lunedì 11 giugno 2018

internazionale 8.6.18
Scienza
La forma dei numeri
Da millenni i matematici cercano una teoria che unifichi l’aritmetica e la geometria. Ora un giovane matematico tedesco, Peter Scholze, potrebbe aver trovato la soluzione
Di Gilead Amit, New Scientist, Regno Unito

Se quando aveva l’età di Chloe Joey aveva il doppio degli anni di Zoe, quanti anni avrà Zoe quando Chloe avrà il doppio degli anni che Joey ha oggi? Oppure provate con questa. Due contadini ereditano un campo quadrato che contiene una zona coltivata circolare. Senza conoscere le esatte dimensioni del campo e della zona coltivata né la posizione di questa nel campo, come si fa a tracciare un’unica linea per dividerli entrambi in parti uguali? Probabilmente state sudando freddo o state temperando la matita (se non potete aspettare per sapere la risposta, la trovate in fondo a quest’articolo). Si tratta di due problemi “matematici”, ma chiaramente sono molto diversi tra loro. Uno è di tipo aritmetico, cioè ha a che fare con le proprietà dei numeri interi: 1, 2, 3 e così via fino a quando riuscite a contare. Riguarda il numero di cose separate che esistono, ma non il loro aspetto o il comportamento. L’altro problema riguarda la geometria, una disciplina costruita sulle linee, le forme e altri oggetti misurabili e sui rapporti spaziali tra loro. I matematici cercano da tempo di costruire un ponte tra queste due antiche discipline e di creare una sorta di “grande teoria unificata”. Recentemente un giovane ricercatore sembra essersi avvicinato alla soluzione del problema. Le sue intuizioni potrebbero non solo unificare la matematica, ma anche contribuire a risolvere uno dei misteri più intriganti di tutti: il rompicapo dei numeri primi. Per questo molti pensano che ad agosto riceverà la medaglia Fields, il più importante premio della matematica. Il filosofo e matematico greco Aristotele scriveva: “Non possiamo dimostrare le verità geometriche con l’aritmetica”. Ed era anche convinto che la geometria non potesse aiutarci con i numeri. All’epoca tutti la pensavano così. Le dimostrazioni geometriche di Euclide, considerato il padre della geometria, non si basavano su cifre, ma su assiomi logici, linee e forme. I numeri esistevano su un piano diverso e più astratto, inaccessibile con gli strumenti della geometria. E così è stato più o meno fino al seicento, quando il francese René Descartes, latinizzato in Cartesio, usò le tecniche dell’algebra – della soluzione delle equazioni e della manipolazione di simboli astratti – per mettere la geometria di Euclide su un piano totalmente diverso. Introducendo il concetto che i punti geometrici, le linee e le forme potevano essere descritti da coordinate numeriche proiettate su una griglia, consentì agli studiosi di geometria di usare strumenti aritmetici per risolvere certi problemi. Oggi grazie a questa unione delle due discipline possiamo lanciare razzi nello spazio e individuare con la massima precisione la posizione degli oggetti sulla Terra. Ma per un matematico puro è una mezza vittoria. Un cerchio, per esempio, può essere descritto da un’equazione algebrica, ma un cerchio disegnato sulla carta millimetrata, ottenuto risolvendo un’equazione, coglierebbe solo un frammento di quella verità. Se cambiassimo il sistema numerico, l’equazione resterebbe valida, ma il disegno potrebbe non esserci più utile.
Obiettore di coscienza
Arriviamo così agli anni quaranta del novecento e a un altro francese. André Weil era in una prigione alle porte di Rouen, perché nei mesi precedenti all’occupazione tedesca della Francia si era dichiarato obiettore di coscienza e aveva rifiutato di arruolarsi, cosa che alla fine si era rivelata una fortuna. In una lettera alla moglie avrebbe scritto: “Se solo in prigione lavoro così bene, dovrò fare in modo di passarci due o tre mesi all’anno?”. Weil sperava di trovare una stele di Rosetta che rivelasse le corrispondenze tra l’algebra e la geometria come quelle tra i geroglifici e il greco antico, un’opera di riferimento che avrebbe permesso ai concetti di una disciplina di essere tradotti in quelli dell’altra. Mentre era dietro le sbarre, ne trovò un frammento. Aveva a che fare con l’ipotesi di Riemann, la famosa congettura sulla distribuzione dei numeri più affascinanti, i numeri primi. Si pensava già che l’ipotesi potesse avere paralleli geometrici. Negli anni trenta del novecento era stata dimostrata una sua variante per le curve ellittiche: invece di cercare di capire la distribuzione dei numeri primi, spiega la matematica Ana Caraiani, dell’Imperial college di Londra, “possiamo considerarla come il numero dei punti di una curva”. Weil dimostrò che questo equivalente dell’ipotesi di Riemann poteva essere applicato anche a una serie di curve più complesse. Sembrava che finalmente il muro che divideva le due discipline dai tempi dell’antica grecia stesse per crollare. “La dimostrazione di Weil segna l’inizio della geometria aritmetica, la scienza dal nome meno aristotelico che esista”, dice Michael Harris, della Columbia university di New York. Negli anni del dopoguerra, nell’ambiente più confortevole dell’università di Chicago, Weil cercò di applicare la sua intuizione al dilemma dei numeri primi, ma senza riuscirci. A quel punto il testimone fu raccolto da Alexander Grothendieck, uno dei più grandi matematici del novecento, che negli anni sessanta ridefinì la geometria aritmetica. Grothendieck diede alla serie di numeri interi quello che chiamò uno “spettro”, abbreviato in Spec(Z). I punti di questa entità geometrica non disegnabile erano intimamente collegati ai numeri primi. Se fosse riuscito a calcolarne la forma, si sarebbe potuta capire la distribuzione dei numeri primi e si sarebbe costruito un ponte tra l’aritmetica e la geometria che passava attraverso l’ipotesi di Riemann. La forma che cercava Grothendieck per il suo Spec(Z) era completamente diversa da qualsiasi altra forma che potrebbe esserci familiare, come i cerchi e i triangoli di Euclide o le parabole di Cartesio. Su un piano euclideo o cartesiano, un punto è solo un segno su una supericie piatta, dice Harris, “ma un punto di Grothendieck è più un modo diverso di pensare al piano”. Include tutti i suoi potenziali usi, come la possibilità di disegnare un triangolo o un’ellissi sulla sua supericie, oppure di avvolgerlo come una mappa intorno a una sfera.
Tesi di dottorato
Se vi siete persi, siete in buona compagnia. Neanche Grothendieck riuscì a elaborare la geometria dello Spec(Z), e meno che mai a risolvere l’ipotesi di Riemann. A questo punto entra in gioco il tedesco Peter Scholze. Nato a Dresda nel 1987, oggi insegna all’università di Bonn. Ha gettato le fondamenta del ponte tra aritmetica e geometria nella sua tesi di dottorato, pubblicata nel 2012, quando aveva 24 anni. Scholze ha introdotto un’estensione della geometria di Grothendieck che ha chiamato geometria degli spazi perfettoidi. La sua costruzione parte da un sistema di numeri noti con il nome di p-adici, che sono strettamente collegati ai numeri primi. Il punto chiave è che, secondo la teoria di Scholze, è possibile far comportare un numero primo, rappresentato dai p-adici a esso associati, come variabile di un’equazione, consentendo così l’applicazione dei metodi geometrici in un contesto aritmetico. Non è facile spiegarla meglio di così. L’innovazione di Scholze è “uno dei concetti più diicili mai introdotti nella geometria aritmetica, che ha una lunga tradizione di concetti difficili”, dice Harris. Perino la maggioranza dei matematici di oggi la trova quasi incomprensibile, aggiunge. In ogni caso negli ultimi anni Scholze e pochi altri iniziati hanno usato questo sistema per risolvere o chiarire molti problemi di geometria aritmetica, riscuotendo l’approvazione generale. “È un matematico davvero unico”, dice Caraiani, che ha collaborato con lui. “È molto stimolante lavorare nel suo stesso campo”.
Ad agosto i matematici di tutto il mondo si riuniranno a Rio de Janeiro, in Brasile, per il loro congresso internazionale, che si tiene ogni quattro anni. L’evento centrale sarà la consegna delle medaglie Fields. Ogni volta si assegnano fino a quattro medaglie ad altrettanti matematici sotto i quarant’anni, e questa volta c’è un solo nome che tutti si aspettano di trovare nella lista. “Quest’anno l’unico motivo per cui potrebbe non ottenere il premio è che la commissione lo giudica ancora giovane e decide che può aspettare altri quattro anni”, dice Marcus du Sautoy, dell’università di Oxford. Con tutte queste prospettive che si stanno aprendo, la questione dello Spec(Z) e dell’ipotesi di Riemann diventa quasi secondaria. I nuovi metodi hanno permesso a Scholze di studiare la geometria, nel senso anticipato da Grothendieck, che vedremmo se analizzassimo la curva Spec(Z) al microscopio intorno al punto che corrisponde a un numero primo p. C’è ancora molta strada da fare per arrivare a capire la curva nel suo insieme o per dimostrare l’ipotesi di Riemann, ma il suo lavoro ha dato ai matematici la speranza che l’obiettivo possa essere raggiunto. Gli spazi perfettoidi di Scholze hanno permesso di costruire ponti anche in direzioni completamente diverse. Nel 1967 Robert Langlands, un matematico di Princeton che all’epoca aveva trent’anni, scrisse una lettera a Weil per prospettargli una nuova idea. “Se è disposto a leggerla come pura ipotesi, le sarei molto grato”, diceva. “Altrimenti sono sicuro che ha a portata di mano un cestino dei rifiuti”. Langlands suggeriva che due branche della matematica completamente distinte tra loro, la teoria dei numeri e l’analisi armonica, potevano essere collegate. In pratica quell’idea conteneva i semi del futuro programma di Langlands, una serie di congetture molto influenti che alcuni matematici hanno usato come base per una grande teoria uniicata capace di collegare le tre discipline matematiche fondamentali: l’aritmetica, la geometria e l’analisi, un campo di studio molto vasto che a scuola incontriamo con il nome di calcolo. Centinaia di matematici di tutto il mondo, compreso Scholze, si sono impegnati a completarla. Così come non lo è stata l’ipotesi originaria di Riemann, è improbabile che tutte le congetture di Langlands saranno dimostrate in tempi brevi. Ma potrebbero portare a scoperte spettacolari: l’ultimo teorema di Fermat, che ha dovuto aspettare 350 anni prima che il matematico britannico Andrew Wiles lo dimostrasse nel 1994, è proprio una loro particolare conseguenza. Di recente il matematico francese Laurent Farques ha proposto un modo di partire dal lavoro di Scholze per comprendere gli aspetti del programma di Langlands che riguardano i p-adici. Si dice che una soluzione parziale potrebbe venir fuori in tempo per il congresso di Rio de Janeiro. A marzo Langlands ha ottenuto l’altro grande riconoscimento nel campo della matematica, il premio Abel, per il lavoro svolto nella sua vita. “C’è voluto molto tempo perché l’importanza delle idee di Langlands fosse riconosciuta”, dice Caraiani. Probabilmente Scholze non dovrà aspettare tanto.

Le risposte ai due quesiti: Zoe avrà il triplo degli anni che ha oggi. I contadini dovrebbero tracciare una linea che collega il centro del campo con quello della zona coltivata.

Da sapere
I p-adici
New Scientist

Alla base degli ultimi studi per unificare l’aritmetica e la geometria ci sono i p-adici, che sono un modo alternativo per rappresentare i numeri in base a un qualsiasi numero primo p. Per ottenere un numero p-adico a partire da un qualsiasi intero positivo, per esempio, si scrive il numero in base p e lo si inverte. Quindi per scrivere 20 in forma 2-adica, si prende la sua rappresentazione binaria o base 2 – 10100 – e la si scrive al contrario, 00101. In questo modo, l’equivalente 3-adico di 20 diventa 202, mentre il 4-adico è 011. Anche le regole per manipolare i p-adici sono un po’ diverse. Per esempio, i numeri diventano più vicini man mano che la loro differenza diventa più divisibile per qualsiasi valore di p. Nei numeri 5-adici, per esempio, gli equivalenti di 11 e 36 sono molto vicini perché la loro differenza è divisibile per 5, mentre gli equivalenti di 10 e 11 sono molto più lontani. I p-adici sono stati inventati alla fine dell’ottocento e in seguito sono stati a lungo solo un grazioso giocattolo matematico: divertenti, ma senza alcuna applicazione pratica. Nel 1920, però, il matematico tedesco Helmut Hasse scoprì per caso questo concetto in un opuscolo trovato in una libreria dell’usato e ne rimase affascinato. Si rese conto che i p-adici erano un modo per imbrigliare la “non fattorializzabilità” dei numeri primi – cioè il fatto che non possono essere divisi per altri numeri – e che quindi poteva diventare una scorciatoia per risolvere problemi complicati. Da allora i p-adici hanno svolto un ruolo fondamentale in quella branca della matematica che si chiama teoria dei numeri. Quando all’inizio degli anni novanta Andrew Wiles dimostrò il famigerato ultimo teorema di Fermat (che l’equazione xn + yn = zn non ha soluzione se x, y e z sono numeri interi positivi e n è un numero intero maggiore di 2), praticamente ogni passaggio della dimostrazione implicava l’uso dei numeri p-adici.

L’opinione
Le conseguenze dell’ignoranza

“Non potrei dire più di due frasi sul perché gli aeroplani volano né saprei distinguere il concetto di massa da quello di peso o indicare la formula di un composto chimico diversa da H2O (l’acqua) e CO2 (anidride carbonica). Non conosco l’analisi matematica, né sono in grado di dire esattamente cosa sia”, scrive Janan Ganesh, commentatore politico del Financial Times. “Ma anche se sono così ignorante nelle materie scientifiche, la società mi considera comunque una persona istruita e mi permette di fare un lavoro che a volte non è molto diverso dallo svago”. Nel 1959 lo scienziato e scrittore britannico Charles Percy Snow, continua Ganesh, teorizzò l’esistenza di “due culture”, quella umanistica e quella scientifica, la prima refrattaria alla seconda in un modo che non era ricambiato. “Quando i suoi amici intellettuali ridevano del fatto che gli scienziati non sapevano molto di Shakespeare, Snow li invitava a recitare la seconda legge della termodinamica”. Alcuni eventi degli anni successivi – le missioni spaziali, la crisi energetica, l’avvento dei computer – avrebbero dovuto spingere le persone concentrate esclusivamente sulla cultura umanistica ad andare incontro alla scienza, dando vita a una specie di “terza” cultura. “Più o meno come hanno fatto Ian McEwan, che infila idee scientifiche nei suoi romanzi, o Steven Pinker, che ha cercato di stabilire una basa scientiica per lo stile letterario”. Ma oggi, a quasi sessant’anni di distanza dall’intervento di Snow, “la quasi totale ignoranza del mondo naturale non è ancora considerata un ostacolo a una vita raffinata. Nel Regno Unito le personalità scientifiche hanno dovuto sempre convivere con una cultura che li costringe in secondo piano. Non siamo di fronte a un’ideologia antiscientifica o a un mondo ultrareligioso, ma a un’avversione estetica”. In una società come quella attuale, caratterizzata dall’avanzata del populismo, ci si lamenta dello scarso peso dei fatti. L’origine del malessere, conclude Ganesh, va ricercata “nell’allontanamento tra cultura umanistica e cultura scientifica. Una cultura che non penalizza l’ignoranza tende a essere vulnerabile e credulona”.