lunedì 11 giugno 2018

internazionale 8.6.18
Attualità
La democrazia è poco importante per i moderati
Di David Adler, The New York Times, Stati Uniti

Allarme rosso: la democrazia è in pericolo. In Europa e negli Stati Uniti i politici sono sempre più autoritari, i partiti sempre più instabili e i cittadini sempre più ostili alle norme e alle istituzioni della democrazia liberale. Queste tendenze hanno scatenato un grande dibattito sulle cause economiche, culturali o generazionali del malcontento politico. Ma tutte queste spiegazioni condividono un assunto di base: la minaccia viene dagli estremi dello spettro politico, a destra e a sinistra. L’idea di fondo è una: le idee radicali vanno a braccetto con l’autoritarismo, mentre quelle più moderate presuppongono un appoggio più convinto alla democrazia liberale. È davvero così? Forse no. La mia ricerca suggerisce che i cittadini meno attaccati alla democrazia e alle sue istituzioni, e più propensi a sostenere l’autoritarismo, sono quelli che si definiscono centristi. Ho esaminato i dati degli ultimi World values survey (dal 2010 al 2014) e dell’European values survey (2008), due dei più completi studi sull’opinione pubblica. Ai partecipanti viene chiesto di posizionarsi su uno spettro politico che va dall’estrema sinistra all’estrema destra. A partire da questi dati ho elaborato le percentuali del sostegno di ogni gruppo alle istituzioni democratiche. Mentre le democrazie occidentali diventano sempre meno efficienti, nessun gruppo è immune al fascino dell’autoritarismo: tantomeno i centristi, che sembrano preferire un governo forte al caos della democrazia. Nei paesi in via di sviluppo – dal Brasile all’Argentina, da Singapore all’Indonesia – i leader carismatici storicamente hanno raccolto grandi consensi, e i moderati della classe media hanno sempre incoraggiato derive autoritarie per garantire la stabilità e permettere la crescita economica. È possibile che in futuro la stessa cosa succeda in democrazie mature come il Regno Unito, la Francia e gli Stati Uniti?

David Adler è un ricercatore britannico di economia e scienze politiche.

internazionale 8.6.18
Argentina
Il grido delle donne

“Nonostante la pioggia e il freddo, il 3 giugno decine di migliaia di donne sono scese in piazza a Buenos Aires per chiedere l’aborto legale, sicuro e gratuito”, scrive Página 12. Dal 2015, quando il movimento Ni una menos scese in piazza la prima volta per protestare contro i femminicidi e chiedere al governo l’attuazione di misure per evitarli, il dibattito femminista ha fatto grandi passi avanti in Argentina. “Il 13 giugno”, scrive La Nación, “il parlamento voterà sulla depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza”. Oggi nel paese l’aborto è ammesso solo in caso di stupro e di pericolo di vita per la donna.

internazionale 8.6.18
L’era di Mariano Rajoy si è chiusa
Il governo conservatore, da tempo screditato, avrebbe potuto essere sfiduciato molto prima se la sinistra avesse avuto più coraggio, sostiene l’editoriale del sito spagnolo
Ctxt, Spagna

Gli oltre sei anni di governo del Partito popolare hanno provocato una grave regressione della democrazia in Spagna. La libertà di espressione è stata ridotta in modo inaudito grazie alla “legge bavaglio” del 2015. I mezzi di comunicazione pubblici, che nell’era di José Luis Rodríguez Zapatero avevano raggiunto un encomiabile livello d’indipendenza, sono tornati a essere strumenti di propaganda governativa e motivo di vergogna per il paese. Il governo ha contribuito alla crisi catalana e ha imposto una svolta autoritaria nei rapporti con le comunità autonome e le amministrazioni locali. Oltre a tutto questo, è emersa una corruzione insopportabile. Il fatto che Mariano Rajoy abbia continuato a guidare il governo dopo la pubblicazione dei documenti di Luis Bárcenas nel gennaio del 2013 è chiaramente un’anomalia democratica. Il nome di Rajoy compariva una trentina di volte nei documenti del tesoriere del partito a proposito di incassi derivanti dalla contabilità parallela. Questo avrebbe dovuto essere più che sufficiente per provocare le dimissioni immediate di Rajoy. Ma nel 2013 il Partito popolare aveva la maggioranza assoluta e il premier ha potuto mentire al parlamento per superare la tempesta. L’occasione per cacciare la destra dal governo si è presentata dopo le elezioni del dicembre 2015, quando il Pp ha perso la maggioranza assoluta e più di 3,5 milioni di voti. Ma è stata vanificata dai calcoli di Podemos, più interessato a superare il Partito socialista (Psoe) che a liberare la Spagna dai corrotti, e dalla miopia e dal conservatorismo della leadership socialista, che è scesa a patti con Ciudadanos e si è autoimposta una serie di restrizioni rendendo impossibile la nascita di un governo progressista. I due partiti hanno ignorato la voglia di cambiamento della società spagnola dopo una legislatura segnata da un arretramento sociale generalizzato (riforma delle pensioni, liberalizzazione del mercato del lavoro, tagli alle politiche sociali, alla spesa pubblica e alla ricerca). Pur con grande ritardo, i partiti di sinistra hanno imparato la lezione e hanno finalmente seguito la volontà dell’elettorato. Lo sterile scontro tra Podemos e il Psoe paralizzava la politica spagnola e alimentava la demoralizzazione degli elettori progressisti. C’è voluta la condanna di Bárcenas a 33 anni di carcere perché i leader dei due partiti capissero che la Spagna non poteva più sopportare il logoramento della sua democrazia. Impedire che la corruzione e la manipolazione dell’informazione continuassero a erodere la fiducia nelle istituzioni avrebbe dovuto essere la priorità dei partiti d’opposizione. Per questo dobbiamo rallegrarci che il parlamento abbia allontanato Rajoy e il Partito popolare dal governo. Unità nazionale La mozione di sfiducia è stata approvata grazie al sostegno dei partiti nazionalisti, perché la somma dei voti di Podemos e del Psoe era molto lontana dalla maggioranza assoluta. Il nuovo presidente del governo, il socialista Pedro Sánchez, è stato nominato con 180 voti provenienti da Psoe, Unidos podemos, Sinistra repubblicana della Catalogna, Partito democratico europeo catalano, Partito nazionalista basco, Compromís, Bildu e Nueva Canarias. Più voti di quelli ottenuti da Rajoy nel 2016. Per gli analisti più conservatori della stampa madrilena il voto dei partiti nazionalisti compromette questa operazione di cambiamento politico, sostenuta da 12 milioni di voti. A nostro giudizio è l’esatto contrario: per la prima volta da molti anni, un accordo tra tutti i partiti del parlamento (con l’eccezione del Pp e di Ciudadanos) permette a Sánchez di cominciare a rimediare al disastro prodotto dalla politica intransigente del Pp in Catalogna. È importante ristabilire i rapporti tra lo stato spagnolo e le istituzioni catalane per trovare una via d’uscita alla crisi costituzionale di cui il governo uscente di Rajoy è in gran parte responsabile. Per l’unità e la stabilità della Spagna Rajoy e i suoi erano una bomba a orologeria. Le sfide che attendono Sánchez sono enormi. Il tempo dirà se il Psoe porterà avanti una politica coraggiosa o tornerà a ingannare la Spagna progressista. Nel frattempo si può festeggiare perché il governo non è più in mano a un partito divorato dalla corruzione.


internazionale 8.6.18
Giappone
Una riforma discutibile

Il 31 maggio la camera bassa del parlamento ha approvato la riforma del lavoro che, secondo il governo di Shinzō Abe, rivoluzionerà il modo di lavorare e allevierà il problema del karōshi, la morte per troppo lavoro, scrive il Japan Times. La proposta di legge, che dovrà passare alla camera alta, raccomanda l’adeguamento dei compensi dei lavoratori precari a quelli di chi è assunto a tempo indeterminato. Inoltre pone un limite di cento ore mensili agli straordinari (comunque venti in più rispetto al limite di 80 consigliato dal ministero della salute), da cui però saranno esentati i professionisti di alto livello. L’idea è di rendere flessibile il lavoro di questi, che sarà pagato in base ai risultati e non alle ore lavorate. In questo modo, però, dicono i detrattori della riforma, gli straordinari non saranno pagati e il lavoro in eccesso, con le sue conseguenze per la salute, sarà incentivato.

internazionale 8.6.18
India
Il silenzio di Bollywood
Outlook, India

“Da Hollywood abbiamo preso tutto, perché non il #MeToo?”, si chiede Outlook, che dedica la copertina al “silenzio assordante che esce dall’armadio in cui Bollywood tiene nascosti i suoi scheletri”. Mentre Hollywood ha cominciato a guardarsi allo specchio in maniera critica, “in India la cultura del silenzio protegge ancora i nostri Weinstein”, continua il settimanale. “L’industria cinematografica indiana è sempre stata piena di mercanti di sogni senza scrupoli per cui il sesso in cambio di lavoro è legittimo, perché nessuna donna li ha denunciati? La nuova generazione di attrici sta cominciando a rompere l’omertà ma manca uno spirito collettivo. ‘A meno che non cambi la mentalità della società, non possiamo aspettarci che Bollywood cambi all’improvviso’, dice la regista Rakhee Sandilya. ‘Sul piano dell’emancipazione e della consapevolezza di sé le donne indiane sono molto indietro. fino al caso di stupro del 2012 non discutevamo nemmeno della nostra sicurezza. Ma le cose cominciano a cambiare’”


internazionale 8.6.18
Le opinioni
Con Pedro Sánchez la Spagna torna a sperare
Di Manuel Castells

I l trionfo della mozione di sfiducia al governo promossa dal segretario del Partito socialista Pedro Sánchez è una grande opportunità per rinnovare la democrazia spagnola. La corruzione delle istituzioni portata avanti dal Partito popolare (Pp), confermata dalla sentenza dell’Audiencia nacional, e comportamenti simili da parte del partito indipendentista Convergència i Unió in Catalogna e del Psoe in Andalusia hanno minato laf iducia dei cittadini, spezzando il legame tra istituzioni e società nel momento in cui la crisi economica ha peggiorato le condizioni di vita e ha chiuso l’orizzonte per molti giovani. La crisi della democrazia liberale, in atto quasi ovunque (pensiamo all’Italia), è la madre di tutte le crisi, perché se lo stato diventa un patrimonio personale della classe politica è impossibile trovare un accordo sulle decisioni necessarie per affrontare i problemi. Senza consenso, ognuno finisce per pensare a sé, con i potenti che si danno al saccheggio e i cittadini che oscillano tra la rivolta e il cinismo. La frammentazione del parlamento spagnolo è un fattore positivo, che obbligherà i partiti a negoziare al di fuori dei canali consolidati di maggioranze politiche su cui i cittadini non hanno controllo. La Spagna è una realtà plurinazionale caratterizzata dal pluralismo politico: bisogna partire da qui per stabilire dei legami tra interessi e identità che consentano la convivenza. Solo a quel punto sarà possibile affrontare i problemi che stanno disintegrando la società spagnola. Il passaggio da un governo guidato dalla coalizione di destra, formata da Partito popolare (Pp) e Ciudadanos (espressione del nazionalismo spagnolo più estremo e intollerante), a un governo socialista obbligato a cercare il consenso per governare può dare alla Spagna una cultura democratica che per ora è solo apparenza. E può ricostruire uno stato sociale che è la base di una vita dignitosa, bloccando le minacce contro le pensioni o riconoscendo i diritti delle donne. Nel suo discorso a sostegno della mozione di sfiducia Pedro Sánchez ha parlato di tutte queste cose. Finalmente ha potuto realizzare il suo slogan “no è no”, con il quale si era rifiutato di aderire al governo di grande coalizione proposto da Rajoy. La sua offerta a Rajoy di fermare la mozione di sfiducia nel caso in cui si fosse dimesso ha neutralizzato le critiche di Ciudadanos e del Partito popolare, che lo accusavano di agire per tornaconto personale. Dati alla mano, si può dire che Sánchez ha introdotto nella politica spagnola una dimensione etica che era stata messa al bando dalla maggioranza dei partiti, a eccezione di Podemos ed Esquerra, che non hanno avuto casi di corruzione. Bisogna sottolineare il coraggio di Sánchez. Ha affrontato il fatto che il suo partito aveva tradito la promessa elettorale di non sostenere Rajoy. È stato cacciato dal complotto che i poteri spagnoli ed europei hanno organizzato dentro al Psoe. Ha rinunciato al suo seggio di deputato per non disubbidire alla gerarchia del partito, anche se era illegittima. Si è confrontato con la base e ha vinto nettamente le primarie che l’hanno riportato alla segreteria. Si è opposto alla corruzione e alle politiche antisociali del Pp, anche se si era schierato con la repressione anticatalana e a favore dell’applicazione dell’articolo 155, una posizione inevitabile per chi aspira al governo della Spagna, perché nessun partito nazionale può accettare la secessione. Ma ha sempre parlato di una soluzione politica e non giudiziaria della questione catalana. E ha chiesto un dialogo senza condizioni politiche. Con il sorprendente arrivo di Sánchez alla presidenza del governo spagnolo, si apre una nuova prospettiva per la normalizzazione istituzionale in Catalogna, agevolata dalla sospensione dell’articolo 155 della costituzione e dall’insediamento del nuovo governo catalano, con il quale Sánchez si è impegnato a dialogare. Si aprono anche nuove prospettive di politica sociale: è svanito il pericolo non solo di un Partito popolare corrotto, ma anche di un Ciudadanos neoliberista disposto a liquidare le conquiste ottenute dalla socialdemocrazia spagnola. Per cambiare rotta pochi mesi prima delle scadenze elettorali, però, Sánchez avrà bisogno del sostegno di Podemos, che ha detto di voler collaborare a condizione di avere voce in capitolo sui provvedimenti. Questa alleanza prefigura un progetto di sinistra in cui socialdemocratici veri e rivoluzionari tranquilli impareranno a camminare insieme. Perché solo insieme potranno cambiare il paese. Attenzione però alla furia della controriforma, temuta da alcuni mezzi d’informazione. Non bisogna aver paura degli imprenditori, che sono molto meno rozzi di quanto si pensa. Di recente parlavo con uno dei principali imprenditori spagnoli, favorevole allo sforzo di cambiamento di Sánchez. Il capitalismo non è corruzione, mi diceva, ma creazione di ricchezza. Ci stiamo lasciando alle spalle un regime corrotto e uno stato autoritario. Forse questo paese riuscirà a uscire dal suo dramma quotidiano, con dei politici che ci rappresentano invece di sfruttarci per il loro tornaconto personale.

Manuel Castells è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e potere (Università Bocconi editore 2017).

“Il desiderio di un marxismo umanista che state reprimendo, l’impulso verso la liberazione individuale, in realtà sono già in Marx e aspettano solo di essere scoperti. Perciò dipingete quello che volete, amate chi volete. Al diavolo il partito. Il vero soggetto rivoluzionario è l’io!”.
internazionale 8.6.18
In copertina
Il messaggio dimenticato di Karl M Marx
A duecento anni dalla nascita, il filosofo tedesco è ancora studiato in tutto il mondo. Ma più che per l’analisi dei processi storici, nell’era dell’automazione il suo pensiero è attuale soprattutto per la sorprendente fiducia nell’individuo
Di Paul Mason, New Statesman, Regno Unito

La foto, un po’ sfocata, sembra cogliere Lev Trotskij a metà di una frase. Siamo a casa di Frida Kahlo nel 1937. A sinistra c’è Natalia Sedova, la moglie di Trotskij. A destra ci sono Kahlo e, seminascosta dietro di lei, una giovane donna che ascolta attentamente: è Raja Dunaevskaja, la segretaria di Trotskij. Non sappiamo quale sia l’argomento della conversazione, ma non abbiamo dubbi sulle sue premesse: tutte le persone presenti nella fotografia sono marxiste. Le loro idee sulla politica, l’economia, l’etica e l’arte sono state influenzate dagli scritti di un uomo nato in Germania duecento anni fa. Trotskij sarà assassinato nel 1940, e da quel momento Sedova riverserà tutta la sua rabbia contro il potere sovietico. Kahlo diventerà una delle artiste più straordinarie del novecento. Ma è Dunaevskaja a costituire il collegamento tra il marxismo classico e l’unica forma in cui la teoria elaborata dal filosofo tedesco può avere senso oggi. “Il marxismo”, sosteneva Dunaevskaja, è una forma di “umanesimo radicale”. Il 5 maggio si è celebrato il duecentesimo anniversario della nascita di Marx, ma il dibattito sulle sue idee non accenna a finire. La scorsa estate l’estrema destra statunitense ha manifestato a Charlottesville, in Virginia, accusando la città di essere schiava del “marxismo culturale”. Il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, avverte che il marxismo potrebbe tornare d’attualità a causa della disoccupazione legata all’automazione e delle disuguaglianze. In Cina, intanto, è stata risuscitata una forma di marxismo che è diventata la nuova dottrina di stato. Per capire quello che può e non può sopravvivere del marxismo, dobbiamo chiederci che senso hanno i suoi insegnamenti nelle condizioni profondamente diverse di oggi. Oltre l’ortodossia Nel luglio del 1850 Karl Marx era già un teorico della sconfitta. Nel Manifesto del partito comunista (1848) aveva scritto che la missione della classe operaia era abolire la proprietà privata e introdurre il comunismo. Ma aveva capito subito che ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Dopo aver cercato per due anni di spingere le rivoluzioni democratiche in corso in Francia e Germania nella direzione della giustizia sociale, aveva ammesso il suo fallimento e si era rifugiato a Londra. Tuttavia, nella stanza sopra a un pub di Soho, davanti a una pinta di birra, Marx continuava a rassicurare il suo compagno d’esilio, Wilhelm Liebknecht, sul fatto che la speranza non era ancora morta. Aveva appena visto il prototipo di un treno a trazione elettrica in mostra a Regent street: l’era del vapore sarebbe finita presto e sarebbe cominciata quella dell’energia elettrica. Liebknecht scrisse: “Marx, tutto entusiasta e rosso in viso, mi disse: ‘Adesso il problema è risolto, e le conseguenze sono imprevedibili. Alla rivoluzione economica deve necessariamente seguire quella politica, perché la seconda è solo l’espressione della prima”. Tra i fumi del tabacco, Marx aveva delineato una versione semplificata della concezione materialistica della storia. A quella ne sarebbe seguita una più complicata. Nella prefazione al saggio Per la critica dell’economia politica (1859) Marx spiega che il cambiamento sociale nasce dal conflitto tra due realtà create dagli esseri umani: le forze produttive – cioè la tecnologia e le competenze necessarie per usarla – e i rapporti di produzione, il modello economico necessario per dar vita alla tecnologia. Insieme, sostiene Marx, la tecnologia e il modello economico costituiscono la “struttura” su cui in ogni sistema si fondano le “sovrastrutture”, cioè le leggi, le istituzioni politiche, le culture e le ideologie. Le rivoluzioni scoppiano quando il sistema economico ritarda il progresso tecnologico. Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848, Marx dedicò la sua vita a due progetti complementari: la creazione di partiti della classe operaia che difendessero gli interessi dei lavoratori e li preparassero a conquistare il potere, e l’analisi delle dinamiche del capitalismo industriale. Solo una volta, in un quaderno rimasto inedito per più di cent’anni, Marx azzardò un’ipotesi sulla forma che la rivoluzione tecno-economica avrebbe potuto assumere. Nel Frammento sulle macchine, scritto nel 1858, Marx immagina un’epoca in cui le macchine fanno la maggior parte del lavoro e in cui la conoscenza, diventata “sociale”, si incarna in quello che il filosofo chiama “intelletto generale”. Dato che il capitalismo si basa sui profitti generati dai lavoratori, non può sopravvivere a un livello di progresso tecnologico che elimini la necessità del lavoro. Il conflitto tra proprietà privata e conoscenza sociale condivisa, dice Marx, farà “saltare in aria” le fondamenta del capitalismo. Questa profezia, così palesemente anticipatrice della nostra epoca di robot e conoscenza condivisa, è rimasta negli archivi fino agli anni sessanta. Nei cinquant’anni successivi alla morte di Marx, nel 1883, le sue idee subirono tre reinterpretazioni. All’inizio il suo collaboratore Friedrich Engels cercò di sistematizzare il pensiero di Marx in una teoria onnicomprensiva, che non si fermava alla storia ma teneva insieme perfino la fisica, l’astronomia e l’etnografia. Questo era il marxismo che studiarono i leader dei primi partiti socialisti, i quali ne fecero una seconda revisione, sostenendo che le teorie di Marx conducevano a un socialismo parlamentare pacifico, non alla rivoluzione. Infine, a partire dal 1899, emerse un marxismo basato sulla lotta di classe, che metteva la forza di volontà dell’essere umano e il suo slancio organizzativo al di sopra dell’ineluttabilità dello sviluppo storico. Questo era il marxismo che Trotskij e Sedova avevano imparato nei movimenti clandestini in Russia, e che nel 1902 li aveva costretti all’esilio a Parigi. Secondo questa teoria, la Russia sarebbe potuta diventare democratica solo sotto la guida della classe operaia. Per questo bisognava organizzare i lavoratori in partiti agguerriti e gerarchizzati proprio come gli stati governati dagli zar e dai kaiser che i lavoratori stessi volevano abbattere. Le loro armi dovevano essere gli scioperi e le barricate, non le elezioni e l’attivismo culturale. Ma il marxismo dei primi del novecento conteneva anche una teoria della classe operaia opposta a quella di Marx. Per il filosofo tedesco le rivoluzioni del 1848 erano fallite perché il capitalismo non era ancora maturo per essere abbattuto. Per Lenin, nel 1902, erano i lavoratori a non essere pronti. E non lo sarebbero mai stati senza la guida di un’élite, senza l’avanguardia di un partito clandestino che li spingesse all’azione. Lenin sosteneva che l’intera classe operaia specializzata del mondo sviluppato ormai era stata comprata dai guadagni dell’imperialismo: fare la rivoluzione era compito dei lavoratori non specializzati in occidente e dei popoli dei paesi meno sviluppati. Più o meno a partire dal 1910 le rivolte nazionaliste e le guerre per la terra scoppiate in Messico, Cina, Irlanda e infine in Russia sembrarono confermare questa teoria. Trotskij e Sedova avevano assistito alla nascita di questo nuovo marxismo rivoluzionario. La generazione di Kahlo e Dunaevskaja conosceva invece solo questa versione. Dunaevskaja era nata nel 1910 da genitori ebrei nell’odierna Ucraina ed era emigrata a Chicago con loro nel 1922. Era entrata nel Partito comunista a 14 anni, durante uno sciopero scolastico. Avrebbe lasciato il partito quattro anni dopo, quando fu gettata giù dalle scale per aver criticato l’espulsione di Trotskij dal Comintern e dal Partito comunista sovietico. Trotskij era stato uno dei leader della rivoluzione del 1917. Poi aveva partecipato all’abolizione del controllo delle fabbriche da parte dei lavoratori e alla repressione delle opposizioni di sinistra. Ma a partire dal 1923, davanti alla nascita di una nuova élite di burocrati, aveva lanciato un suo movimento di opposizione. Negli anni trenta era ormai arrivato alla conclusione che lo stalinismo e il fascismo erano “gemelli”, separati esclusivamente dalle teorie economiche su cui si basavano. Nel movimento trotskista Dunaevskaja aveva il compito di curare, da un ufficio di New York, un giornale in lingua russa distribuito nell’Unione Sovietica. Era arrivata in Messico nel luglio del 1937 per lavorare come stenografa e traduttrice di Trotskij, mentre le grandi purghe cominciavano a decimare le loro reti clandestine. Kahlo era entrata a far parte del movimento dei giovani comunisti messicani nel 1928, a 21 anni. “Sono comunista per natura”, avrebbe scritto in seguito. Per la generazione dei giovani intellettuali messicani attratti dal comunismo, quest’identità politica implicava non solo la sperimentazione sessuale e artistica, ma anche un profondo impegno nei confronti delle culture indigene e un grande entusiasmo per le rivolte dei contadini guidate da Emiliano Zapata. Le persone ritratte nella fotografia condividevano una serie di idee di fondo che potremmo riassumere così: le rivoluzioni di solito scoppiano nei paesi arretrati; richiedono una guerriglia mobile, l’occupazione di terre e una lotta spietata contro i ricchi; un partito marxista deve guardarsi dal conservatorismo della classe operaia occidentale e difendere piuttosto i popoli indigeni e quelli oppressi; la classe operaia è il “soggetto rivoluzionario” intrinsecamente nemico del capitalismo, anche se momentaneamente fuorviato. Erano tutte persone pronte al sacrificio e disposte a usare la manipolazione e la violenza per raggiungere il loro obiettivo. Ma ognuna si sforzava, a modo suo, di preservare un marxismo dal volto umano, di resistere alle menzogne, agli omicidi di massa e alla repressione della libertà innescata dallo stalinismo. La tragedia è che nessuno di loro aveva compreso quanto profondamente umanista fosse il marxismo quando era stato concepito. Solo Dunaevskaja un giorno lo avrebbe capito. Marx non amava la filosofia: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo, quello che conta è cambiarlo”, scrisse. I Manoscritti economico-filosofici – scritti nel 1844 a Parigi, ma pubblicati a Mosca solo nel 1932 – dimostrano come arrivò a quella conclusione: attraverso una critica alla filosofia dell’illuminismo, profondamente imbevuta di umanesimo, e che discende direttamente da un concetto di natura umana riconducibile ad Aristotele attraverso sant’Agostino e Hegel. Lo scopo degli esseri umani, dice Marx nel 1844, è liberarsi. Sono schiavi non solo del capitalismo e di uno specifico tipo di società basata sulle classi, ma di un problema che nasce dalla loro stessa natura sociale, che li obbliga a lavorare in gruppo e a collaborare tra loro usando il linguaggio e non solo l’istinto. Quando noi esseri umani produciamo un oggetto, o scopriamo una nuova idea,
tendiamo a proiettare il nostro concetto di “io” in quest’oggetto o idea: è il processo che Marx chiama alienazione, o estraniazione. Poi consentiamo ai nostri prodotti, mentali e materiali, di esercitare un potere su di noi, sotto forma di religioni o superstizioni, idolatrando i beni di consumo o rispettando insensatamente routine e forme di disciplina che ci siamo imposti da soli. Per superare l’alienazione, Marx sostiene che l’umanità deve liberarsi di tutte le gerarchie e le divisioni di classe, il che significa abolire sia la proprietà privata sia lo stato. I manoscritti del 1844 contengono un’idea che nel marxismo è andata perduta: il concetto di comunismo come “umanesimo radicale”. Il comunismo, diceva Marx, non è semplicemente l’abolizione della proprietà privata, ma la “riappropriazione dell’essenza umana da parte dell’uomo e per l’uomo… Il totale ritorno dell’uomo a se stesso come essere sociale (cioè umano)”. Quindi, sostiene Marx, il comunismo non è l’obiettivo finale della storia umana. È solo la forma che la società assumerà dopo quarantamila anni di organizzazione gerarchica. Il vero obiettivo della storia umana è la libertà, la realizzazione personale di ogni singolo individuo. Nel 1932, quando pubblicarono questi quaderni, gli accademici sovietici li trattarono come un errore imbarazzante dell’autore. Accettare quelle idee avrebbe significato ammettere che alla base dell’intera concezione materialistica della storia – fatta di classi, rapporti di produzione, tecnologia contrapposta all’economia – c’era un profondo umanesimo con una serie di implicazioni morali. Dunaevskaja, che riuscì a mettere le mani su una versione russa dei Manoscritti negli anni quaranta, passò quasi dieci anni a cercare di venderne la sua traduzione inglese, fino a quando non decise di pubblicarla da sola a metà degli anni cinquanta. Aveva capito che i Manoscritti mettevano in discussione tutte le precedenti interpretazioni di Marx. Per i burocrati sovietici, il contrasto tra l’idea marxiana di libertà e la loro squallida e opprimente realtà era evidente. Per il marxismo occidentale, che ormai era ossessionato dallo studio delle strutture permanenti, ecco che Marx non parlava più di forze impersonali ma di un concetto chiaro e quasi aristotelico di natura umana, di autonomia e benessere. Era forse possibile, si chiedeva Dunaevskaja, che tutte le disgrazie capitate alla sinistra marxista fossero dovute alle rigide teorie divulgate da Engels? Era possibile che la spietatezza del bolscevismo, sempre giustificata dall’obiettivo di dare il potere alla classe operaia, fosse inconciliabile con il comunismo immaginato da Marx? Era possibile che, dopotutto, il comunismo non costituisse una rottura con l’umanesimo filosofico dell’illuminismo, ma ne fosse invece l’espressione più compiuta? Queste furono le domande che Dunaevskaja si fece, sulla base delle quali stabilì nuove priorità pratiche. In futuro la sinistra avrebbe dovuto costruire le sue politiche partendo dall’esperienza dei singoli esseri umani e dalla loro ricerca della libertà. Negli Stati Uniti degli anni cinquanta questo significava non solo appoggiare la lotta degli operai nelle fabbriche, ma anche sostenere il femminismo, i diritti civili dei neri, i diritti dei popoli indigeni e le lotte antimperialiste del sud del mondo. E significava anche sostenere inequivocabilmente le rivolte contro lo stalinismo che esplosero in Germania nel 1953 e in Ungheria nel 1956. Quando i ricercatori alla fine degli anni sessanta scoprirono e pubblicarono il Frammento sulle macchine, Dunaevskaja capì che era l’ultima tessera del puzzle: non era una teoria sul crollo economico del capitalismo dovuto al calo dei profitti, ma una teoria della liberazione tecnologica. Marx aveva previsto che, liberato dal peso del lavoro grazie ai progressi dell’automazione, il genere umano avrebbe usato le sue energie “per il libero sviluppo dell’individuo”, non per realizzare un’utopia collettivistica. Frida Kahlo prese invece una strada diversa. Il suo ultimo quadro la mostra seduta sotto un ritratto di Stalin. Aveva avuto una storia d’amore con Trotskij e lo aveva visto mentre veniva ucciso in casa sua. E aveva praticato un tipo di pittura surrealista che Trotskij apprezzava ma che Mosca considerava degenerata. Perché aveva deciso di celebrare l’uomo che aveva ordinato l’uccisione di Trotskij? Anche se Frida Kahlo non poteva saperlo, il tema centrale della sua arte era sempre stato il concetto marxista di alienazione. La pittrice considerava l’io il luogo in cui sarebbe stata raggiunta la liberazione umana; nei suoi quadri aveva esplorato l’alienazione del suo sesso, della sessualità, della disabilità e dell’etnicità. Le sue efficaci rappresentazioni dell’infelicità e dell’isolamento l’hanno fatta diventare, a partire dagli anni settanta, una specie di santa patrona del femminismo. Ma è chiaro che l’artista considerava non marxisti e antipolitici i suoi quadri oggi più famosi. Una volta li definì “piccoli e poco importanti, pieni di temi personali che interessano solo a me e a nessun altro”. I veri quadri politici erano quelli di suo marito Diego Rivera. L’idea che anche il personale è politico non apparteneva alla sua generazione. Durante la guerra fredda, mentre tutto il mondo si schierava con l’occidente o con l’Unione Sovietica, Kahlo fece la stessa scelta di molte altre persone di sinistra: si iscrisse al Partito comunista messicano e rinnegò Trotskij. Anche i suoi quadri cambiarono. Cominciò a dipingere grandi allegorie sociali, come Il marxismo guarirà gli infermi (1954), in cui non comparivano più gli aspetti mistici e metaforici delle sue prime opere. Non fu una scelta da dilettante della politica. Nel 1952 aveva scritto sul suo diario: “Non sono mai stata trotskista. Capisco perfettamente la dialettica materialista di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse. Li amo e li considero i pilastri del nuovo mondo comunista”. La traiettoria politica di Kahlo è un chiaro esempio di quello che succede al marxismo quando si allontana dall’umanesimo. La pittrice doveva tenere il suo interesse artistico per i traumi psicologici e per la libertà sessuale nettamente separato dall’ideologia del materialismo dialettico. Il suo accento sull’io indifeso, sulla bellezza della persona oppressa, sull’ineludibile potere della natura, era frutto della stessa idea di libertà che Marx aveva espresso nel 1844. Ma Kahlo non riusciva a conciliarlo con il marxismo della propaganda sovietica. E alla fine ebbe la meglio la propaganda.
Di fronte al dilemma
Cosa rimane del marxismo nella nostra era di euforia tecnologica e di catastrofi ambientali? Di certo non la sua idea di classe: nonostante la forza lavoro del pianeta sia raddoppiata, gli operai dei paesi in via di sviluppo sono intrappolati nella società borghese quanto lo erano i loro colleghi bianchi del novecento. Le agitazioni sul lavoro continueranno, ma il capitalismo ha imparato a evitare che si trasformino in rivoluzioni. Tutto questo sembra tragico solo se non si sono mai letti i Manoscritti economico-filosofici. Il Marx del 1844 teorizzava prima il comunismo e poi il ruolo dei lavoratori nel realizzarlo. Il comunismo non era il punto finale della storia ma, come disse una volta usando un’immagine quasi poetica, la fine della preistoria. Per il Marx di quei primi scritti, i lavoratori avrebbero realizzato il comunismo grazie al loro desiderio di autoeducarsi e di formare associazioni cooperative, non comportandosi come automi, spinti solo dai propri interessi materiali. All’inizio degli anni sessanta il filosofo francese Louis Althusser “risolse” il problema dei Manoscritti dichiarandoli antimarxisti. A suo avviso, rappresentavano il “Marx più lontano da Marx”, una filosofia umanistica che sarebbe dovuta “tornare nell’ombra”. Eppure Althusser riconobbe che la loro pubblicazione era stata un “evento importante per la teoria”. In effetti ancora oggi chi si definisce di sinistra deve farci i conti. Una volta che i Manoscritti furono portati alla luce, il dilemma apparve chiaro: o il marxismo è una questione di liberazione dei singoli esseri umani o è una questione di forze impersonali e di strutture che possono essere studiate ma a cui raramente si può sfuggire. o esiste una “essenza umana” che possiamo riscoprire abolendo la proprietà e le classi o siamo solo un mucchietto di ossa condizionato dall’ambiente che ci circonda e dal nostro dna. o sono gli esseri umani a fare la storia, come aveva detto Marx, o è la storia a fare la storia. Negli ultimi cinquant’anni il pensiero accademico di sinistra ha seguito in buona parte la strada antiumanista tracciata da Althusser. Dunaevskaja, come gli altri che dopo la guerra e il genocidio avevano abbracciato l’umanesimo, fu molto apprezzata ma anche considerata fuori dagli schemi. Tuttavia, il Marx che contribuì a riscoprire è tutt’altro che irrilevante per il nostro futuro. Se vogliamo difendere i diritti umani dal populismo autoritario e se pensiamo che gli esseri umani debbano poter limitare e tenere a freno le attività delle macchine pensanti, dobbiamo avere un preciso concetto di umanità da difendere.
Il soggetto rivoluzionario
Se il Marx del 1844 ha ragione, l’ideale della liberazione umana e del comunismo può sopravvivere all’atomizzazione e alla dispersione della classe operaia che avrebbe dovuto realizzarlo. Come hanno dimostrato le primavere arabe del 2011, le grandi masse umane oggi hanno la stessa capacità di agire autonomamente, di educarsi e di collaborare che Marx ammirava nella classe operaia parigina degli anni quaranta dell’ottocento. Come aveva ben capito Dunaevskaja, a far scattare l’impulso verso la libertà non è solo lo sfruttamento, ma anche l’alienazione, la repressione del desiderio, le sistematiche umiliazioni subite dalle vittime del razzismo, del sessismo e dell’omofobia. Dovunque persegue obiettivi che calpestano l’umanità delle persone, il capitalismo suscita rivolte. Lo vediamo ogni giorno intorno a noi. Nel prossimo secolo, come aveva previsto Marx, è probabile che l’automazione combinata con la socializzazione della conoscenza ci offra l’opportunità di liberarci dal lavoro. Questo fenomeno farà “saltare in aria” il capitalismo. E il sistema economico che lo sostituirà dovrà avere come obiettivo quello delineato dal filosofo tedesco nel 1844: la fine dell’alienazione e la liberazione dell’individuo. Se potessi dialogare con le persone ritratte in quella fotografia del 1937, dopo essermi congratulato per la loro magnifica vita di resistenza e sofferenza, gli direi: “Il desiderio di un marxismo umanista che state reprimendo, l’impulso verso la liberazione individuale, in realtà sono già in Marx e aspettano solo di essere scoperti. Perciò dipingete quello che volete, amate chi volete. Al diavolo il partito. Il vero soggetto rivoluzionario è l’io!”.

Paul Mason è un giornalista britannico esperto di economia. In Italia ha pubblicato Postcapitalismo (Il Saggiatore 2016).


internazionale 8.6.18
L’opinione
Il punto di vista dell’Economist
Intuizioni da rivalutare
Le idee di Marx sulle contraddizioni del capitalismo sono ancora utili, scrive il settimanale liberale britannico


“Un buon sottotitolo per una biografia di Karl Marx potrebbe essere ‘analisi di un fallimento’. Marx sosteneva che lo scopo della filosofia non è solo capire il mondo ma migliorarlo. Eppure, la sua filosofia il mondo lo ha per lo più peggiorato: il 40 per cento degli esseri umani vissuti per buona parte del novecento sotto regimi marxisti è stata vittima di carestie, gulag e dittature. Tuttavia, nonostante tutte le sue sviste, Marx rimane una figura monumentale”, scrive l’Economist in un commento uscito in occasione del bicentenario della nascita del filosofo. “La principale ragione per cui Marx continua a suscitare interesse è che le sue idee sono più pertinenti oggi di quanto lo siano state negli ultimi decenni. L’ideologia dominante dopo la guerra, che ha trasferito parte del potere dal capitale alla forza lavoro e ha prodotto una grande crescita degli standard di vita, sta svanendo. La globalizzazione e l’emergere di un’economia virtuale stanno producendo una variante di capitalismo che, una volta di più, appare fuori controllo. Il ritorno del potere dalla forza lavoro al capitale sta cominciando a produrre una reazione popolare, spesso populista. Non stupisce che il libro di economia di maggior successo degli ultimi anni, Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty, ricordi nel titolo il più importante libro di Marx e le sue preoccupazioni per le disuguaglianze”. “Marx”, continua il settimanale britannico, “sosteneva che il capitalismo è sostanzialmente un sistema di ricerca della rendita: invece di creare ricchezza dal nulla, come vorrebbero credere, i capitalisti espropriano le ricchezze altrui. Marx si sbagliava a proposito del capitalismo allo stato grezzo: i grandi imprenditori in realtà accumulano fortune inventando nuovi prodotti o nuovi modi di organizzazione della produzione. Ma aveva ragione a proposito del capitalismo nella sua forma burocratica. Molti dirigenti di aziende oggi sono burocrati invece che creatori di ricchezza, pronti a usare formule ed espedienti di comodo per far crescere i loro stipendi”. Secondo Marx, inoltre, “il capitalismo è per sua natura un sistema globale. Questo è vero oggi come in epoca vittoriana. I due più evidenti sviluppi degli ultimi trent’anni sono il progressivo smantellamento delle barriere alla libera circolazione dei fattori di produzione – beni, capitali e per certi versi persone – e l’ascesa dei paesi in via di sviluppo. Le aziende globali ormai si spostano dove è più conveniente. Amministratori delegati senza confini si muovono da un paese all’altro in cerca di maggiore efficienza. Il Forum economico mondiale a Davos, in Svizzera, potrebbe tranquillamente avere come titolo ‘Marx aveva ragione’”. Il filosofo tedesco era anche convinto “che il capitalismo tendesse al monopolio, poiché i capitalisti di successo mettono fuori mercato i loro rivali più deboli prima di ottenere delle rendite di monopolio. Anche questa sembra una descrizione ragionevole del sistema del commercio modellato dalla globalizzazione e da internet. Le più grandi aziende mondiali non solo diventano ancora più grandi in termini assoluti, ma riducono anche moltissime aziende più piccole a mere appendici. I giganti della tecnologia esercitano un dominio sul mercato che non si vedeva dai tempi dei robber barons (i baroni rapinatori, come erano chiamati gli imprenditori senza scrupoli della fine dell’ottocento negli Stati Uniti). Face book e Google assorbono i due terzi delle entrate pubblicitarie degli Stati Uniti. Amazon controlla più del 40 per cento del mercato statunitense degli acquisti online. In alcuni paesi Google gestisce più del 90 per cento delle ricerche web. Non solo il medium è il messaggio: la piattaforma è il mercato”. “Agli occhi di Marx”, continua l’Economist, “il capitalismo attirava un esercito di lavoratori precari che vagavano da un lavoro all’altro. Durante il lungo periodo del boom postbellico quest’immagine sembrava insensata. I lavoratori di tutto il mondo, almeno di quello ricco, avevano posti di lavoro sicuri, case e beni in abbondanza. Anche in questo campo, tuttavia, di recente le idee di Marx sono tornate di grande attualità. La gig economy, l’economia dei lavoretti, sta accumulando una riserva di lavoratori atomizzati che aspettano di essere convocati da caposquadra elettronici per consegnare pasti alle persone, pulire le loro case o fargli da autisti. oggi il proletariato di Marx rinasce come precariato. Detto questo, la riabilitazione del filosofo tedesco non deve spingersi troppo oltre. Gli errori di Marx sono stati di gran lunga superiori alle sue intuizioni. Il più grande fallimento di Marx è la sua sottovalutazione dell’efficacia delle riforme, della possibilità di risolvere i problemi del capitalismo con la discussione razionale e il compromesso. Nei paesi avanzati, dopo la morte di Marx si è discusso più di riforme che di rivoluzioni. Politici illuminati hanno ampliato i diritti, permettendo alla classe operaia di avere un peso nel sistema”. “La grande questione”, conclude il settimanale liberista britannico, “è capire se oggi questi risultati possono essere ottenuti di nuovo. L’opposizione al capitalismo sta crescendo, anche se in forma di rabbia populista più che di solidarietà proletaria. Finora i riformatori liberali non sono stati all’altezza dei loro predecessori nella capacità di analizzare la crisi e di proporre soluzioni. Dovrebbero usare il duecentesimo anniversario della nascita di Marx per riprendere familiarità con lui: non solo per comprendere i difetti che ha brillantemente rilevato nel sistema, ma per ricordarsi del disastro che li attende se non li affronteranno”.


internazionale 8.6.18
Scienza
La forma dei numeri
Da millenni i matematici cercano una teoria che unifichi l’aritmetica e la geometria. Ora un giovane matematico tedesco, Peter Scholze, potrebbe aver trovato la soluzione
Di Gilead Amit, New Scientist, Regno Unito

Se quando aveva l’età di Chloe Joey aveva il doppio degli anni di Zoe, quanti anni avrà Zoe quando Chloe avrà il doppio degli anni che Joey ha oggi? Oppure provate con questa. Due contadini ereditano un campo quadrato che contiene una zona coltivata circolare. Senza conoscere le esatte dimensioni del campo e della zona coltivata né la posizione di questa nel campo, come si fa a tracciare un’unica linea per dividerli entrambi in parti uguali? Probabilmente state sudando freddo o state temperando la matita (se non potete aspettare per sapere la risposta, la trovate in fondo a quest’articolo). Si tratta di due problemi “matematici”, ma chiaramente sono molto diversi tra loro. Uno è di tipo aritmetico, cioè ha a che fare con le proprietà dei numeri interi: 1, 2, 3 e così via fino a quando riuscite a contare. Riguarda il numero di cose separate che esistono, ma non il loro aspetto o il comportamento. L’altro problema riguarda la geometria, una disciplina costruita sulle linee, le forme e altri oggetti misurabili e sui rapporti spaziali tra loro. I matematici cercano da tempo di costruire un ponte tra queste due antiche discipline e di creare una sorta di “grande teoria unificata”. Recentemente un giovane ricercatore sembra essersi avvicinato alla soluzione del problema. Le sue intuizioni potrebbero non solo unificare la matematica, ma anche contribuire a risolvere uno dei misteri più intriganti di tutti: il rompicapo dei numeri primi. Per questo molti pensano che ad agosto riceverà la medaglia Fields, il più importante premio della matematica. Il filosofo e matematico greco Aristotele scriveva: “Non possiamo dimostrare le verità geometriche con l’aritmetica”. Ed era anche convinto che la geometria non potesse aiutarci con i numeri. All’epoca tutti la pensavano così. Le dimostrazioni geometriche di Euclide, considerato il padre della geometria, non si basavano su cifre, ma su assiomi logici, linee e forme. I numeri esistevano su un piano diverso e più astratto, inaccessibile con gli strumenti della geometria. E così è stato più o meno fino al seicento, quando il francese René Descartes, latinizzato in Cartesio, usò le tecniche dell’algebra – della soluzione delle equazioni e della manipolazione di simboli astratti – per mettere la geometria di Euclide su un piano totalmente diverso. Introducendo il concetto che i punti geometrici, le linee e le forme potevano essere descritti da coordinate numeriche proiettate su una griglia, consentì agli studiosi di geometria di usare strumenti aritmetici per risolvere certi problemi. Oggi grazie a questa unione delle due discipline possiamo lanciare razzi nello spazio e individuare con la massima precisione la posizione degli oggetti sulla Terra. Ma per un matematico puro è una mezza vittoria. Un cerchio, per esempio, può essere descritto da un’equazione algebrica, ma un cerchio disegnato sulla carta millimetrata, ottenuto risolvendo un’equazione, coglierebbe solo un frammento di quella verità. Se cambiassimo il sistema numerico, l’equazione resterebbe valida, ma il disegno potrebbe non esserci più utile.
Obiettore di coscienza
Arriviamo così agli anni quaranta del novecento e a un altro francese. André Weil era in una prigione alle porte di Rouen, perché nei mesi precedenti all’occupazione tedesca della Francia si era dichiarato obiettore di coscienza e aveva rifiutato di arruolarsi, cosa che alla fine si era rivelata una fortuna. In una lettera alla moglie avrebbe scritto: “Se solo in prigione lavoro così bene, dovrò fare in modo di passarci due o tre mesi all’anno?”. Weil sperava di trovare una stele di Rosetta che rivelasse le corrispondenze tra l’algebra e la geometria come quelle tra i geroglifici e il greco antico, un’opera di riferimento che avrebbe permesso ai concetti di una disciplina di essere tradotti in quelli dell’altra. Mentre era dietro le sbarre, ne trovò un frammento. Aveva a che fare con l’ipotesi di Riemann, la famosa congettura sulla distribuzione dei numeri più affascinanti, i numeri primi. Si pensava già che l’ipotesi potesse avere paralleli geometrici. Negli anni trenta del novecento era stata dimostrata una sua variante per le curve ellittiche: invece di cercare di capire la distribuzione dei numeri primi, spiega la matematica Ana Caraiani, dell’Imperial college di Londra, “possiamo considerarla come il numero dei punti di una curva”. Weil dimostrò che questo equivalente dell’ipotesi di Riemann poteva essere applicato anche a una serie di curve più complesse. Sembrava che finalmente il muro che divideva le due discipline dai tempi dell’antica grecia stesse per crollare. “La dimostrazione di Weil segna l’inizio della geometria aritmetica, la scienza dal nome meno aristotelico che esista”, dice Michael Harris, della Columbia university di New York. Negli anni del dopoguerra, nell’ambiente più confortevole dell’università di Chicago, Weil cercò di applicare la sua intuizione al dilemma dei numeri primi, ma senza riuscirci. A quel punto il testimone fu raccolto da Alexander Grothendieck, uno dei più grandi matematici del novecento, che negli anni sessanta ridefinì la geometria aritmetica. Grothendieck diede alla serie di numeri interi quello che chiamò uno “spettro”, abbreviato in Spec(Z). I punti di questa entità geometrica non disegnabile erano intimamente collegati ai numeri primi. Se fosse riuscito a calcolarne la forma, si sarebbe potuta capire la distribuzione dei numeri primi e si sarebbe costruito un ponte tra l’aritmetica e la geometria che passava attraverso l’ipotesi di Riemann. La forma che cercava Grothendieck per il suo Spec(Z) era completamente diversa da qualsiasi altra forma che potrebbe esserci familiare, come i cerchi e i triangoli di Euclide o le parabole di Cartesio. Su un piano euclideo o cartesiano, un punto è solo un segno su una supericie piatta, dice Harris, “ma un punto di Grothendieck è più un modo diverso di pensare al piano”. Include tutti i suoi potenziali usi, come la possibilità di disegnare un triangolo o un’ellissi sulla sua supericie, oppure di avvolgerlo come una mappa intorno a una sfera.
Tesi di dottorato
Se vi siete persi, siete in buona compagnia. Neanche Grothendieck riuscì a elaborare la geometria dello Spec(Z), e meno che mai a risolvere l’ipotesi di Riemann. A questo punto entra in gioco il tedesco Peter Scholze. Nato a Dresda nel 1987, oggi insegna all’università di Bonn. Ha gettato le fondamenta del ponte tra aritmetica e geometria nella sua tesi di dottorato, pubblicata nel 2012, quando aveva 24 anni. Scholze ha introdotto un’estensione della geometria di Grothendieck che ha chiamato geometria degli spazi perfettoidi. La sua costruzione parte da un sistema di numeri noti con il nome di p-adici, che sono strettamente collegati ai numeri primi. Il punto chiave è che, secondo la teoria di Scholze, è possibile far comportare un numero primo, rappresentato dai p-adici a esso associati, come variabile di un’equazione, consentendo così l’applicazione dei metodi geometrici in un contesto aritmetico. Non è facile spiegarla meglio di così. L’innovazione di Scholze è “uno dei concetti più diicili mai introdotti nella geometria aritmetica, che ha una lunga tradizione di concetti difficili”, dice Harris. Perino la maggioranza dei matematici di oggi la trova quasi incomprensibile, aggiunge. In ogni caso negli ultimi anni Scholze e pochi altri iniziati hanno usato questo sistema per risolvere o chiarire molti problemi di geometria aritmetica, riscuotendo l’approvazione generale. “È un matematico davvero unico”, dice Caraiani, che ha collaborato con lui. “È molto stimolante lavorare nel suo stesso campo”.
Ad agosto i matematici di tutto il mondo si riuniranno a Rio de Janeiro, in Brasile, per il loro congresso internazionale, che si tiene ogni quattro anni. L’evento centrale sarà la consegna delle medaglie Fields. Ogni volta si assegnano fino a quattro medaglie ad altrettanti matematici sotto i quarant’anni, e questa volta c’è un solo nome che tutti si aspettano di trovare nella lista. “Quest’anno l’unico motivo per cui potrebbe non ottenere il premio è che la commissione lo giudica ancora giovane e decide che può aspettare altri quattro anni”, dice Marcus du Sautoy, dell’università di Oxford. Con tutte queste prospettive che si stanno aprendo, la questione dello Spec(Z) e dell’ipotesi di Riemann diventa quasi secondaria. I nuovi metodi hanno permesso a Scholze di studiare la geometria, nel senso anticipato da Grothendieck, che vedremmo se analizzassimo la curva Spec(Z) al microscopio intorno al punto che corrisponde a un numero primo p. C’è ancora molta strada da fare per arrivare a capire la curva nel suo insieme o per dimostrare l’ipotesi di Riemann, ma il suo lavoro ha dato ai matematici la speranza che l’obiettivo possa essere raggiunto. Gli spazi perfettoidi di Scholze hanno permesso di costruire ponti anche in direzioni completamente diverse. Nel 1967 Robert Langlands, un matematico di Princeton che all’epoca aveva trent’anni, scrisse una lettera a Weil per prospettargli una nuova idea. “Se è disposto a leggerla come pura ipotesi, le sarei molto grato”, diceva. “Altrimenti sono sicuro che ha a portata di mano un cestino dei rifiuti”. Langlands suggeriva che due branche della matematica completamente distinte tra loro, la teoria dei numeri e l’analisi armonica, potevano essere collegate. In pratica quell’idea conteneva i semi del futuro programma di Langlands, una serie di congetture molto influenti che alcuni matematici hanno usato come base per una grande teoria uniicata capace di collegare le tre discipline matematiche fondamentali: l’aritmetica, la geometria e l’analisi, un campo di studio molto vasto che a scuola incontriamo con il nome di calcolo. Centinaia di matematici di tutto il mondo, compreso Scholze, si sono impegnati a completarla. Così come non lo è stata l’ipotesi originaria di Riemann, è improbabile che tutte le congetture di Langlands saranno dimostrate in tempi brevi. Ma potrebbero portare a scoperte spettacolari: l’ultimo teorema di Fermat, che ha dovuto aspettare 350 anni prima che il matematico britannico Andrew Wiles lo dimostrasse nel 1994, è proprio una loro particolare conseguenza. Di recente il matematico francese Laurent Farques ha proposto un modo di partire dal lavoro di Scholze per comprendere gli aspetti del programma di Langlands che riguardano i p-adici. Si dice che una soluzione parziale potrebbe venir fuori in tempo per il congresso di Rio de Janeiro. A marzo Langlands ha ottenuto l’altro grande riconoscimento nel campo della matematica, il premio Abel, per il lavoro svolto nella sua vita. “C’è voluto molto tempo perché l’importanza delle idee di Langlands fosse riconosciuta”, dice Caraiani. Probabilmente Scholze non dovrà aspettare tanto.

Le risposte ai due quesiti: Zoe avrà il triplo degli anni che ha oggi. I contadini dovrebbero tracciare una linea che collega il centro del campo con quello della zona coltivata.


Da sapere
I p-adici
New Scientist

Alla base degli ultimi studi per unificare l’aritmetica e la geometria ci sono i p-adici, che sono un modo alternativo per rappresentare i numeri in base a un qualsiasi numero primo p. Per ottenere un numero p-adico a partire da un qualsiasi intero positivo, per esempio, si scrive il numero in base p e lo si inverte. Quindi per scrivere 20 in forma 2-adica, si prende la sua rappresentazione binaria o base 2 – 10100 – e la si scrive al contrario, 00101. In questo modo, l’equivalente 3-adico di 20 diventa 202, mentre il 4-adico è 011. Anche le regole per manipolare i p-adici sono un po’ diverse. Per esempio, i numeri diventano più vicini man mano che la loro differenza diventa più divisibile per qualsiasi valore di p. Nei numeri 5-adici, per esempio, gli equivalenti di 11 e 36 sono molto vicini perché la loro differenza è divisibile per 5, mentre gli equivalenti di 10 e 11 sono molto più lontani. I p-adici sono stati inventati alla fine dell’ottocento e in seguito sono stati a lungo solo un grazioso giocattolo matematico: divertenti, ma senza alcuna applicazione pratica. Nel 1920, però, il matematico tedesco Helmut Hasse scoprì per caso questo concetto in un opuscolo trovato in una libreria dell’usato e ne rimase affascinato. Si rese conto che i p-adici erano un modo per imbrigliare la “non fattorializzabilità” dei numeri primi – cioè il fatto che non possono essere divisi per altri numeri – e che quindi poteva diventare una scorciatoia per risolvere problemi complicati. Da allora i p-adici hanno svolto un ruolo fondamentale in quella branca della matematica che si chiama teoria dei numeri. Quando all’inizio degli anni novanta Andrew Wiles dimostrò il famigerato ultimo teorema di Fermat (che l’equazione xn + yn = zn non ha soluzione se x, y e z sono numeri interi positivi e n è un numero intero maggiore di 2), praticamente ogni passaggio della dimostrazione implicava l’uso dei numeri p-adici.

L’opinione
Le conseguenze dell’ignoranza

“Non potrei dire più di due frasi sul perché gli aeroplani volano né saprei distinguere il concetto di massa da quello di peso o indicare la formula di un composto chimico diversa da H2O (l’acqua) e CO2 (anidride carbonica). Non conosco l’analisi matematica, né sono in grado di dire esattamente cosa sia”, scrive Janan Ganesh, commentatore politico del Financial Times. “Ma anche se sono così ignorante nelle materie scientifiche, la società mi considera comunque una persona istruita e mi permette di fare un lavoro che a volte non è molto diverso dallo svago”. Nel 1959 lo scienziato e scrittore britannico Charles Percy Snow, continua Ganesh, teorizzò l’esistenza di “due culture”, quella umanistica e quella scientifica, la prima refrattaria alla seconda in un modo che non era ricambiato. “Quando i suoi amici intellettuali ridevano del fatto che gli scienziati non sapevano molto di Shakespeare, Snow li invitava a recitare la seconda legge della termodinamica”. Alcuni eventi degli anni successivi – le missioni spaziali, la crisi energetica, l’avvento dei computer – avrebbero dovuto spingere le persone concentrate esclusivamente sulla cultura umanistica ad andare incontro alla scienza, dando vita a una specie di “terza” cultura. “Più o meno come hanno fatto Ian McEwan, che infila idee scientifiche nei suoi romanzi, o Steven Pinker, che ha cercato di stabilire una basa scientiica per lo stile letterario”. Ma oggi, a quasi sessant’anni di distanza dall’intervento di Snow, “la quasi totale ignoranza del mondo naturale non è ancora considerata un ostacolo a una vita raffinata. Nel Regno Unito le personalità scientifiche hanno dovuto sempre convivere con una cultura che li costringe in secondo piano. Non siamo di fronte a un’ideologia antiscientifica o a un mondo ultrareligioso, ma a un’avversione estetica”. In una società come quella attuale, caratterizzata dall’avanzata del populismo, ci si lamenta dello scarso peso dei fatti. L’origine del malessere, conclude Ganesh, va ricercata “nell’allontanamento tra cultura umanistica e cultura scientifica. Una cultura che non penalizza l’ignoranza tende a essere vulnerabile e credulona”.

internazionale 8.6.18
Jacinda Ardern
Successo inatteso
La premier neozelandese è la più giovane leader di governo del mondo e tra poco avrà il suo primo figlio. Sa ascoltare e interpretare i bisogni dei cittadini, ma è anche una politica scaltra e pragmatica di Jamie Smyth, Financial Times, Regno Unito

Capisco che la prima ministra più giovane del mondo sta per arrivare quando un robusto poliziotto in borghese appare sulla porta e comincia a perlustrare la stanza. Ci sono solo sette o otto tavoli da Hillside Kitchen & Cellar, un elegante e tranquillo ristorante di fronte alla residenza ufficiale di Jacinda Ardern a Wellington, la capitale della Nuova Zelanda. L’uomo non ci mette molto a notarmi seduto in un angolo. “Tutto bene?”, mi chiede, presentandosi come Eric del corpo di protezione diplomatica della Nuova Zelanda. Il servizio di sicurezza, apparentemente alla mano, è in linea con l’immagine pubblica di Ardern che nel 2017 ha conquistato i neozelandesi. La “jacindamania”, alimentata sia dallo stile fresco e informale di questa laburista di 37 anni sia dalla sua difesa delle cause progressiste, è diventata rapidamente un fenomeno globale. Insieme al presidente francese Emmanuel Macron e al primo ministro canadese Justin Trudeau, Ardern ha un ruolo di primo piano nella narrazione progressista che si oppone al nuovo populismo di destra. La sua immagine di leader dall’atteggiamento inconsueto e ottimistico si è rafforzata dopo l’annuncio, a gennaio, della sua prima gravidanza. A giugno sarà la prima donna a partorire mentre è alla guida di un governo dai tempi della leader pachistana Benazir Bhutto, morta nel 2007.
Eric è soddisfatto e, poco dopo, Ardern entra nel locale esibendo il suo caratteristico sorriso a 32 denti e il pancione ben visibile sotto la camicetta color rosso vivo. È accompagnata da un uomo dall’aria sportiva vestito in modo informale. “Spero che non sia un problema. Sono appena tornata da un evento la notte scorsa a Wanaka, quindi ho portato con me il mio compagno Clarke”, mi dice, indicandomi il suo “first gentleman”. Clarke Gayford è noto a molti neozelandesi come conduttore di una popolare trasmissione tv dedicata alla pesca, Fish of the day.
Confessioni intime
Ardern fa sedere Gayford a un tavolo separato, dove lo raggiungono alcune persone del gruppo di lavoro della prima ministra. Dopo essersi seduta, Ardern parla degli sforzi che fa per condurre una vita normale nonostante la pressione del suo incarico e la gravidanza. “Continuo a fare la spesa e ad andare da Kmart per comprare i miei vestiti prémaman”, mi dice, aggiungendo di sentirsi fortunata dal momento che Gayford resterà a casa. “Posso fare quello che sto facendo solo perché il mio compagno è in grado di occuparsi delle faccende domestiche a tempo pieno”, dice. “Non voglio passare per una superdonna, semplicemente perché non dovremmo aspettarci che le donne lo siano”. Ardern pensa di prendersi sei settimane di congedo di maternità prima di tornare al lavoro. È assalita dagli stessi dubbi e dalle stesse paure di molti futuri genitori, nonostante sia una delle poche fortunate ad aver avuto l’opportunità di discuterne con l’ex presidente statunitense Barack Obama, che ha visitato la Nuova Zelanda a marzo. “Gli ho chiesto: ‘Come gestisci il senso di colpa?’. Penso di essere una persona che si colpevolizza molto. Forse fare politica per me è la scelta peggiore”, dice con tono disarmante. “Lui mi ha detto: ‘Devi fare del tuo meglio’”. Delle confessioni così intime non sono comuni quando s’intervista un primo ministro. Una delle ragioni del successo di Ardern è la sua apparente normalità. Ma in alcune circostanze il suo candore le ha giocato contro: quando un amico ha rivelato che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump l’aveva scambiata per la moglie di Trudeau in un vertice in Asia, il malinteso ha suscitato un certo clamore sulla stampa neozelandese. Proprio mentre sto per chiederle di quest’incidente, arriva una cameriera e c’illustra il menù, un misto di portate da brunch e altre da pranzo europeo, compresi crauti, salsicce italiane e black pudding. Io ordino guanciale di manzo con sottaceti accompagnato da formaggio halloumi, pane integrale e barbabietole arrosto. Lei sceglie un’insalata di pomodori e barbabietole, e dei toast a lievitazione naturale. Ardern insiste per farmi provare un bicchiere di vino neozelandese, invece per sé ordina solo un tè alla menta. “Dovrai bere al posto mio. Preferisco che almeno qualcuno se la goda un po’”, dice ridendo. È stato un anno intenso. Eletta viceleader del Partito laburista neozelandese nel marzo del 2017, ha assunto la carica di leader sette settimane prima delle elezioni dello scorso settembre, dopo le dimissioni improvvise del suo predecessore. Lei stessa era scettica sulle sue possibilità: “Tutti sanno che ho appena accettato, con poco preavviso, il peggior incarico possibile in politica”, ha detto all’epoca. I laburisti, che non erano al potere da nove anni e che, secondo i sondaggi, erano indietro di più di venti punti percentuali rispetto al Partito nazionale al governo, si preparavano alla quarta sconfitta consecutiva e a un’altra demoralizzante esperienza all’opposizione. Ma poi è successo qualcosa d’inatteso. In un paese più volte elogiato dalla banca Hsbc per la sua solidissima economia, una campagna elettorale aggressivamente incentrata sulle diseguaglianze e sull’aumento delle persone rimaste senza casa ha colpito nel segno e ha colmato il divario tra i due partiti. Anche se nelle ultime fasi della campagna elettorale il sostegno ai laburisti è calato, Ardern ha comunque formato un governo di coalizione con il partito nazionalista e populista New Zealand first e con i Verdi. Ardern si è resa conto che le cose stavano cambiando quando i giornalisti hanno cominciato a concentrarsi sulle persone senza fissa dimora che a Auckland erano costrette a dormire nelle auto, alcuni con i loro bambini. “L’uguaglianza fa parte del nostro dna”, spiega. “La gente ha avuto la sensazione, credo, che ci stessimo allontanando da alcuni punti che, indipendentemente dal colore politico, sono stati fondamentali per il sistema di valori della Nuova Zelanda e per l’idea che avevamo di noi stessi”. Ardern si è avvicinata alla sinistra da ragazza. Cresciuta negli anni ottanta in una cittadina rurale della Nuova Zelanda, dove suo padre era un agente di polizia e sua madre una dipendente della mensa scolastica, ha visto molte famiglie faticare per arrivare alla fine del mese durante quel turbolento periodo di riforme di libero mercato.
Un messaggio di speranza
Ai tempi della scuola ha fondato una sede di Amnesty International, attiva ancora oggi. La famiglia era di fede mormona, ma Ardern ha abbandonato la chiesa poco dopo i vent’anni a causa delle sue posizioni conservatrici sull’omosessualità. John Inger, il suo ex preside che ho contattato il giorno prima d’incontrarla, mi ha detto che era una studente fantastica, un’oratrice brillante e forse una persona troppo gentile per occuparsi di politica. Eppure la capacità di Ardern di fare leva sul disagio popolare per l’aumento del costo degli alloggi, per la bassa crescita dei salari e per l’inadeguatezza delle infrastrutture rilette anche le sue spiccate capacità politiche, affinate quando lavorava nella squadra di Helen Clark, l’ex prima ministra laburista eletta per tre volte tra il 1999 e il 2008. In seguito Ardern ha lavorato per qualche tempo nell’ufficio di gabinetto del Regno Unito, durante il governo di Tony Blair. “Ero lì quando Gordon Brown stava prendendo il comando”, spiega. “È stato fantastico, ho imparato molto”. Nonostante il suo stile intrigante e la capacità di entrare in sintonia con la gente, Ardern è più un’addetta ai lavori che una ribelle: una consumata professionista della politica, con poca esperienza in altri settori. “Ho lavorato in un negozio di fish and chips la stessa quantità di tempo che ho passato in parlamento”, dice riferendosi a un lavoro che svolgeva da ragazza dopo la scuola. “Ho avuto delle esperienze specifiche nella politica, ma non sono state le uniche cose che ho fatto né quelle che mi hanno reso la persona che sono”. Quando cominciamo a parlare della situazione politica internazionale, arriva il tè di Ardern, accompagnato da un bicchiere di vino dall’aspetto torbido. Accorgendosi della mia perplessità, la cameriera spiega che questa particolare varietà di Canterbury viene fatta fermentare con le bucce d’uva per varie settimane, per aumentarne il sapore e la consistenza. È delizioso. “Credo che buona parte della popolazione si sia sentita penalizzata dalla crisi finanziaria e da quella che percepisce come globalizzazione”, spiega Ardern. “La mia sensazione è che le reazioni della gente in alcuni referendum e in alcune elezioni esprimessero preoccupazione per la mancanza di risposte a un crescente senso d’insicurezza. Noi politici possiamo riempire questo vuoto con un messaggio di speranza, oppure possiamo sfruttarlo con la paura e dando la colpa ad altri”. Nella risposta di Ardern ci sono grandi impegni verso l’elettorato: risolvere la crisi abitativa, portare centomila bambini fuori dalla soglia di povertà e avviare la Nuova Zelanda verso l’obiettivo di diventare un’economia a emissioni zero entro il 2050, per citarne alcuni. Il suo governo ha esordito in maniera coraggiosa. Ad aprile Ardern ha vietato ogni futura esplorazione petrolifera o di gas in mare aperto, una rottura con le politiche del Partito nazionale, che corteggiava le grandi aziende petrolifere. Ha aumentato il salario minimo di 75 centesimi, facendolo salire a 16,50 dollari neozelandesi all’ora, circa 10 euro. Inoltre ha cominciato a eliminare poco a poco le tasse universitarie e ha approvato leggi contro l’acquisto di proprietà immobiliari da parte degli stranieri. Ma Ardern ha mostrato anche un atteggiamento pragmatico, aderendo al Partenariato transpacifico (Tpp), un accordo commerciale che coinvolge undici paesi e che aveva criticato quando era all’opposizione. Ardern, femminista, non è un’ammiratrice di Trump ma è troppo diplomatica per dirlo, vista la stretta relazione commerciale e militare tra la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti. Le ricordo che, prima di diventare prima ministra, si era unita alle centinaia di manifestanti della marcia delle donne di Auckland, organizzata il giorno dopo l’insediamento di Trump nel gennaio del 2017. “Per me non è stata una marcia postelettorale, ma una manifestazione per il futuro dei diritti delle donne in Nuova Zelanda”, dice Ardern. Ma durante un vertice asiatico, quando Trump ha ironizzato sul fatto che avesse “creato molti problemi nel paese” vincendo le elezioni, Ardern ha subito replicato: “Nessuno ha protestato quando sono stata eletta”. Ardern, che la rivista Vogue ha definito “anti-Trump”, sarà in grado di costruire uno stretto legame con l’amministrazione statunitense? “Ma certo, dobbiamo farlo”, dice. “In ogni relazione esistono motivi di dissidio”. Ci fermiamo un attimo per osservare il tavolo vicino, dove qualcuno si sta unendo alla squadra della prima ministra. Nel ristorante alcuni avventori hanno lasciato i loro tavoli per guardare i quadri degli artisti locali appesi alle pareti. Sono stupito del fatto che nessuno sembra interessato alla premier che pranza. Almeno qui i neozelandesi sono all’altezza della loro reputazione e rifuggono dal culto della celebrità. Comincio a parlare delle crescenti preoccupazioni per l’influenza del Partito comunista cinese sulla società e sulla politica neozelandesi, emerse proprio mentre il governo cerca di rafforzare i suoi accordi commerciali con Pechino. L’Australia renderà più severe le sue leggi sullo spionaggio straniero, mentre finora la Nuova Zelanda non ha preso decisioni chiare. “Stiamo considerando la questione con attenzione”, spiega Ardern, che insiste su un punto: il suo governo non ha paura di esporsi riguardo ai diritti umani, anche quando la questione coinvolge il suo principale alleato commerciale, cioè la Cina. John Key, l’ex primo ministro neozelandese, fu criticato per non aver incontrato il Dalai Lama in visita nel paese nel 2009, pur avendolo promesso in campagna elettorale. Ardern sostiene che in futuro ogni incontro con il leader spirituale tibetano sarà valutato dal suo governo caso per caso, suggerendo così che non vuole fare innervosire Pechino.
Luna di miele
Proprio mentre sembra che la pazienza di Ardern per questo genere di domande si stia esaurendo, arrivano i nostri piatti. Il mio è presentato in maniera stupenda, con un ricco assortimento di sottaceti. L’insalata della premier non è abbondante, ma lei mi dice che è sufficiente. “Ieri ho mangiato molto. Ho partecipato a una colazione, a un pranzo e a una cena ufficiali: forse è il bambino che mi blocca lo stomaco, ma non ho fame”, dice. La jacindamania era in piena espansione quando, ad aprile, Ardern è andata in Europa per partecipare al vertice dei leader del Commonwealth a Londra e a due incontri commerciali con Macron e con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Il viaggio, con un colpo da maestra dal punto di vista dell’immagine, si è concluso con un incontro con la regina Elisabetta II a Buckingham palace. Per l’occasione Ardern ha indossato un mantello maori tradizionale. Tuttavia in Nuova Zelanda stanno emergendo i primi segnali del fatto che la luna di miele politica di Ardern sta per finire. Un progetto recente di aumento delle imposte sulla benzina ha alimentato le polemiche. La premier è accusata di non mantenere la promessa di non introdurre nuove tasse, mentre a marzo la ministra delle telecomunicazioni, Clare Curran, è stata coinvolta in uno scandalo che ha portato alle dimissioni di una dirigente di Radio New Zealand (Rnz). Tutti i governi prima o poi incontrano problemi del genere, ma Ardern dovrà gestirli con abilità, data la natura della coalizione che guida. Winston Peters, il leader populista del partito New Zealand first e vice primo ministro, è considerato dagli analisti politici una mina vagante e non è un alleato naturale dei Verdi, il cui sostegno è invece fondamentale per la tenuta della coalizione. Mentre la cameriera si avvicina al nostro tavolo per portare via i piatti, riferisco ad Ardern la mia conversazione con il suo ex preside. I commenti sull’eccessiva gentilezza riecheggiavano i dubbi sollevati dopo che la premier si è rifiutata di licenziare la ministra delle telecomunicazioni.
Cosa pensa delle accuse secondo cui sarebbe “troppo gentile” per prendere le decisioni spiacevoli richieste a una persona che ricopre il suo ruolo?
Ardern scuote la testa: “La ministra meritava di essere licenziata? No. A volte anche affrontare certe situazioni – per esempio quelle in cui sarebbe ingiusto obbligare qualcuno a dimettersi – richiede capacità di comando”, spiega. “Il mondo della politica è duro e bisogna sapersi difendere”, continua. “Sì, è vero che sono sensibile, ma questo significa anche che la mia bussola politica è intatta, e il mio senso di empatia e di gentilezza continuano a essere in prima linea”. Con queste parole si alza per cercare di pagare il conto. Mi alzo di scatto anch’io per fermarla, mettendo in agitazione Eric e il resto del servizio di sicurezza. Mentre Ardern va verso la porta, si volta e mi dice: “Ci vedremo la prossima volta che sarai qui e capiremo se sarò sulla cresta dell’onda o in disgrazia”. Almeno per ora, la prima ministra neozelandese sembra dormire sonni tranquilli.

internazionale 8.6.18
Dalla Spagna
La letteratura non ha genere
El País


Durante la Feria di Madrid il collettivo Mujeres del libro ha chiarito pubblicamente i suoi obiettivi Tutto è cominciato con un manifesto, firmato da ottomila donne, che denuncia il divario di genere nel mondo dell’editoria: perché, se nel settore le donne rappresentano l’80 per cento della forza lavoro, solo il 30 per cento è impiegato in posti di responsabilità? Il collettivo Mujeres del libro è nato a marzo, ma ino alla Feria del libro di Madrid, che si chiude il 10 giugno, non era mai apparso in pubblico. Poi, il 27 maggio, cinque sue componenti hanno parlato a nome delle circa settanta professioniste del settore (editrici, autrici e librarie) che fanno parte del collettivo. “Il valore letterario di un’opera non si giudica in base al genere”, ha afermato Patricia Escalona, editrice con vent’anni di esperienza. Molti gli obiettivi delle Mujeres del libro, alcuni di largo respiro. Ma tra gli obiettivi da afrontare con più urgenza, c’è quello di provare il divario tra i salari di uomini e donne. Non esistono studi approfonditi in materia e questo è un alibi per tutti quelli (e sono molti) che dicono che questa disparità in realtà non c’è. Con i dati alla mano sarà più facile combattere per la parità.