“In Cina esistono due diverse idee di “copia”. Il fangzhipin e
fuzhipin. (…)Il concetto di fuzhipin non ha alcuna connotazione negativa
e ha portato a molti fraintendimenti e discussioni tra la Cina e i
musei occidentali (…) La stessa idea orientale d’identità è molto
ambigua”
internazionale 1.6.18
La copia è l’originale
Di Han Byung-chui
Nel
1956 nel museo delle arti dell’Asia orientale di Parigi, il musée
Cernuschi, ci fu una mostra di capolavori dell’arte cinese. A un certo
punto si scoprì che i quadri erano dei falsi. Il caso era
particolarmente delicato, perché a produrre quei falsi era stato il più
famoso pittore cinese del novecento, Chang Dai-chien, le cui opere erano
esposte in quei giorni anche al Musée d’art moderne. Chang era
considerato il Pablo Picasso cinese: il suo incontro proprio con
Picasso, sempre nel 1956, era stato salutato come un vertice tra i
maestri dell’arte occidentale e orientale. Quando si scoprì che i
capolavori cinesi antichi erano dei falsi e che li aveva realizzati lui,
il mondo occidentale liquidò Chang Dai-chien come un semplice
truffatore. Dal suo punto di vista, tuttavia, non erano falsi. Quasi
tutti quei vecchi quadri infatti non erano semplici copie, ma repliche
di dipinti perduti che erano noti solo attraverso descrizioni scritte.
In Cina i collezionisti erano spesso pittori. Anche Chang era un
appassionato collezionista. Possedeva più di quattromila dipinti. La sua
collezione però non era un archivio morto, ma una specie di raduno di
vecchi maestri, un luogo pulsante di comunicazione e trasformazione. Lo
stesso Chang era un corpo che cambiava sempre forma, un artista della
metamorfosi. S’immedesimava senza sforzo nei grandi maestri e creava
nuovi originali. Come scrivono Shen Fu e Jan Stuart in Challenging the
past: the paintings of Chang Dai-chien: Il genio di Chang è tale che
alcuni dei suoi falsi resteranno ignoti ancora a lungo. Riproducendo
dipinti “antichi” che corrispondevano fedelmente alle descrizioni
verbali riportate sui cataloghi dei dipinti perduti, Chang fu capace di
creare falsi che i collezionisti non vedevano l’ora di scoprire. In
alcune opere trasformava le immagini in modi totalmente inaspettati; una
composizione della dinastia Ming veniva ricreata come se fosse un
dipinto della dinastia Song. I quadri di Chang sono originali nel senso
che seguono la vera traccia dei vecchi maestri e al tempo stesso ne
estendono e ne modificano retrospettivamente l’opera. Solo un’idea
pomposa dell’originale come qualcosa d’irripetibile, inviolabile e unico
può declassarli a meri falsi. Ma questa pratica della creazione
persistente (Fortschöpfung) è concepibile solo in una cultura non
incline alla rottura rivoluzionaria e alla discontinuità, che tende
invece alla continuità e alla trasformazione paciica; non all’essere e
all’essenza, ma al processo e al cambiamento. Nel 2007, dopo aver
scoperto che i guerrieri di terracotta fatti arrivare in aereo dalla
Cina non erano manufatti di duemila anni fa ma copie, il museo di
etnologia di Amburgo decise di annullare la mostra che gli aveva
dedicato. Il direttore del museo, sentendosi evidentemente il paladino
della verità e dell’autenticità, annunciò: “Siamo giunti alla
conclusione che non ci sia altra soluzione che annullare la mostra per
tutelare il buon nome del museo”. Offrì addirittura il rimborso del
biglietto d’ingresso a tutti i visitatori che avevano già visto la
mostra. Fin dall’inizio, la produzione di repliche dei guerrieri di
terracotta era andata di pari passo con gli scavi, tanto che sul sito
archeologico era stato creato un laboratorio ad hoc. Le copie
riprodotte, però, non sono “falsi”. Potremmo dire piuttosto che i cinesi
hanno provato a riprendere la produzione, una produzione che in dal
principio non era creazione in senso stretto, ma già riproduzione. Anche
gli originali, infatti, sono stati realizzati attraverso un processo di
produzione seriale che utilizzava moduli o componenti. Un processo che
avrebbe potuto essere tranquillamente replicato, se solo fossero stati
noti i metodi originali della produzione. In Cina esistono due diverse
idee di “copia”. Il fangzhipin è un’imitazione dichiarata, in cui la
differenza tra originale e copia è ovvia. Ne sono un esempio i modellini
o le statuette che si possono acquistare nei negozi dei musei. L’altro
tipo di copia è il fuzhipin. In questo caso si tratta di una
riproduzione esatta dell’originale che, per i cinesi, ha lo stesso
valore dell’originale. Il concetto di fuzhipin non ha alcuna
connotazione negativa e ha portato a molti fraintendimenti e discussioni
tra la Cina e i musei occidentali. Spesso i cinesi mandano all’estero
delle copie al posto degli originali, nella ferma convinzione che non ci
sia una differenza sostanziale. Il conseguente rifiuto che arriva dai
musei occidentali è percepito dai cinesi come un insulto. Nonostante la
globalizzazione, l’estremo oriente è ancora una grande fonte di sorpresa
e confusione, che a volte può essere distruttiva. La stessa idea
orientale d’identità è molto ambigua per l’osservatore occidentale. Il
grande santuario di Ise, il più importante luogo sacro scintoista del
paese, per i milioni di giapponesi che ci vanno in pellegrinaggio tutti
gli anni ha 1.300 anni. In realtà, il complesso viene completamente
ricostruito ogni vent’anni. Questa pratica religiosa è talmente estranea
alla concezione degli storici dell’arte occidentali che dopo accesi
dibattiti l’Unesco ha deciso di eliminare Ise dalla lista dei siti
considerati patrimonio dell’umanità. Per gli esperti dell’Unesco il
santuario ha al massimo vent’anni. Siamo di fronte a un’inversione
totale del rapporto tra originale e copia. O meglio, la differenza tra
originale e copia scompare. Al suo posto emerge una differenza tra
vecchio e nuovo. Potremmo addirittura dire che la copia è più originale
dell’originale, o che è più vicina all’originale dell’originale, perché
più l’edificio invecchia, più si allontana dallo stato in cui era quando
è nato. Una riproduzione lo riporta, per così dire, al suo stato
originale, soprattutto perché non è legato a nessun particolare artista.
Non solo il santuario di Ise: anche tutti i suoi tesori vengono
sostituiti. Al suo interno ci sono sempre due versioni del tesoro. La
questione dell’originale e della copia non esiste. Sono due copie che,
allo stesso tempo, sono due originali. In passato, quando si creavano i
nuovi tesori, quelli vecchi venivano distrutti: si bruciavano le parti
infiammabili e si seppellivano quelle in metallo. A partire dall’ultima
ricostruzione, invece, i tesori non vengono più distrutti ma esposti in
un museo. La nuova prassi è dovuta all’aumento del loro valore
espositivo. In realtà, la distruzione dei tesori è parte integrante del
loro valore di culto, che però chiaramente sta sempre più scomparendo a
favore dell’esposizione. In occidente, quando si restaurano i monumenti
spesso si mettono in evidenza le vecchie tracce. Gli elementi originali
vengono trattati come rovine. L’estremo oriente non ha dimestichezza con
questo culto dell’originale. Gli orientali hanno sviluppato una tecnica
di preservazione completamente diversa e forse ancora più efficace
della conservazione e del restauro. È un processo che si basa sulla
riproduzione continua e che annulla completamente la differenza tra
originale e replica. Potremmo anche dire che gli originali si preservano
attraverso le copie. Il modello è la natura, dove l’organismo si
rinnova attraverso la riproduzione continua delle cellule. Passato un
certo tempo, l’organismo diventa una replica di se stesso. Le vecchie
cellule vengono semplicemente sostituite da nuova materia cellulare.
Anche in questo caso, la questione dell’originale non c’è: il vecchio
muore e viene sostituito dal nuovo. Identità e rinnovamento non si
escludono a vicenda. In una cultura dove la riproduzione continua
diventa una tecnica di conservazione, le repliche sono tutto tranne che
semplici copie. La cattedrale di Friburgo, nella parte sudoccidentale
della Germania, è avvolta dalle impalcature per buona parte dell’anno.
L’arenaria con cui è stata costruita è una pietra molto soffice e
porosa, che non è in grado di resistere all’erosione naturale causata
dalla pioggia e dal vento: dopo un po’ si sbriciola. La cattedrale,
quindi, viene continuamente sottoposta a esami per vedere se ci sono
danni, e le pietre consumate vengono via via sostituite. Anche in questo
caso c’è un laboratorio apposta in cui vengono continuamente riprodotte
le figure di arenaria danneggiate. Ovviamente si cerca di preservare le
pietre del medioevo il più a lungo possibile, ma a un certo punto anche
quelle vengono rimosse e sostituite con pietre nuove. Fondamentalmente è
la stessa operazione del santuario giapponese, solo che in questo caso
la produzione della replica avviene molto lentamente e in un arco
temporale più lungo. Alla ine, però, il risultato è esattamente lo
stesso. Passato un po’ di tempo, di fatto siamo di fronte a una
riproduzione. La gente, però, immagina di trovarsi davanti a un
originale. Ma cosa avrebbe di originale la cattedrale di Friburgo se
l’ultima delle sue vecchie pietre fosse sostituita con una nuova?
L’originale è un prodotto dell’immaginazione. In linea di principio,
sarebbe possibile costruire una copia esatta della cattedrale di
Friburgo, un fuzhipin, in uno dei tanti parchi a tema della Cina.
Sarebbe una copia o un originale? Cosa la renderebbe solo una copia?
Cosa caratterizza come “originale” la cattedrale di Friburgo?
Materialmente, il suo fuzhipin non avrebbe nulla di diverso da
quell’originale che, un giorno, potrebbe non contenere più una sola
parte antica. Resterebbe solo il valore del luogo e del culto legato
alla pratica religiosa a rendere la cattedrale di Friburgo diversa dal
suo fuzhipin in un parco cinese. Ma anche qui, se sacrificassimo
completamente il valore di culto a favore del valore espositivo, la
differenza dal suo doppione scomparirebbe. Anche nel campo dell’arte,
storicamente l’idea di un originale indiscutibile si è sviluppata nel
mondo occidentale. Nel seicento, le opere d’arte dell’antichità erano
trattate molto diversamente da oggi. Non c’era l’abitudine di
restaurarle in modo fedele all’originale, ma erano sottoposte a profondi
interventi che ne modificavano l’aspetto. Per esempio, Gian Lorenzo
Bernini (1598-1680) aggiunse arbitrariamente un’elsa di spada all’Ares
Ludovisi, l’antica statua del dio Marte che a sua volta era la copia
romana di un originale greco. Al tempo del Bernini il Colosseo serviva
come cava di marmo. Le mura dell’antico anfiteatro venivano smantellate e
usate per costruire nuovi palazzi. La salvaguardia dei monumenti
storici in senso moderno comincia con la museizzazione del passato e il
conseguente aumento del valore espositivo a scapito del valore di culto.
È interessante notare che il fenomeno va a braccetto con lo sviluppo
del turismo. Il cosiddetto grand tour, il viaggio di formazione dei
giovani aristocratici europei che comincia nel rinascimento e raggiunge
la sua massima diffusione nel settecento, può essere considerato un
precursore del turismo moderno. Il valore espositivo degli edifici e
delle opere d’arte dell’antichità, presentati ai turisti come
attrazioni, aumentò. Sempre nel settecento furono prese le prime misure
per preservare le strutture antiche, la cui salvaguardia veniva ora
considerata fondamentale. L’industrializzazione accentuò l’esigenza di
conservazione e museizzazione del passato. In aggiunta a tutto ciò, le
nuove discipline della storia dell’arte e dell’archeologia scoprirono il
valore epistemologico degli edifici e delle opere d’arte del passato,
rifiutando qualsiasi tipo d’intervento che potesse modificarli. L’idea
di una postulazione preliminare, primordiale, è estranea alla cultura
dell’estremo oriente. Forse è per questo che gli asiatici hanno molti
meno scrupoli sulla clonazione rispetto agli europei. Nel 2004 il
ricercatore sudcoreano buddista Hwang Woo-suk attirò l’attenzione del
mondo per i suoi esperimenti sulla clonazione. Mentre i buddisti lo
sostennero incondizionatamente, i cristiani invocarono il divieto di
clonazione umana. Anche se alla ine si scoprì che Hwang aveva
falsificato i risultati dei suoi esperimenti, dal suo punto di vista la
loro legittimità si fondava sul fatto che era buddista: “Per me la
clonazione non pone alcun problema filosofico. Come sapete, la base del
buddismo è che la vita si ricicla attraverso la reincarnazione. In un
certo senso, penso che la clonazione terapeutica faccia ripartire la
ruota dell’esistenza”. Anche per il santuario di Ise la tecnica di
conservazione consiste nel permettere alla ruota dell’esistenza di
ripartire ogni volta da capo, preservando la vita non contro la morte ma
attraverso e oltre la morte. La morte stessa è insita nel sistema di
preservazione. L’essere, quindi, cede il passo al processo ciclico che
comprende la morte e il decadimento. Nella ruota infinita dell’esistenza
non c’è più nulla di unico, originale, singolare o finale. Esistono
solo ripetizioni e riproduzioni. Al centro della concezione buddista del
ciclo infinito della vita c’è la decreazione: non creazione ma
iterazione; non rivoluzione ma ricorrenza. La tecnologia di produzione
cinese non si basa su archetipi, ma su moduli. Come sappiamo, anche gli
eserciti di terracotta sono prodotti con moduli o componenti. La
produzione in moduli non è coerente con l’idea dell’originale, perché
utilizza comunque componenti già pronti. Il concetto più importante
della produzione modulare non è l’originalità o l’unicità, ma la
riproducibilità. Lo scopo non è la realizzazione di un oggetto unico, ma
una produzione di massa che permetta una serie di variazioni. Lo stesso
oggetto viene modulato, così da creare delle differenze. La produzione
modulare prevede variazioni, dunque dà spazio a una grande varietà.
L’unicità è negata per massimizzare l’efficienza della riproduzione. Non
è un caso che la stampa sia stata inventata in Cina. Anche la pittura
cinese usa la tecnologia modulare. Il trattato cinese di pittura, il
Manuale del giardino grande come un granello di senape, contiene una
serie infinita di parti ed elementi con cui si può comporre o assemblare
un dipinto. La questione della creatività emerge nuovamente alla luce
di questo tipo di produzione. Combinare e variare gli elementi diventa
più importante. Da questo punto di vista, la tecnologia culturale cinese
opera come la natura. Lo spiega lo storico dell’arte tedesco Lothar
Ledderose in Ten thousand things: module and mass production in chinese
art (2000): Gli artisti cinesi non perdono mai di vista il fatto che
anche produrre opere in grande quantità è un esempio di creatività.
Confidano che, come nella natura, tra diecimila cose ce ne sarà sempre
una da cui nascerà il cambiamento. L’arte cinese ha una relazione
funzionale, non mimetica, con la natura. La questione non è
rappresentare la natura nel modo più realistico possibile, ma operare
esattamente come lei. In natura anche una serie di variazioni successive
può produrre qualcosa di nuovo, chiaramente senza alcun tipo di
“genio”. Come dice Ledderose: Pittori come Zheng Xie aspirano a emulare
la natura sotto due aspetti. Producono una quantità vasta, quasi
illimitata di opere attraverso sistemi modulari di composizioni, motivi e
pennellate. Ma al tempo stesso permeano ogni singola opera di una forma
unica e inimitabile, come fa la natura nella sua prodigiosa invenzione
di forme. Una vita dedicata ad affinare la propria sensibilità artistica
permette all’artista di avvicinarsi alla forza della natura.
Han
Byung-cHui è professore di filosofia e cultural studies all’Universität
der Künste Berlin. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Filosofia
del buddismo zen (Nottetempo 2018). Questo articolo è tratto dal suo
libro Shanzhai: deconstruction in chinese (Mit Press 2017) ed è uscito
su Aeon con il titolo The copy is the original.