagno Xi Jinping, che gli ha prestato un fiammante Boeing 747 di Stato. Anziché puntare dritto da Pyongyang a Singapore, l’aereo ha deviato verso Ovest, volando quanto più possibile sopra i cieli cinesi prima di scendere all’aeroporto civile di Changi. Trump è atterrato qualche ora dopo nella base militare di Paya Lebar con l’Air Force One, niente prestiti. E mentre in volo faceva saltare per aria i risultati del G7, in fondo mandava anche un messaggio a Kim: ecco di cosa sono capace.
La stessa spregiudicatezza da negoziatore d’affari che il tycoon proverà a far valere anche domani mattina alle 9, le 3 di notte in Italia, quando i due si troveranno finalmente faccia a faccia all’hotel Capella di Sentosa, isola dei pirati trasformata in resort turistico di lusso. Scrive Bloomberg, citando fonti della Casa Bianca, che Trump vorrebbe stravolgere da par suo ogni rituale, iniziando il summit con un incontro a quattr’occhi, lui e Kim in una stanza. Solo dopo entrerebbero i rispettivi consiglieri. Da una parte il segretario di Stato Mike Pompeo e il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, rispettivamente “colomba” e “falco” dell’amministrazione, il primo ad aver discusso con il dittatore e quello che gli vorrebbe riservare una “cura Gheddafi”. Dall’altra l’immancabile sorellina Kim Yo-jong e il braccio destro Kim Yong-Chol, l’ex capo dell’intelligence reduce da un viaggio negli Stati Uniti, dove ha consegnato a Trump l’ultima lettera d’amore del suo capo.
Fa notare il New York Times che nella squadra americana manca un tecnico nucleare. Grave dimenticanza, si direbbe, a un tavolo in cui si dovrebbe discutere di chilotoni e arricchimento dell’uranio. O forse il segno che domani non si scenderà nei dettagli, che l’unico esito realistico di questo storico incontro, il primo tra Stati Uniti e Corea del Nord, è un comunicato pieno di dichiarazioni di intenti.
«Anche se entrambi la presenteranno come una vittoria, non può esserlo», dice François Godement, responsabile Asia allo European Council on Foreign relations. «Il summit verrà giudicato a seconda di quante concessioni immediate e verificabili ciascuno dei due farà». Beato chi si fida delle promesse. Kim accetterà subito di congelare il suo programma nucleare, o addirittura di liberarsi dei missili intercontinentali che minacciano gli Stati Uniti? Trump alleggerirà le sanzioni? La risposta dovrebbe arrivare già domani.
In teoria nessuno dei due ha prenotato il biglietto di ritorno, Trump ha detto che il vertice potrebbe anche durare due, tre giorni. In realtà è difficile si vada oltre la singola giornata. Meno tempo in apnea, per chi nei fatti o a parole questo incontro lo ha propiziato, Corea del Sud e Cina, o per chi di Pyongyang proprio non riesce a fidarsi, come il Giappone. Trump e Kim si incontrano davvero. E con due così, fino alla fine non si può sapere.

Repubblica 11.6.18
Intervista a Ian Bremmer
“Summit inutili in questo GZero vince solo la Cina”
di Antonello Guerrera


E insomma, Ian Bremmer, si è avverata la sua profezia. Il G7 è diventato il “GZero”, ossia un summit dei “Grandi” litigioso, ininfluente e insignificante.
«No, questo non è ancora il GZero, ma dopo l’ultimo G7 in Canada quell’epilogo è molto più vicino. È stato un summit estremamente disfunzionale. L’inefficienza di vertici ancora più allargati come il G20 è conclamata. Ma mai si era visto un fiasco simile dal 1975, quando ci fu il primo vertice di questa filiera (il G6 di Rambouillet, in Francia, con “padrone di casa” Valéry Giscard d’Estaing, ndr).
Non è ancora la fine del G7, ma di certo summit del genere ne escono molto, molto più deboli.
Sinora unire i leader dei Paesi più potenti del mondo è stato costruttivo. Ora sappiamo che non lo è più».
Chi è stato il maggior responsabile di questo flop?
«Trump e la sua dottrina “America First”, l’America prima di tutto.
Oramai l’alleanza atlantica è in serio pericolo a causa dell’unilateralismo — più che isolazionalismo — di questi Stati Uniti, che considerano le alleanze europee un peso più che una risorsa. Trump lo aveva fatto già fatto capire trattando male i giapponesi, i canadesi, i paesi asiatici uscendo dall’accordo commerciale Tpp. Ma questa deriva era in atto da tempo: l’ascesa della Cina, l’Europa sempre più debole, le azioni destabilizzanti della Russia».
Però, Bremmer, negli Stati Uniti Trump è stato eletto anche grazie a questo motto. C’è chi dice che lui ne esca molto più forte dal fiasco del G7.
«Invece ne esce più debole. Trump è come LeBron (il campione di basket Nba la cui squadra Cleveland ha perso giorni fa il titolo contro Golden State, ndr): puoi essere anche il più forte, ma se non giochi da squadra non vinci. Certo, ora può dire ai suoi elettori di essere stato un duro e magari avrà anche dei vantaggi a breve termine. Ma in una prospettiva più ampia le sue saranno strategie estremamente nocive per gli Stati Uniti».
Per esempio?
«Prenda il commercio. Trump ora si vanta dei dazi, ma a lungo termine saranno deleteri. E sa chi ne guadagnerà di più? Ovviamente “l’odiata” Cina, che calamiterà affari, appalti, accordi commerciali con tutto il mondo. Poi c’è la questione dei valori multilaterali e internazionali degli Stati Uniti, frantumati dopo questo G7. In 70 anni gli Usa hanno governato il mondo, nel bene e nel male. Certo hanno commesso anche degli errori. Ma vedendo quello che accade oggi, forse non era così male».
L’Europa come ne esce da questo G7?
«Molto più debole. Ma anche questo era un processo più o meno segnato. La sua “erosione” politica è in atto da tempo se consideriamo la Brexit, l’ascesa sempre più ingombrante di Putin, la stessa elezione di Trump. Perciò la chiamata di Macron per un “G6” guidato dall’Europa mi è parsa subito piuttosto stramba, soprattutto in un mondo sempre più volatile, anche nelle alleanze».
L’Europa capitolerà presto?
«Non necessariamente. Ma certo sarà ancora più divisa».
Il nuovo governo italiano sta dando una spallata comunque vigorosa all’Europa, visti i recenti allineamenti con Trump.
«È vero, ma credo anche che il vostro governo non durerà così a lungo, le divergenze tra Lega e Cinquestelle alla fine emergeranno. In ogni caso, il governo Conte è solo l’ultimo tassello dell’erosione dell’ordine internazionale che abbiamo conosciuto, che combatte l’establishment ma anche i modelli democratici contemporanei».
Per lei la Russia dovrebbe essere riammessa in un G8?
«Assolutamente no. Putin ha invaso l’Ucraina, destabilizzato l’Occidente, interferito in varie elezioni occidentali, è accusato di aver fatto avvelenare l’ex spia Skripal. Non mi pare proprio il caso di reinvitarlo al tavolo».
Putin ha invaso l’Ucraina, destabilizzato l’Occidente, interferito nelle elezioni Non deve essere riammesso in un G8

La Stampa 11.6.18
1918, i Mas che fecero l’impresa
Così a Premuda osarono l’inosabile per affondare la corazzata austriaca
di Fabio Pozzo


I due motoscafi armati siluranti salparono nel pomeriggio del 9 giugno di cent’anni fa dal porto di Ancona senza magnificenza, trainati da due torpediniere per risparmiare carburante. Il Mas 15 era condotto dal capo timoniere Armando Gori e ospitava anche il comandante della missione, il capitano di corvetta Luigi Rizzo, siciliano di Milazzo, già eroe per aver affondato la corazzata Wien e per aver preso parte alla «beffa di Buccari» con Costanzo Ciano e Gabriele D’Annunzio. Il Mas 21 era al comando del savonese Giuseppe Aonzo, un guardiamarina che proveniva dalla Marina mercantile. Presero il largo verso la Dalmazia, dove da lì a poco, a Premuda, sarebbero passati alla Storia.
La guerra sull’Adriatico si combatteva da parte italiana soprattutto con motosiluranti, naviglio sottile e sommergibili. Gli ufficiali della Kriegsmarine
, che avevano deriso la Regia Marina dopo la sconfitta di Lissa del 1866 («teste di legno su navi di ferro», dissero dei nostri comandanti), ci temevano. L’ammiraglio Miklos Horthy, futuro reggente d’Ungheria, se ne stava rintanato a Pola al comando della flotta imperiale, prudentissimo. A differenza di Rizzo, il quale, assunto il comando della IV squadriglia Mas ad Ancona, aveva ricevuto invece ordini ben diversi: l’imperativo era utilizzare i mezzi navali a disposizione senza risparmio, «osando l’inosabile».
Una nuvola di fumo
Le due unità si staccarono dal rimorchio intorno alle 21,30, dinanzi alla costa dalmata, e si diressero tra l’isolotto di Guiza e il banco delle Selve, a Sud di Lussino. Quella era un’operazione antimine di routine, ma gli equipaggi erano comunque pronti all’azione. L’avvistamento intorno alle 3,15 di una grossa nuvola di fumo fu dunque un caso fortunato, ma non fortuito. Rizzo notò il segnale sulla via del rientro e pensò subito a unità nemiche. Forse, torpediniere… Non poteva sapere che Horthy era venuto meno all’indugio e stava raggiungendo il porto di Cattaro con un grosso convoglio, due corazzate e sei cacciatorpediniere, per unirsi al resto della flotta austro-ungarica e da qui sferrare l’attacco contro lo sbarramento navale italiano del canale di Otranto (il piano, più ampio, prevedeva anche l’isolamento delle nostre basi in Albania e un’offensiva sul Piave, come ricorda Carlo Bruschi in Ancona nella Grande guerra, Affinità elettive, 2013). L’ammiraglio austriaco era così convinto del successo, che aveva imbarcato persino alcuni operatori cinematografici per assicurarsi le immagini della battaglia.
Rizzo mosse l’assalto. Lanciò i due siluri e colpì la corazzata Szent István, che colò a picco dopo due ore e mezzo di agonia. Non furono altrettanto efficaci i proietti del secondo motoscafo, scagliati contro l’altra corazzata, la Tegetthoff, che non affondò. Ma l’impresa era comunque compiuta. I Mas ripresero la via di Ancona, coprendosi l’un l’altro sotto il fuoco nemico. Poco dopo l’alba del 10 giugno fecero rientro in porto, «scarichi di siluri, carichi di onore e di gloria», come segnalarono al Comando le vedette della stazione semaforica di Monte Cappuccini; Horthy, invece, ripiegò su Pola, mettendo fine al piano d’attacco che avrebbe dovuto assicurare a Vienna la «vittoria decisiva».
Vendicata Lissa
Per i due ufficiali italiani fu la medaglia d’oro, d’argento per gli altri componenti degli equipaggi. E i Mas aggiunsero una tacca al loro palmarès, che vide questa flotta - in totale 244 unità - sferrare nel corso della Grande guerra 152 azioni per più d’un milione e mezzo di miglia percorse.
La sconfitta di Lissa della Terza guerra d’indipendenza era stata vendicata. E l’impresa di Premuda è da allora uno dei simboli della Marina militare italiana, che nella ricorrenza celebra la sua festa (quest’anno si tiene oggi proprio ad Ancona, per celebrare il centenario dell’impresa).
Rizzo lasciò poi la squadriglia nell’ottobre seguente. Divenuto conte di Grado e di Premuda per meriti bellici, prese parte all’impresa di Fiume, fu deputato fiumano a Roma, amministratore delegato di compagnie di navigazione e di enti, finché non fu arruolato allo scoppio delle nuove ostilità (dopo essere stato volontario in Etiopia) con le greche di ammiraglio di divisione, con le quali diresse la lotta anti U-boot nel canale di Sicilia. «L’Affondatore», questo il soprannome, fu nominato anche presidente del Lloyd Triestino, onore che pagò dopo l’8 settembre 1943 con la deportazione da parte della Gestapo nel campo di Hirschegg per aver affondato a Trieste le navi Duilio e Giulio Cesare così da sottrarle ai tedeschi.
Luci meno dirette, invece, per l’altro eroe. «Mio nonno era un uomo schietto, sincero, di poche parole. Non amava parlare di Premuda, quando richiesto, per mero pudore», racconta Giuseppe Grillo, il nipote di Aonzo, che si batte perché l’avo venga ricordato. «Dopo la guerra riprese il mare su navi cisterna e diventò dirigente della Columbia, la Esso italiana. Accettò nel 1933 la carica onorifica di podestà di Savona, che lo vide realizzare infrastrutture urbane e scolastiche e che detenne fino al ’35, quando fu richiamato in servizio dalla Marina. E poi tornò alla Columbia, fino alla morte nel 1954».
Rizzo del collega disse che sarebbe dovuto essere «meno schivo, meno riservato e più presente». Intendendo che, fosse stato più «social», avrebbe forse incassato più visibilità. Ma non era nello stile del ligure. Un eroe per dovere, più che per vocazione. Di quell’impresa viveva soprattutto il rammarico dei siluri che non erano stati efficaci (uno non si staccò subito dalle tenaglie e quando partì scivolò a poppavia della Tegetthoff). «Ancora non posso levarmi l’impressione del fischio delle eliche del siluro, giranti nell’aria», scrive in una lettera inedita, custodita dalla famiglia. «Ah!, se quel siluro fosse partito a tempo io sarei più che sicuro che il caro austriaco che mi stava di prora nave adesso sarebbe ai piedi del dolcissimo…».

La Stampa 11.6.18
Jane Fonda a 80 anni
“Non tornerei mai indietro nel tempo. Uomini? Basta, direi di aver finito”
di Lorenzo Soria


In un’altra epoca - non molto tempo fa - arrivare a 80 anni era un traguardo non da poco. Arrivarci pure in piena forma fisica e mentale, continuando a essere attivi e a lavorare, facendo nuove amicizie e parlando pure dei propri desideri sessuali fantascienza pura.
Oggi incontri Jane Fonda, e tutte le certezze su età e invecchiamento di colpo crollano. Un’apparizione. Quel portamento. La pelle risplende, gli occhi sono pieni di luce e appena segnati da qualche ruga. Jane si permette ancora modeste scollature, come nella serata degli Oscar. Guai a parlarle di nostalgie e di rimpianti, lei guarda solo avanti. 80 anni? Non gliene daresti più di 54.
Sul finire del secolo scorso, per un periodo di 15 anni in corrispondenza del matrimonio con Ted Turner (marito numero 3) Jane Fonda aveva annunciato l’addio al cinema. Ma dopo avere fatto Youth diretta da Paolo Sorrentino, ora lavora senza fermarsi mai. Di questi tempi è una delle protagoniste di Book Club, in uscita in Italia il 31 ottobre, storia di quattro donne di una certa età (le altre sono Diane Keaton, Candice Bergen e Mary Steenburgen) che dopo aver letto insieme Cinquanta sfumature di grigio scoprono di avere ancora fantasie erotiche. Con l’amica Lily Tomlin, Fonda è poi alla quinta stagione della serie tv Grace and Frankie, storia di due donne che diventano amiche dopo avere scoperto che i loro mariti si sono innamorati l’uno dell’altro. «È tutto molto strano, lavoro più adesso di quando ero giovane!», è il suo commento.
Hbo ha prodotto un documentario sulla sua storia: una vita intensa, molto vissuta e per nulla convenzionale. È figlia di Henry Fonda, una leggenda del cinema ma anche un padre freddo e distaccato. La mamma si tolse la vita quando lei aveva 12 anni. Ai 20 si rifugiò in Francia, dove Roger Vadim, suo primo marito, la diresse in Barbarella facendo di lei un esplosivo sex-symbol.
Quindi il ritorno in America, e la serie di film entrati nella storia del cinema come Una squillo per l’ispettore Klute (1971), Giulia (1977), Tornando a casa (1978), Sindrome cinese (1979) e Sul lago dorato (1981). Tutto ciò segue la fase della Jane rivoluzionaria che va a Hanoi e si fa fotografare su un cannone nord-vietnamita, e precede la Jane pioniera della ginnastica aerobica. Fonda non ha mai seguito le regole né le mode, quando era giovane e da donna di mezza età. E non ha intenzione di mettersi a farlo adesso che ha 80 anni.
Jane, partiamo da «Book Club», un film che rispecchia la nuova realtà sociale di molte ottantenni di oggi, che hanno una vita simile a quella delle cinquantenni di qualche tempo fa.
«Personalmente non vorrei tornare indietro nel tempo per nessuna ragione, tanto meno ai 50 anni. Mi sentivo esaurita creativamente. Solo dopo i 60 ho iniziato a capire me stessa e a sentirmi di nuovo giovane. Perché l’invecchiamento non è una questione di anni ma di spirito. Lo vedo nel lavoro: ho ritrovato la gioia di vivere e la mia carriera ha ripreso il volo. Oggi restiamo attivi e sani più a lungo perché sappiamo meglio come arrivare alla cosiddetta terza età. Siamo fisicamente più attivi, forse stiamo mangiando un po’ più attentamente. Ma mentre queste parole escono dalla mia bocca sono anche molto consapevole di tutti quelli che non hanno questo privilegio: i poveri, molta gente di colore in America, le classi meno abbienti, le vittime degli oppiacei... Molti in realtà non hanno questa esperienza, ma resta comunque importante mostrare persone anziane vibranti e con amicizie molto profonde. Le amicizie sono fondamentali perché non c’è niente di peggio della solitudine».
In «Book Club» vediamo persone in età avanzata che parlano di sesso e lo praticano.
«Le donne anziane sono il segmento di popolazione in più rapida crescita e il cinema e la televisione stanno iniziando a capire che questo è un mercato importante. All’interno del quale sì, ci sono anche donne anziane che fanno sesso. Ho scritto libri sull’invecchiamento e ho intervistato persone che praticano il sesso ben oltre i novant’anni, un paio di loro oltre i 100 anni. Quando sei più vecchio il sesso è diverso, in particolare se anche l’uomo è vecchio. Devi conoscere il corpo tuo e suo, capire come cambia, che cosa devi fare in modo diverso. Perdi qualcosa, per esempio la spontaneità, non è facile saltare nel letto e metterti a farlo. Devi pianificare. Ma tutto questo può anche essere molto sexy. Quindi il sesso quando sei più vecchio non solo esiste ma può essere meglio di prima, specie per noi donne perché conosciamo meglio il nostro corpo e non abbiamo paura di chiedere ciò che vogliamo».
Ha una relazione in questo momento?
«No, da un anno no. Penso di aver finito. Ho 80 anni!».
Jane, il segreto della sua fenomenale bellezza?
«Ho avuto buoni geni. E ho anche chiesto aiuto alla chirurgia plastica. Non lo nego, l’importante è non strafare. Credo di assomigliare ancora a me stessa! Ho anche le ginocchia nuove, sono mezza bionica. Ma gli aspetti più importanti sono sempre l’atteggiamento e l’energia. Restare curiosi, con molti interessi, continuare a imparare e fare nuove amicizie, preferibilmente con persone più giovani. Apprendi dai tuoi amici, è per questo che amo la serie Grace e Frankie. Cosa ne sarebbe stato di Grace se non avesse avuto Frankie nella sua vita? Io e Lily siamo entrambe davvero fortunate ad avere questa esperienza di lavoro».
Jane, con l’aerobica ha aperto alle donne le porte delle palestre.
«Quando ero giovane le donne non dovevano sudare mai e non dovevano avere muscoli. Non c’erano palestre per noi. Ho aiutato a cambiare questa cultura e ne sono molto orgogliosa. È importante restare attivi e sì, mi esercito ancora ma mi muovo piano. E se ho soltanto un paio di decenni davanti a me, voglio essere sicura di continuare a camminare eretta. Lo so, suona un po’ stupido dirlo, ma è vero: la postura è fondamentale».
Un’ultima domanda: come vede la morte?
«Che posso dire? È parte della vita, la morte e l’invecchiamento sono ciò che dà un senso alla vita. Se non morissimo, la vita non avrebbe senso o significato. È come il rumore, che non avrebbe significato senza il silenzio. Come la luce, che non avrebbe significato senza il buio. Quando parliamo di invecchiamento, in realtà diciamo che a un certo punto arriviamo alla fine della vita e moriamo. E credo che sia importante essere molto, molto consapevoli di questo e rifletterci sopra e prepararsi. Perché nessuno vuole arrivare alla fine con un sacco di rimpianti. Vuoi amore, vuoi serenità. E quindi devi pensarci bene: come voglio essere alla fine della mia vita? E poi devi lavorarci sopra».

Repubblica 11.6.18
 Anniversari
“Mio marito Solgenitsyn a cena con Putin”
Cent’anni fa nasceva il grande scrittore russo di “ Arcipelago Gulag”
La moglie Natalia racconta le persecuzioni, l’esilio, il Nobel, il rientro in patria E gli incontri con il leader del Cremlino, da lui molto apprezzato
Intervista di Rosalba Castelletti


MOSCA L’autore di Arcipelago Gulag quest’estate sarebbe diventato centenario. Nel decennale della sua scomparsa è Natalia Solgenitsyna, la donna che passò quarant’anni al suo fianco, a incarnarne l’eredità.
L’infaticabile vedova settantottenne continua a editare i suoi scritti. «Un’opera sempre attuale, perché descrive il comportamento dell’essere umano nelle situazioni estreme e non le circostanze», dice a un incontro presso la Biblioteca di letteratura straniera di Mosca a cui partecipa anche La Repubblica. Tema: «Il rapporto dello scrittore russo con il potere». Uno dei soggetti privilegiati da Aleksandr Solgenitsyn, che scontò il suo dissenso con il Gulag e con l’esilio. Il libro La Quercia e il Vitello. Saggi di vita letteraria
racconta la lotta dell’autore, mansueto vitello, contro il regime sovietico, inamovibile quercia. Ce ne può parlare?
«Il libro non parla solo degli ostacoli che il potere creava al letterato, ma anche dei letterati sottomessi alle autorità. Gli scrittori non scelgono questo mestiere. Scrivono perché non possono non scrivere. Sotto l’Urss avevano due scelte: scrivere e mettere tutto in un cassetto o scendere a compromessi per superare la censura. La cosa più triste è che gran parte dei letterati accettarono le regole del gioco.
Dovevano iscriversi all’Unione degli scrittori, un’organizzazione burocratica che soffocava i dissidenti con le mani dei loro stessi colleghi».
Il libro è ancora attuale?
«Sì. Il suo messaggio è che, anche se sei solo, puoi combattere. Se sei capace di resistere e il tuo avversario lo capisce, acquisti una forza potente. Ma non tutti sono pronti. Nel libro sono descritte vicende di sessant’anni fa, ma il comportamento di una persona in una situazione estrema è sempre lo stesso. Applicatelo a voi stessi.
Questo libro è ancora attuale come tutti i libri di Solgenitsyn. C’è l’opinione superficiale che Solgenitsyn scrivesse solo dei campi di lavoro. Sì, ne ha scritto, ma la sostanza dei suoi libri non è questa.
Solgenitsyn descriveva il comportamento delle persone nelle situazioni estreme. Si ispirava alla sua esperienza personale: l’infanzia senza padre, la guerra, il gulag, l’esilio. Descriveva la gamma di comportamenti di un essere umano costretto ad affrontare situazioni difficili che richiedono scelte difficili».
Nel 1974 Aleksandr Solgenitsyn fu privato della cittadinanza, espulso dal Paese per cui aveva combattuto e che lo aveva fatto prigioniero.
Trascorse in esilio vent’anni.
Come visse quel periodo?
«I primi mesi si chiedeva se potesse scrivere o meno. Aveva paura. Poi la paura passò e scrisse per tutti i vent’anni trascorsi in Occidente.
Solgenitsyn era stato insignito del Nobel nel 1970, ma non era andato a Stoccolma per paura che non gli avrebbero permesso di tornare.
Solo dopo che fummo espulsi, andammo a Stoccolma a ritirare il premio. Ci fu una conferenza stampa in una sala colma di giornalisti di tutto il mondo. A una domanda Solgenitsyn rispose che pensava che sarebbe tornato presto in Russia. Pensava che l’Urss avrebbe cessato di esistere.
Quando gli fu chiesto come sarebbe stato possibile, rispose che secondo lui il comunismo non sarebbe durato a lungo. In sala ci fu un sorriso accondiscendente, ma nessuno gli credette. Nessuno ci credeva neppure in Russia. Nel 1983, un giornalista britannico gli chiese se pensava che i suoi libri sarebbero mai tornati in Russia. E lui rispose: “Non solo i miei libri, ma io stesso. Tornerò in Russia da vivo”. E il giornalista lo guardò come se fosse troppo naif».
Durante gli anni trascorsi in esilio in Occidente, che cosa ha appreso?
«Non pensava che tutto quello che c’era in Occidente potesse essere adattato alla Russia. Pensava però che un Paese così grande non potesse essere gestito solo dal Cremlino. Dal Cremlino è impossibile vedere cosa succede a Vladivostok. Insisteva sulla necessità di un autogoverno locale.
Citava due esempi a modello: la Svizzera e il New England. La “democrazia dei piccoli spazi”. I primi tempi, dopo essere tornati, veniva invitato spesso alla Duma e ne parlava».
Della “democrazia dei piccoli spazi” e dell’autogoverno locale ha scritto nel pamphlet “Come ricostruire la Russia” poco dopo il crollo dell’Urss. Perché, al suo rientro in patria nel 1994, non partecipò attivamente alla “ricostruzione”?
«Non voleva avere alcun ruolo politico. Non voleva aderire a nessun partito. Voleva solo che le autorità lo ascoltassero. Voleva dare consigli perché aveva speso tanti anni a studiare la storia russa. Era uno statista. Perciò il suo saggio di allora resta valido».
Una volta eletto presidente nel 2000, Vladimir Putin volle incontrare Solgenitsyn. Che rapporto aveva suo marito con il leader del Cremlino?
«Quell’incontro ha un antefatto.
Solgenitsyn odiava il telefono. Nella stanza dove lavorava non ce n’era.
Rispondevo io alle chiamate e, se necessario, lo convocavo. Un giorno telefona un ufficiale di collegamento di Putin. Dice che il presidente ci invita al Cremlino per fare la nostra conoscenza. Io rispondo che dubitavo ci saremmo andati. “Se Putin vuole conoscere Solgenitsyn”, dissi, “che venga”. E così fu. Putin venne da noi a fine giornata insieme all’allora moglie.
Solgenitsyn e Putin parlarono per due ore, mentre io m’intrattenevo con Ljudmila Putina. Poi, quando si era già fatto tardi, scesero al piano terra. Stavo preparando del tè, ma Putin chiese qualcosa da mangiare.
Dopo quell’incontro, ce ne furono altri due. Nel 2007 Putin tornò a casa nostra per conferire a Solzhenitsyn la massima onorificenza statale. La sostanza del loro colloquio fu questa: Solgenitsyn pensava che la politica di Gorbaciov fosse stata debole e avesse lasciato espandere la Nato e che Eltsin fosse stato altrettanto irresponsabile. Era soddisfatto invece dai primi passi di Putin in politica estera. Putin era riuscito a risollevare il Paese dal fondo nel quale lo avevano cacciato i suoi predecessori».
Che relazioni ci sono oggi tra Putin e gli scrittori?
«I rapporti sono diversi rispetto a quando c’era l’Urss. Nell’Unione sovietica gli scrittori avevano un ruolo importante, ma non potevano pubblicare i loro libri senza superare censura e pressioni e senza ottenere l’autorizzazione delle autorità. Ora gli scrittori non sono più importanti, ma possono scrivere qualsiasi cosa, non devono ottenere le autorizzazioni di diverse commissioni per pubblicare. Non ci sono più rapporti tra potere e scrittori. A partire dagli anni Novanta, mi sembra che il potere non abbia più bisogno degli scrittori, perché la letteratura ha perso il ruolo educativo che aveva una volta. I grandi scrittori oggi non hanno bisogno del potere, quelli piccoli sì per fare stampare i loro libri. Ci sono molti scrittori e poeti brillanti, ma non ci sono pensatori, quei letterati che tutti riconoscono essere i più grandi. La società è spaccata. Gli scrittori non guidano la società, per questo il potere non ne sente più il bisogno. La situazione può cambiare, magari sta cambiando. Più l’Occidente esercita pressioni sulla Russia più il popolo si compatta. Magari un giorno si riconoscerà in un letterato e allora il potere ne avrà bisogno.
Tra l’altro l’Occidente sta facendo un errore strategico. Sta ottenendo una cosa opposta a quella che vorrebbe».
Oggi il vero problema è l’autocensura. Non crede?
«Quando c’è libertà totale, l’autocensura ci vuole. Non quella politica, ma quell’artistica, morale, etica. Aleksander Tvardovsky, direttore di Novij Mir, che pubblicò molti libri di Solgenitsyn, lo capiva. Solgenitsyn non era d’accordo con lui, ma se ne pentì. Quando ci fu libertà totale, l’impressione fu terribile».
Nabokov e Solgenitsyn si erano accordati per incontrarsi.
Perché l’incontro non ci fu?
«Non so di chi fu la colpa.
Quand’eravamo a Zurigo, si scambiarono un paio di lettere.
Nabokov si congratulava con Solgenitsyn per aver riconquistato la libertà, Solgenitsyn rispondeva che purtroppo i figli dei suoi amici non potevano studiare in un Paese libero. Fu una corrispondenza breve. Nel novembre 1974 avevamo programmato un viaggio per la Svizzera e Nabokov ci invitò a fargli visita. Gli comunicammo le date del nostro viaggio, ma non ricevemmo risposta, però non potevamo rimandare quel viaggio. Una volta a Montreaux giravamo intorno al Palace Hotel, indecisi se entrare o meno. Nabokov ci aspettò per un’ora al ristorante. Evidentemente la sua lettera non arrivò. Nel 1972 Solgenitsyn aveva proposto di conferirgli il Nobel. Gli dispiacque che la fondazione non lo ascoltò».

Il Sole 11.6.18
L’accesso
Per i medici praticantato durante il corso di studi
di Antonello Cherchi


Cambiano le regole dell’abilitazione dei medici: il tirocinio di tre mesi verrà svolto durante il corso di studi e l’esame di Stato, che si potrà sostenere tre volte l’anno, consisterà in una batteria di 200 quesiti a risposta multipla. Sono gli effetti del decreto del ministero dell’Università 58 del 9 maggio 2018, che entrerà in vigore sabato prossimo, mandando in soffitta le vecchie regole dell’abilitazione alla professione intervenute nel 2001 (decreto 445).
La prima novità è lo spostamento della pratica durante il corso di laurea, non prima del quinto anno e purché si sia in regola con gli esami fondamentali dei primi quattro anni di studi. Il tirocinio teorico-valutativo consisterà nell’applicazione delle conoscenze biomediche e cliniche alla pratica medica, nel risolvere questioni di deontologia professionale e di etica medica, nel dimostrare di sapere affrontare e risolvere problemi clinici relativi alle aree della medicina e chirurgia, alla diagnostica di laboratorio e strumentale e alla sanità pubblica.
I tre mesi di pratica potranno anche essere non consecutivi, ma dovranno essere svolti secondo il seguente programma: un mese in area chirurgica, uno nell’area medica e il terzo, da effettuare non prima del sesto anno di corso, nell’ambito della medicina generale. Quest’ultimo periodo dovrà essere svolto presso l’ambulatorio di un medico di medicina generale in possesso dei requisiti individuati dalle convenzioni che le università stipuleranno con gli Ordini provinciali dei medici.
Per due anni a partire da sabato prossimo - dunque, entro il 16 giugno 2020 - chi non supererà il tirocinio nuova maniera, potrà essere ammesso all’esame di Stato secondo le vecchie regole, dunque sostenendo il praticantato dopo la laurea.
Con il tasca il tirocinio - la cui frequentazione e valutazione sarà certificata sia dal professore o dal dirigente medico responsabile della struttura frequentata dal tirocinante, sia dal medico di medicina generale - e una volta conseguita la laurea, il futuro medico potrà accedere all’esame di Stato. Quest’ultimo dovrà essere effettuato nell’università in cui il candidato ha svolto l’ultimo anno di corso e si è laureato.
La prova di abilitazione potrà essere organizzata in modalità telematica, si terrà tre volte l’anno (a marzo, luglio e novembre) e consisterà in 200 domande a risposta multipla preparate da una commissione che resterà in carica tre anni: 50 quesiti relativi alle competenze mediche di base applicate alla pratica professionale e 150 più dedicati alle conoscenze biomediche e cliniche e alla capacità de lcandidato di risolvere questioni di deontologia professionale ed etica medica. Si supera l’esame se il risultato finale è di almeno 130 punti. Nel caso di insuccesso, la prova potrà essere ripetuta nella sessione successiva.
Le nuove regole sull’abilitazione si applicheranno dalla sessione di esami di Stato di luglio del prossimo anno.