domenica 10 giugno 2018

il manifesto 10.6.18
Delacroix imprigionato dall’analisi del colore
Al Louvre "Delacroix", a cura di Sébastien Allard e a Côme Fabre. Una mostra aperta, che lascia a ciascuno di cercare il suo Eugène Delacroix. Più che il mito romantico celebrato da Baudelaire, è stimolante l’«archetipo» della pittura a venire, nei pregi ma anche nei limiti
di Federico De Melis


PARIGI L’ardore di Eugène Delacroix si misura sugli ideali napoleonici di adolescenza, radicati per quanto dissimulati, e il suo credo nella soggettività che si fa Storia produsse, sappiamo, nell’Ottocento, le pagine pittoriche più vibranti dell’orgoglio dei popoli, fosse quello greco nelle Rovine di Missolungi o quello francese nella Libertà sulle barricate del 28 luglio 1830. Grandi macchine dello Spirito del tempo, sostenute dall’azione-colore e da un’architettura basculante che mette in questione, alla radice, gli ordini del verbo neoclassico. Così è anche per la Barca di Dante, per il Massacro di Scio, tutte opere di grande formato intorno a cui viene a inscenarsi, dopo un breve introìbo, l’avvio della mostra Delacroix al Musée du Louvre, che l’ha prodotta insieme al Metropolitan di New York (dove si sposterà dal 17 settembre) affidandone le cure a Sébastien Allard e Côme Fabre (fino al 23 luglio, catalogo Louvre éditions).
I monconi dell’amico Géricault
All’amico Géricault, di sette anni più anziano, incontrato la prima volta nello studio di Guérin, comune maestro, i contemporanei rimproverarono di non aver realizzato la grande opera, di averci lasciato appena monconi di un’idea, monconi che solo il Novecento, attraverso il gusto del frammento, e della pittura come aggiunta rapinosa di materia e bellezza, avrebbe fino in fondo apprezzato. Nel 1991 ho avuto la fortuna di assistere, nella storica mostra del Grand Palais, all’apoteosi di Géricault, dettata da un allestimento che curava di evidenziare in certi passaggi, attraverso l’illuminazione direzionale, il suo frammentismo tenebroso e sanguinolento. Delacroix, a cui Géricault, reduce dall’Italia, tributò i suoi complimenti dinanzi alla Barca di Dante, 1822, inaugurava al contrario, con questa tela, un cammino costellato di occasioni epiche, spesso ufficiali, compresi i cicli in affresco di commissione reale, governativa o municipale, dove è pieno il rispetto dei generi. Alberto Martini, nel 1964, ha spiegato come Delacroix rappresentasse una terribile turbativa per l’opinione accademica proprio in virtù della sua internità a un sistema delle arti che non ebbe mai intenzione di rovesciare. Lo minava dall’interno suo malgrado. Nel Salon del 1846 Baudelaire racconta come Sosthènes de la Rochefoucauld, direttore delle belle arti, avesse un giorno mandato a chiamare Délacroix per chiedere se «un uomo di così ricca immaginazione e di così bell’ingegno, e così ben voluto poi dal governo, non volesse versare un po’ d’acqua nel suo vino»… Le istituzioni lo blandivano, ma Délacroix era romantico, non poteva derogare da quel che aveva stabilito il suo sogno, e dovette aspettare il 1857, cinque anni dalla morte, per la nomina a membro dell’Institut nella classe delle belle arti.
Oggi non possiamo più amare come Baudelaire le grandi macchine di Délacroix, e dinanzi alla Libertà, 1830, succede all’occhio di distrarsi dal modo in cui, in un afflato, il disegno-colore si fa idea, manifesto storico, e di vagare alla ricerca del moncone di pittura, il calzino verde attorcigliato del cadavere del barricadero. Del resto, nella coscienza stessa di Delacroix, spirito complesso, poteva annidarsi un modo di sentire più nostro, se nel Diario gli viene da annotare che «non sempre la pittura ha bisogno d’un soggetto», riferendosi, proprio, alla «pittura di braccia e di gambe di Géricault». Non c’è dubbio, il soggetto, pur irrorato dall’‘immaginazione’, trattenne Delacroix in una sfera precedente, e gli sviluppi dell’arte moderna che a lui fanno capo riguardano solo una porzione del suo operare. Non si vuole dire che il suo frequente ricorso alle fonti letterarie – dal canone europeo, Dante o Shakesperare, alle opere romantiche, i novels neri inglesi o lord Byron – costituisse necessariamente un freno: ‘soggetto’ non corrisponde d’obbligo a ‘letteratura’ ma è, semplicemente, l’immagine precostituita, non libera dai condizionamenti storici e culturali. In Delacroix la letteratura, è vero, a volte blocca, ma altre si pone, al contrario, quale «punto di partenza», lievito, come giudicava Lamberto Vitali, curatore in Italia del Diario, Einaudi 1954, che solo in questo senso poteva interpretare l’entusiasmo di Baudelaire per l’«ingegno… completamente letterario» del pittore.
Nella mostra del Louvre, la grandeur istituzionale dell’avvio viene presto dimenticata in favore del libero sfoggio dei valori pittorici, che si gustano soprattutto nel medio e piccolo formato: dimentiche dell’angelo della Storia, esse rapprendono in modo più diretto le turbe dell’immaginazione, sia dal lato della frenesia, della belva, sia da quello della malinconia. Malinconia: Baudelaire vi ha fissato la dominante della pittura di Delacroix. Bisogna leggere o rileggere il capitolo del Salon 1859 dove stabilisce che egli, non credente, è, nell’Ottocento, il colosso della pittura religiosa, l’interprete più alto della tristezza del cristianesimo (cita Tiziano). Il Calvario, l’Uliveto, il sepolcro cedono il passo a un certo punto, in questa pagina non troppo celebre, al «lungo e malinconico fiume dei Tristia», menzionato a proposito di Ovidio presso gli Sciti, opera d’impegno presentata proprio al Salon del 1859. Cristianesimo e paganesimo si danno la mano sotto un sentimento che schiaccia, ma è il primo a dare il tono, a prolungare il suo strazio strutturale sull’altro, come succede in mostra, dove il passaggio dedicato ai dipinti sacri si proietta sul seguito immediato del percorso, su quel gioiello di nichilismo arancione che è Amleto e Orazio al cimitero, versione di Francoforte, 1835.
All’andamento cronologico si sovrappone ogni tanto, studiatamente, quello tematico; all’infilata di dipinti uno via l’altro, in orizzontale, subentra un diapason, che fa da cerniera: la sala dedicata alla folgorazione dell’Oriente con il viaggio in Marocco della prima metà del 1832, perno Le donne in Algeri, 1836; quella che vede affiancati la Medea di Lille, 1838, e, raro a vedersi, tradizionale nel relativo rispetto del tono locale, il solenne San Sebastiano soccorso dalle pie donne, 1836, dalla chiesa parrocchiale di Nantua, Ain. L’allestimento è aperto, non obbliga ma lascia a ognuno la sua chiave di accesso. Si può puntare sulla funzione archetipica dell’arte di Delacroix: ecco, nel settore nature morte, i modelli per Fantin-Latour, per Courbet, nel Naufragio di Don Giovanni, 1840, le disperazioni grafiche di Daumier.
Una svolta la lettura di Signac
Più discriminante resta il problema cromatico, che, come letteratura critica, trovò un punto di svolta nel saggio di Paul Signac D’Eugène Delacroix au néo-impressionisme (1899, «Revue Blanche»). Per Signac Delacroix è il grande precorritore della divisione, colui che per primo intende la possibilità di rendere lucenti i colori rinunciando alla fusione in tavolozza e alla stesura piatta per una giustapposizione di piccoli tocchi che si compongono nella retina, facendo acquistare alla tela «unità, atmosfera, luce». Giunge a questo risultato presto, nel 1824, quando a Parigi, già un anno prima del viaggio in Inghilterra, fa esperienza di alcuni dipinti di Constable. Avendo bene in chiaro la posizione di Signac, si può provare a verificarla quadro per quadro, e ci si renderà conto che in Delacroix non solo la scienza del colore è ancora trattenuta da pregiudizi di scuola (l’uso pur sempre eccessivo di tinte terrose), ma anche che, quando viene compiutamente a realizzarsi, può trattenere, persino più del ‘soggetto’, gli slanci sperimentali – lo vide Lionello Venturi nella pagine a lui dedicate in Pittori moderni, 1946.
Il Diario ne testimonia: Delacroix, insegnato come maestro dell’empito, era un analista del colore, quasi un chimico al pari di Chevreul, il teorico del «contrasto simultaneo», alle cui formule, poi decisive per Seurat e Signac, fu sommamente interessato. Venturi, critico dell’impressionismo, non amava il pointillisme, vi vedeva un eccesso di sistema, un ingabbiamento, e il suo Delacroix sente forse un po’ troppo di questa riserva teorica, ma dinanzi alla casistica dei quadri ci si convince che aveva per gran parte ragione. Egli cita una frase di Frédéric Villot, conservatore del Louvre amico intimo di Delacroix, dove si dice che questi, piuttosto che «porre il colore al posto giusto, brillante e puro», «cerca di formare un tessuto, i cui fili multicolore si incrociano e si interrompono a ogni istante»: flochetage, così, testimonia Villot, Delacroix definiva questa operazione, che risulta una specie di prima approssimazione del pointillisme. Non poteva piacere a Venturi, il quale nota come gli impressionisti, al contrario, «non si fossero dimenticati di porre la couleur juste à sa place». Non è il tessuto cromatico, continua Venturi, a dare unità all’opera in Delacroix, ma, requisito fin da subito a lui negato, la qualità del suo disegnare: impetuosa, gettata, vibrante, la sua grafia è un continuo deformare, e raggiunge il vero scopo solo quando il colore smette di trattenerla con le sue riserve sistematiche e si libera nell’amalgama.
Qui Venturi fa riferimento ad alcuni «piccoli quadri» della stagione finale, «colloqui con se stesso», come Cavalli che escono dal mare e Rissa di cavalli arabi in una scuderia, tutti e due del 1860, tre anni prima della morte. Si possono aggiungere meraviglie verdi come alcuni felini, alcune cacce, stupendamente smorzati e quasi sciolti nel tappeto erboso. A questo Delacroix «impressionista» era dedicata, nel 1998, la mostra sui suoi «anni ultimi» al Grand Palais. Articolata in sezioni tematiche, tutto si mescolava in un onirico unisono, effetto del maggiore accordo forma-colore, lo stesso che presiede alla magia, abbastanza incompresa, degli affreschi della Cappella dei Santi Angeli a Saint-Sulpice – portati a termine nel 1861 –, a cui, collateralmente alla mostra maggiore, dedica, fino al 23 luglio, un piccolo focus il Musée Delacroix, la casa-atelier in rue de Fürstenberg dove l’artista risiedette negli ultimi sei anni di vita.
Al Louvre la difformità dei richiami provenienti dalla poetica contrastata di un pittore che deve spingere la sua timidezza oltre l’ostacolo, che sforzò volontaristicamente, rende difficile la concentrazione e l’adesione sentimentale. Sembra di essere in balia. Solo nella grande stanza in chiusura, con le opere della stagione finale, la modernità sognata si compatta effettivamente in una nuova realtà pittorica: Il mare dalle alture di Dieppe, 1852, sembra già Monet; i ‘ritorni’ in Maghreb, realizzati a partire dagli antichi taccuini di viaggio, sono una specie di eco atmosferica degli urti cromatici di un tempo. Subentra un senso irrimediabile di tramonto, nel campo arabo ci si riposa intorno al fuoco prima del calare della notte: è la tela firmata Eug. Delacroix 1863, anno di morte. Possiamo abbandonarci, come il Cristo dormiente sul lago di Genesaret, capolavoro di misura, tono, senso religioso di nuovo segnato dallo spasmo malinconico (1854, Zurigo, collezione Bührle).