domenica 10 giugno 2018

il manifesto 10.6.18
Savinio, naufragio e apparizioni a Soho
"Alberto Savinio" al Cima di New York, mostra a cura di Laura Mattioli . Al contrario del fratello, De Chirico, Alberto Savinio ha avuto scarsa fortuna oltreoceano. A rimediare, 25 opere selezionatissime, fra ritratti e paesaggi. Disseminate giocosamente fra le tele (1927-primi anni ’30) le tracce di numerosi maestri
di Eloisa Morra


NEW YORK «Lo stesso nume – la Memoria – li agitava», scrisse Sciascia a proposito dei Dioscuri in un saggio che riconosceva i giusti meriti al poliedrico fratello minore, spesso sfavorito nel confronto col più famoso, ombroso De Chirico. Ma mentre in Italia la figura di Alberto Savinio (1891-1952) ha acquisito spessore e forma nella mente di tanti lettori e appassionati di pittura, purtroppo così non è stato negli Stati Uniti, dove il suo lavoro era patrimonio di una cerchia di fortunati happy few. Poco tradotto, assente dalle collezioni, l’unica retrospettiva americana (Alberto Savinio: musician, writer and painter) gli era stata dedicata da Paolo Baldacci nel 1995. A colmare questa lacuna culturale contribuisce in modo decisivo Alberto Savinio (a cura di Laura Mattioli, fino al 23 giugno), presentata al Centre for Italian Modern Art di New York.
Come le isole-giocattolo in mostra, il CIMA veleggia libero da mode e condizionamenti dell’art world: a orientarne la selezione degli artisti è unicamente la qualità delle opere e l’arditezza delle sfide poste al team di esperti storici dell’arte-curatori. Negli ultimi anni si sono avvicendati sulla scena Medardo Rosso, Morandi e Paolini, mentre per il 2019 Savinio cederà il passo alle policromie di Marino Marini; alle mostre è affiancato un programma di approfondimento e ricerca – giornate di studio, proiezioni, visite guidate – organizzato dai fellows, giovani studiosi selezionati per sviluppare il tema di ricerca dell’anno. Non sorprende che in un lustro quest’île des charmes incastonata nelle vie di Soho sia divenuta un punto di riferimento per chiunque, oltreoceano, desideri avvicinarsi all’arte moderna italiana.
Se gli eventi della stagione hanno contribuito a far luce sulle molteplici sfaccettature della personalità artistica di Savinio, la mostra si concentra sull’attività in cui il suo talento è emerso già formato alla nascita, la pittura. «Mio fratello iniziò a dipingere nel ’27. Faceva dei ritratti molto somiglianti», rivelò De Chirico a Sciascia. Inanellati tra il secondo soggiorno parigino del ’28 e i primi anni trenta, i dipinti in mostra non fanno che sconfessare questa riduttiva affermazione; Mattioli ha trascelto i migliori, dislocandoli nelle due ariose gallerie che segnano le principali linee tematiche: la più piccola e intima include una serie dedicata ai ritratti familiari, la più ampia invece ospita paesaggi.
L’osservatore non esiterà a riconoscere le tracce di numerosi maestri giocosamente disseminate tra le tele: la muscolosa Cumana affiora dalle membra dell’altrimenti caravaggesco Risveglio del Carpoforo, le cromie e la composizione di alcuni paesaggi strizzano l’occhio a un certo romanticismo tedesco, i virtuosismi delle scene familiari lasciano presagire il brillio sinistro degli Ernst ammirati in casa Rosenberg… Eppure, i venticinque dipinti sembrano testimonianze di un naufragio che porti alla luce un mondo nato da se stesso. Savinio riesce nell’impresa propria di pochi grandi maestri: dar vita a un mondo fatto di pochi elementi riconoscibili per far spazio all’apparizione – che, si sa, ha luogo solo quando l’artista, svicolato l’obbligo della rappresentazione, può abbandonarsi al puro ritmo e gesto formale.
La bellezza dei dipinti di Savinio nasce sovente dal contrappunto ironico, come nello splendido Senza titolo (1929) della Collezione Prada, dove il modulo romantico delle oscure, turbinose pennellate della selva viene messo tra parentesi da una jazzistica teoria di forme-colori squillanti (Haring ne sarebbe rimasto stregato). Ne nasce un dipinto dal suono intenso, rotondo, avventuroso nella sua ritmicità da rag-time. Della stessa divertita ironia brillano dipinti ben più noti: il mito si fa aneddoto, la memoria è il Mito. L’isola di Achille (1928) svela un antieroe dai fianchi femminei e una testina da donna perso in una reverie costellata di gonfiabili, il Prometeo del dipinto omonimo contempla stregato un gigantesco Zeus-Giocattolo svelatogli da un tendaggio, mentre i flutti del Chevauchée marine si solidificano in pennacchi di un elmo abbandonato da qualche antico cavaliere. Più proteiformi e ardite dei suoi soggetti in Savinio sono solo le pennellate: rarefatte nel cielo dell’Abbandonnée, dissacrante omaggio al fratello; spumanti nei merletti della madre Gemma, nell’Atlas che illumina la copertina della Nuova Enciclopedia; ricamate nelle grottesche serpentinate di La vedova, unico caso in cui Gemma non porta in grembo il suo totem, un bouquet ripreso da una sua vecchia fotografia.
La composizione di questo dipinto ci porta a lambire l’altra componente decisiva nella pittura di Savinio, l’amore per il teatro. Abbandonata la bidimensionalità della mappa e gli pseudo-collages di fine anni venti, l’attenzione è tutta per la scena; è solo attraverso la presenza di una parete-schermo (o di una finestra) che sarà possibile affrontare i demoni che faranno capolino nell’Alcesti di Samuele e nei drammi degli ultimi anni. «Tutto è teatro, anche quando non sembra», sembra sussurrarci la luce innaturale irradiata dall’angolo destro – non, come prevedibile, dal cielo che emerge da dietro le ali dei pennuti ospiti – di Jour de Réception (1930). Chiude l’esposizione la litografia del 1947 I miei genitori, unico sconfinamento rispetto alla cronologia (la ammiriamo in dialogo con una serie altrettanto notevole di Louis Bourgeois; tra i punti cardine del CIMA vi è infatti la volontà di creare accostamenti inediti tra arte italiana e internazionale). Arabescata in una scritta che costeggia la figura del poltro-genitore, ecco la poetica d’un autore che ha saputo guardare all’antico scavalcando il moderno: «Egli era davanti a me come una montagna. Di là da me, valle, io guardavo di là da lui, perché un mio segreto da ma imperioso sentimento mi diceva che solo di là da lui c’era tutto che per me era importante, così il figlio guarda di là dal padre».