Corriere 10.6.18
Archivi Acquisito per 125 mila euro dalla
Biblioteca Nazionale di Roma un fondo di appunti e corrispondenze messo
all’asta dagli eredi
Grazie Ungaretti, fratello maggiore
Un corpus di 630 carte autografe e 170 lettere. Così i giovani autori scrivevano al poeta
di Paolo Di Stefano
Pochi
poeti e letterati sono riusciti ad avere l’energia vitale di Giuseppe
Ungaretti nel tessere rapporti con intellettuali e artisti di ogni
generazione, uomini e (ovvio) donne, italiani e stranieri. Il risultato è
una impensabile mole di corrispondenza con scrittori, editori, pittori,
registi, compositori, amici famosi e no. Centinaia e centinaia di carte
in verde, perché l’inchiostro verde, almeno dal 1949, è il suo segno
distintivo. E in verde sono, in buona parte, i manoscritti di Ungaretti
detenuti dall’erede, il genero Mario Lafragòla, e messi all’asta da
Minerva-Finarte (il 12 giugno) per le cure del responsabile Fabio
Massimo Bertolo: 630 carte raccolte in cartelline bianche e circa 170
lettere firmate da corrispondenti spesso illustri. Un archivio che la
Biblioteca Nazionale di Roma, grazie alla lungimiranza del suo direttore
Andrea De Pasquale, ha acquistato per 125 mila euro.
Dunque,
autografi delle opere poetiche, di conferenze, saggi, articoli, abbozzi e
bozze, appunti, pane abbondante per i denti dei filologi: con varianti
d’autore e molteplici sorprese sulla genesi dei libri e sul laboratorio
del poeta. E le lettere, si diceva, che documentano l’impressionante
varietà delle amicizie. Dalle primissime (Enrico Pea) a quelle acquisite
negli anni via via che Ungaretti diventa il punto di riferimento
(morale oltre che poetico) delle generazioni che verranno, dagli
ermetici alla neoavanguardia. Sempre in bilico tra scambio culturale e
confidenza privata. Il che appare chiarissimo, per esempio, nelle belle
lettere di Attilio Bertolucci. Il poeta di Parma, trentasei anni, l’11
novembre 1947, da Baccanelli, confida a Ungaretti di aver lavorato a
Roma malvolentieri per i documentari di Antonio Marchi: «L’unica
consolazione era muoversi in quella benedetta aria pulita, dopo le
nostre nebbie, camminare nel sole verso l’una diretti alla solita
trattoria, svegliarsi per la luce mattutina entrata dalla finestra
socchiusa». Bertolucci, che si dichiara «un famoso falso malato di
cuore», si sofferma poi sulla crisi di angina pectoris da cui Ungaretti è
stato colpito in giugno: «e mi pareva che anche noi avessimo abusato
della sua generosità, che tutti si avesse un po’ di colpa». È l’anno
dell’uscita de Il dolore e Attilio rivolge al «fratello maggiore» un
omaggio tutt’altro che convenzionale: «Si può dire che la mia vita
potrei ormai segnarla con l’apparizione dei suoi tre libri». Lo stesso
«entusiasmo» che traspare dalle parole con cui Mario Luzi, il 2 novembre
dello stesso anno, definisce il libro opera «d’una fatalità
inesorabile».
L’interlocuzione con i colleghi più giovani è una
costante ed emerge ancora dalle epistole del «devotissimo» Edoardo
Sanguineti, non ancora giunto all’esordio ma le cui opinioni su Gozzano,
Pascoli, Montale, nell’ottobre 1955, sono già ascoltate dal quasi
settantenne Ungaretti. E in una breve lettera del 23 dicembre con
l’augurio di un felice Natale Sanguineti comunica una notizia che l’ha
reso «quasi delirante»: «il 19 ho avuto un figlio, e maschio; si
chiamerà Federico. Non Le parlo delle molte, delle troppe emozioni (ho
assistito con tanta angoscia e tanta gioia al parto di mia moglie)».
Tra
i primi patrocinatori di Andrea Zanzotto c’è sempre Ungaretti, che nel
1954, al convegno letterario di San Pellegrino, pronuncerà un
lusinghiero discorso sulla prima raccolta del poeta veneto, Dietro il
paesaggio. Il 9 aprile 1955 Zanzotto esprime all’«Ill.mo maestro» la sua
gratitudine per il «costante interessamento» nei suoi riguardi e per
l’invio del bando del Premio Versilia. Il 2 luglio, deluso dall’esito
dei suoi versi presso la critica, il giovane poeta ci tiene ad
aggiungere: «E devo dirLe che la fiducia concessami da Lei mi aiuta
immensamente a credere, e a fare quel poco che faccio (…). Davvero,
mentre i critici oggi non sembrano vedere che romanzi e romanzetti, se
non ci fossero i poeti, nostri fratelli maggiori, che si accorgono di
noi giovani (ma, ormai, non tanto…) ci si dovrebbe disperare».
Devozione
e riconoscenza anche quando viene chiamato a intervenire contro le
censure dell’Italia bacchettona. Nel 1956 Ungaretti sarà sollecitato
dall’amico Pasolini a testimoniare, con il linguista Alfredo Schiaffini,
con il filologo Gianfranco Contini e con il critico Carlo Bo, a
proposito di Ragazzi di vita, il romanzo che finì sotto processo,
segnalato dal governo alla Procura di Milano per oscenità (sulla vicenda
e sul lavoro di autocensura imposto da Garzanti a Pasolini sulle bozze
del romanzo, una ricca e rigorosa ricostruzione di Silvia De Laude, I
due Pasolini, è appena uscita per Carocci). Consapevole della stima di
Ungaretti, che lo aveva invano promosso allo Strega e al Viareggio,
Pasolini il 16 settembre ’55 scrive per ringraziare di un «tale impeto
di simpatia». Ma è nell’estate dell’anno successivo che l’Sos
pasoliniano si fa pressante in vista del processo del 4 luglio a Milano.
La richiesta è di essere presente in tribunale: «Questo processo mi ha
così umiliato e depresso in questi mesi che non sono più riuscito a
lavorare al nuovo libro; e ha gettato l’orgasmo e l’inquietudine in mio
padre e mia madre (…)». Non gli resta dunque che confidare
«nell’entusiasmo e nella generosità» del vecchio amico. A causa della
malattia della moglie, Ungaretti non potrà presenziare al processo, che
si risolverà con l’assoluzione, anche grazie alla lunga dichiarazione ai
giudici, in cui Ungaretti definisce Ragazzi di vita «uno dei migliori
libri di prosa narrativa apparsi in questi anni in Italia» e Pasolini
«lo scrittore più dotato che noi possediamo».
Una vita da «fratello
maggiore» e nume tutelare. Alla cui «solidarietà umana e buon cuore»
fece ricorso anche l’editore Vanni Scheiwiller nel 1955 quando con Diego
Valeri promosse l’Appello in favore di Ezra Pound recluso senza
processo nel manicomio criminale di Washington: e ovviamente Ungaretti
non si tirò indietro intervenendo anche su «Epoca».
È alla generosità
di Ungaretti che fa ricorso anche Mario Schifano quando finisce in
carcere per una vicenda di droga. E in quattro paginette dell’autunno
1966 vergate a caratteri maiuscoli quasi infantili chiede al poeta di
testimoniare a suo favore: «Io spero proprio che per il 10 non si trovi
lontano da Roma, lei potrà aiutarmi a uscire da questa storia (lei sa
tutto dal mio avvocato?). Comunque in prigione ho molto pensato e se
uscirò farò molte cose nuove». L’artista si crogiola nel suo conclamato
«maledettismo», annuncia la personale che presto si aprirà a Milano da
Marconi: «tutto il mio lavoro da gennaio a luglio (bello, tutto coperto
di plastica). Sarò molto triste il giorno 8… ma, in fondo, anche
felice». Illustra i suoi progetti futuri, confessa di essere
«innamoratissimo di una donna che si chiama Anna Carini, lei ancora non
la conosce». Si interessa: «Lei sta bene? Viaggia sempre, sempre», prima
di concedersi qualche confidenza più malinconica: «Il tempo è molto
brutto, è proprio autunno, qui dentro non si è avvertito il passaggio
dall’estate a ora (era sempre fresco!). Mariaccio Diacono [il suo
segretario]? Io (le dirò) sono molto imbarazzato di dovermi trovare il
prossimo giovedì in un tribunale, e così socialmente dover rispondere di
qualcosa così poco asociale (ecco io non capisco ancora bene, ma cosa
ho fatto contro chi, contro cosa…! Boh!). Però è chiaro che per questo
dovrei uscire… Uff! Che noia una prigione, quanto tempo per niente. Sa?
Sono 109 giorni che sono qui dentro, pensi io amo così tanto il sole il
mare la luce. Grazie (e non così per dire) di tutto. Sono molto
commosso». Era appena uscito, Ungaretti, dall’affaire Milena Milani,
l’ex «comandante delle donne futuriste» il cui romanzo La ragazza di
nome Giulio, uscito da Longanesi nel 1964, era stato accusato (e
condannato) per oltraggio «al comune senso del pudore»: anche a lei, in
sede di appello, il poeta aveva offerto «con tanto fervore e tanto
accanimento» i suoi buoni uffici, lettere, recensioni, testimonianze a
difesa. Gli arrivano ovvie parole di gratitudine: «Non so come
ringraziarla di quanto ha già fatto. E di quanto farà». E naturalmente
Ungaretti farà, come sempre.
Il 21 dicembre 1958, tre mesi dopo la
morte della moglie, Jeanne Dupoix, Ungaretti conosce a Cervia, dove ha
ricevuto la cittadinanza onoraria, una insegnante di francese romagnola
di trentun anni, Jone Graziani. Ne nasce un carteggio amoroso che dura
sei anni: 376 lettere quasi tutte inedite, 49 delle quali, «decisamente
oscene» secondo la destinataria, furono da lei distrutte. 74 sono in
francese. Il carteggio comprende cinque versioni di un componimento
poetico dell’ultimo Ungaretti, inizialmente dedicato a lei e noto come
Canto a due voci. Le lettere alla Graziani sono depositate a Parigi,
Bibliothèque Littéraire Jacques Doucet. Nell’archivio messo all’asta se
ne trovano due firmate da lei: sono lettere di attesa, in cui Jone
lamenta la lontananza dell’amato, settantaduenne ancora attivissimo. Il
24 marzo 1960 sente «il grigiore di queste giornate senza le tue parole
d’amore», confessa che «la tua voce mi dà una carica di forza che dura
almeno qualche giorno, poi ricado nella malinconia e nella depressione».
E il primo luglio scrive: «Mio carissimo amore, (…) sono molto sola e
infinitamente triste. Quando ti allontani dall’Italia sento ancora più
la mia solitudine (…). Vorrei tanto essere con te. Non mi hai voluta e
ne sento amarezza». E ancora: «Chissà quante cose preziose hai nei tuoi
cassetti. Io ho le tue lettere bellissime che rileggo spesso. E riguardo
anche le nostre foto. Vorrei ancora le belle giornate con te. Sono
tutta tua, mio tesoro. Ti bacia con amore la tua Jone». Tra qualche
anno, come si sa, in Brasile arriverà un altro amore, molto molto più
giovane, altre poesie, altre lettere.