internazionale 8.6.18
Scienza
La forma dei numeri
Da
millenni i matematici cercano una teoria che unifichi l’aritmetica e la
geometria. Ora un giovane matematico tedesco, Peter Scholze, potrebbe
aver trovato la soluzione
Di Gilead Amit, New Scientist, Regno Unito
Se
quando aveva l’età di Chloe Joey aveva il doppio degli anni di Zoe,
quanti anni avrà Zoe quando Chloe avrà il doppio degli anni che Joey ha
oggi? Oppure provate con questa. Due contadini ereditano un campo
quadrato che contiene una zona coltivata circolare. Senza conoscere le
esatte dimensioni del campo e della zona coltivata né la posizione di
questa nel campo, come si fa a tracciare un’unica linea per dividerli
entrambi in parti uguali? Probabilmente state sudando freddo o state
temperando la matita (se non potete aspettare per sapere la risposta, la
trovate in fondo a quest’articolo). Si tratta di due problemi
“matematici”, ma chiaramente sono molto diversi tra loro. Uno è di tipo
aritmetico, cioè ha a che fare con le proprietà dei numeri interi: 1, 2,
3 e così via fino a quando riuscite a contare. Riguarda il numero di
cose separate che esistono, ma non il loro aspetto o il comportamento.
L’altro problema riguarda la geometria, una disciplina costruita sulle
linee, le forme e altri oggetti misurabili e sui rapporti spaziali tra
loro. I matematici cercano da tempo di costruire un ponte tra queste due
antiche discipline e di creare una sorta di “grande teoria unificata”.
Recentemente un giovane ricercatore sembra essersi avvicinato alla
soluzione del problema. Le sue intuizioni potrebbero non solo unificare
la matematica, ma anche contribuire a risolvere uno dei misteri più
intriganti di tutti: il rompicapo dei numeri primi. Per questo molti
pensano che ad agosto riceverà la medaglia Fields, il più importante
premio della matematica. Il filosofo e matematico greco Aristotele
scriveva: “Non possiamo dimostrare le verità geometriche con
l’aritmetica”. Ed era anche convinto che la geometria non potesse
aiutarci con i numeri. All’epoca tutti la pensavano così. Le
dimostrazioni geometriche di Euclide, considerato il padre della
geometria, non si basavano su cifre, ma su assiomi logici, linee e
forme. I numeri esistevano su un piano diverso e più astratto,
inaccessibile con gli strumenti della geometria. E così è stato più o
meno fino al seicento, quando il francese René Descartes, latinizzato in
Cartesio, usò le tecniche dell’algebra – della soluzione delle
equazioni e della manipolazione di simboli astratti – per mettere la
geometria di Euclide su un piano totalmente diverso. Introducendo il
concetto che i punti geometrici, le linee e le forme potevano essere
descritti da coordinate numeriche proiettate su una griglia, consentì
agli studiosi di geometria di usare strumenti aritmetici per risolvere
certi problemi. Oggi grazie a questa unione delle due discipline
possiamo lanciare razzi nello spazio e individuare con la massima
precisione la posizione degli oggetti sulla Terra. Ma per un matematico
puro è una mezza vittoria. Un cerchio, per esempio, può essere descritto
da un’equazione algebrica, ma un cerchio disegnato sulla carta
millimetrata, ottenuto risolvendo un’equazione, coglierebbe solo un
frammento di quella verità. Se cambiassimo il sistema numerico,
l’equazione resterebbe valida, ma il disegno potrebbe non esserci più
utile.
Obiettore di coscienza
Arriviamo così agli anni
quaranta del novecento e a un altro francese. André Weil era in una
prigione alle porte di Rouen, perché nei mesi precedenti all’occupazione
tedesca della Francia si era dichiarato obiettore di coscienza e aveva
rifiutato di arruolarsi, cosa che alla fine si era rivelata una fortuna.
In una lettera alla moglie avrebbe scritto: “Se solo in prigione lavoro
così bene, dovrò fare in modo di passarci due o tre mesi all’anno?”.
Weil sperava di trovare una stele di Rosetta che rivelasse le
corrispondenze tra l’algebra e la geometria come quelle tra i
geroglifici e il greco antico, un’opera di riferimento che avrebbe
permesso ai concetti di una disciplina di essere tradotti in quelli
dell’altra. Mentre era dietro le sbarre, ne trovò un frammento. Aveva a
che fare con l’ipotesi di Riemann, la famosa congettura sulla
distribuzione dei numeri più affascinanti, i numeri primi. Si pensava
già che l’ipotesi potesse avere paralleli geometrici. Negli anni trenta
del novecento era stata dimostrata una sua variante per le curve
ellittiche: invece di cercare di capire la distribuzione dei numeri
primi, spiega la matematica Ana Caraiani, dell’Imperial college di
Londra, “possiamo considerarla come il numero dei punti di una curva”.
Weil dimostrò che questo equivalente dell’ipotesi di Riemann poteva
essere applicato anche a una serie di curve più complesse. Sembrava che
finalmente il muro che divideva le due discipline dai tempi dell’antica
grecia stesse per crollare. “La dimostrazione di Weil segna l’inizio
della geometria aritmetica, la scienza dal nome meno aristotelico che
esista”, dice Michael Harris, della Columbia university di New York.
Negli anni del dopoguerra, nell’ambiente più confortevole
dell’università di Chicago, Weil cercò di applicare la sua intuizione al
dilemma dei numeri primi, ma senza riuscirci. A quel punto il testimone
fu raccolto da Alexander Grothendieck, uno dei più grandi matematici
del novecento, che negli anni sessanta ridefinì la geometria aritmetica.
Grothendieck diede alla serie di numeri interi quello che chiamò uno
“spettro”, abbreviato in Spec(Z). I punti di questa entità geometrica
non disegnabile erano intimamente collegati ai numeri primi. Se fosse
riuscito a calcolarne la forma, si sarebbe potuta capire la
distribuzione dei numeri primi e si sarebbe costruito un ponte tra
l’aritmetica e la geometria che passava attraverso l’ipotesi di Riemann.
La forma che cercava Grothendieck per il suo Spec(Z) era completamente
diversa da qualsiasi altra forma che potrebbe esserci familiare, come i
cerchi e i triangoli di Euclide o le parabole di Cartesio. Su un piano
euclideo o cartesiano, un punto è solo un segno su una supericie piatta,
dice Harris, “ma un punto di Grothendieck è più un modo diverso di
pensare al piano”. Include tutti i suoi potenziali usi, come la
possibilità di disegnare un triangolo o un’ellissi sulla sua supericie,
oppure di avvolgerlo come una mappa intorno a una sfera.
Tesi di dottorato
Se
vi siete persi, siete in buona compagnia. Neanche Grothendieck riuscì a
elaborare la geometria dello Spec(Z), e meno che mai a risolvere
l’ipotesi di Riemann. A questo punto entra in gioco il tedesco Peter
Scholze. Nato a Dresda nel 1987, oggi insegna all’università di Bonn. Ha
gettato le fondamenta del ponte tra aritmetica e geometria nella sua
tesi di dottorato, pubblicata nel 2012, quando aveva 24 anni. Scholze ha
introdotto un’estensione della geometria di Grothendieck che ha
chiamato geometria degli spazi perfettoidi. La sua costruzione parte da
un sistema di numeri noti con il nome di p-adici, che sono strettamente
collegati ai numeri primi. Il punto chiave è che, secondo la teoria di
Scholze, è possibile far comportare un numero primo, rappresentato dai
p-adici a esso associati, come variabile di un’equazione, consentendo
così l’applicazione dei metodi geometrici in un contesto aritmetico. Non
è facile spiegarla meglio di così. L’innovazione di Scholze è “uno dei
concetti più diicili mai introdotti nella geometria aritmetica, che ha
una lunga tradizione di concetti difficili”, dice Harris. Perino la
maggioranza dei matematici di oggi la trova quasi incomprensibile,
aggiunge. In ogni caso negli ultimi anni Scholze e pochi altri iniziati
hanno usato questo sistema per risolvere o chiarire molti problemi di
geometria aritmetica, riscuotendo l’approvazione generale. “È un
matematico davvero unico”, dice Caraiani, che ha collaborato con lui. “È
molto stimolante lavorare nel suo stesso campo”.
Ad agosto i
matematici di tutto il mondo si riuniranno a Rio de Janeiro, in Brasile,
per il loro congresso internazionale, che si tiene ogni quattro anni.
L’evento centrale sarà la consegna delle medaglie Fields. Ogni volta si
assegnano fino a quattro medaglie ad altrettanti matematici sotto i
quarant’anni, e questa volta c’è un solo nome che tutti si aspettano di
trovare nella lista. “Quest’anno l’unico motivo per cui potrebbe non
ottenere il premio è che la commissione lo giudica ancora giovane e
decide che può aspettare altri quattro anni”, dice Marcus du Sautoy,
dell’università di Oxford. Con tutte queste prospettive che si stanno
aprendo, la questione dello Spec(Z) e dell’ipotesi di Riemann diventa
quasi secondaria. I nuovi metodi hanno permesso a Scholze di studiare la
geometria, nel senso anticipato da Grothendieck, che vedremmo se
analizzassimo la curva Spec(Z) al microscopio intorno al punto che
corrisponde a un numero primo p. C’è ancora molta strada da fare per
arrivare a capire la curva nel suo insieme o per dimostrare l’ipotesi di
Riemann, ma il suo lavoro ha dato ai matematici la speranza che
l’obiettivo possa essere raggiunto. Gli spazi perfettoidi di Scholze
hanno permesso di costruire ponti anche in direzioni completamente
diverse. Nel 1967 Robert Langlands, un matematico di Princeton che
all’epoca aveva trent’anni, scrisse una lettera a Weil per prospettargli
una nuova idea. “Se è disposto a leggerla come pura ipotesi, le sarei
molto grato”, diceva. “Altrimenti sono sicuro che ha a portata di mano
un cestino dei rifiuti”. Langlands suggeriva che due branche della
matematica completamente distinte tra loro, la teoria dei numeri e
l’analisi armonica, potevano essere collegate. In pratica quell’idea
conteneva i semi del futuro programma di Langlands, una serie di
congetture molto influenti che alcuni matematici hanno usato come base
per una grande teoria uniicata capace di collegare le tre discipline
matematiche fondamentali: l’aritmetica, la geometria e l’analisi, un
campo di studio molto vasto che a scuola incontriamo con il nome di
calcolo. Centinaia di matematici di tutto il mondo, compreso Scholze, si
sono impegnati a completarla. Così come non lo è stata l’ipotesi
originaria di Riemann, è improbabile che tutte le congetture di
Langlands saranno dimostrate in tempi brevi. Ma potrebbero portare a
scoperte spettacolari: l’ultimo teorema di Fermat, che ha dovuto
aspettare 350 anni prima che il matematico britannico Andrew Wiles lo
dimostrasse nel 1994, è proprio una loro particolare conseguenza. Di
recente il matematico francese Laurent Farques ha proposto un modo di
partire dal lavoro di Scholze per comprendere gli aspetti del programma
di Langlands che riguardano i p-adici. Si dice che una soluzione
parziale potrebbe venir fuori in tempo per il congresso di Rio de
Janeiro. A marzo Langlands ha ottenuto l’altro grande riconoscimento nel
campo della matematica, il premio Abel, per il lavoro svolto nella sua
vita. “C’è voluto molto tempo perché l’importanza delle idee di
Langlands fosse riconosciuta”, dice Caraiani. Probabilmente Scholze non
dovrà aspettare tanto.
Le risposte ai due quesiti: Zoe
avrà il triplo degli anni che ha oggi. I contadini dovrebbero tracciare
una linea che collega il centro del campo con quello della zona
coltivata.
Da sapere
I p-adici
New Scientist
Alla
base degli ultimi studi per unificare l’aritmetica e la geometria ci
sono i p-adici, che sono un modo alternativo per rappresentare i numeri
in base a un qualsiasi numero primo p. Per ottenere un numero p-adico a
partire da un qualsiasi intero positivo, per esempio, si scrive il
numero in base p e lo si inverte. Quindi per scrivere 20 in forma
2-adica, si prende la sua rappresentazione binaria o base 2 – 10100 – e
la si scrive al contrario, 00101. In questo modo, l’equivalente 3-adico
di 20 diventa 202, mentre il 4-adico è 011. Anche le regole per
manipolare i p-adici sono un po’ diverse. Per esempio, i numeri
diventano più vicini man mano che la loro differenza diventa più
divisibile per qualsiasi valore di p. Nei numeri 5-adici, per esempio,
gli equivalenti di 11 e 36 sono molto vicini perché la loro differenza è
divisibile per 5, mentre gli equivalenti di 10 e 11 sono molto più
lontani. I p-adici sono stati inventati alla fine dell’ottocento e in
seguito sono stati a lungo solo un grazioso giocattolo matematico:
divertenti, ma senza alcuna applicazione pratica. Nel 1920, però, il
matematico tedesco Helmut Hasse scoprì per caso questo concetto in un
opuscolo trovato in una libreria dell’usato e ne rimase affascinato. Si
rese conto che i p-adici erano un modo per imbrigliare la “non
fattorializzabilità” dei numeri primi – cioè il fatto che non possono
essere divisi per altri numeri – e che quindi poteva diventare una
scorciatoia per risolvere problemi complicati. Da allora i p-adici hanno
svolto un ruolo fondamentale in quella branca della matematica che si
chiama teoria dei numeri. Quando all’inizio degli anni novanta Andrew
Wiles dimostrò il famigerato ultimo teorema di Fermat (che l’equazione
xn + yn = zn non ha soluzione se x, y e z sono numeri interi positivi e n
è un numero intero maggiore di 2), praticamente ogni passaggio della
dimostrazione implicava l’uso dei numeri p-adici.
L’opinione
Le conseguenze dell’ignoranza
“Non
potrei dire più di due frasi sul perché gli aeroplani volano né saprei
distinguere il concetto di massa da quello di peso o indicare la formula
di un composto chimico diversa da H2O (l’acqua) e CO2 (anidride
carbonica). Non conosco l’analisi matematica, né sono in grado di dire
esattamente cosa sia”, scrive Janan Ganesh, commentatore politico del
Financial Times. “Ma anche se sono così ignorante nelle materie
scientifiche, la società mi considera comunque una persona istruita e mi
permette di fare un lavoro che a volte non è molto diverso dallo
svago”. Nel 1959 lo scienziato e scrittore britannico Charles Percy
Snow, continua Ganesh, teorizzò l’esistenza di “due culture”, quella
umanistica e quella scientifica, la prima refrattaria alla seconda in un
modo che non era ricambiato. “Quando i suoi amici intellettuali
ridevano del fatto che gli scienziati non sapevano molto di Shakespeare,
Snow li invitava a recitare la seconda legge della termodinamica”.
Alcuni eventi degli anni successivi – le missioni spaziali, la crisi
energetica, l’avvento dei computer – avrebbero dovuto spingere le
persone concentrate esclusivamente sulla cultura umanistica ad andare
incontro alla scienza, dando vita a una specie di “terza” cultura. “Più o
meno come hanno fatto Ian McEwan, che infila idee scientifiche nei suoi
romanzi, o Steven Pinker, che ha cercato di stabilire una basa
scientiica per lo stile letterario”. Ma oggi, a quasi sessant’anni di
distanza dall’intervento di Snow, “la quasi totale ignoranza del mondo
naturale non è ancora considerata un ostacolo a una vita raffinata. Nel
Regno Unito le personalità scientifiche hanno dovuto sempre convivere
con una cultura che li costringe in secondo piano. Non siamo di fronte a
un’ideologia antiscientifica o a un mondo ultrareligioso, ma a
un’avversione estetica”. In una società come quella attuale,
caratterizzata dall’avanzata del populismo, ci si lamenta dello scarso
peso dei fatti. L’origine del malessere, conclude Ganesh, va ricercata
“nell’allontanamento tra cultura umanistica e cultura scientifica. Una
cultura che non penalizza l’ignoranza tende a essere vulnerabile e
credulona”.